L'armata
francese entrò in Napoli a' 22 di gennaio. La prima cura di Championnet fu
quella d'«istallare» un governo provvisorio, il quale, nel tempo stesso che
provvedeva ai bisogni momentanei della nazione, doveva preparar la costituzione
permanente dello Stato. Una cura tanto importante fu affidata a venticinque
persone, le quali, divise in sei «comitati», si occupavano de' dettagli dell'amministrazione
ed esercitavano quello che chiamasi «potere esecutivo»; riunite insieme,
formavano l'assemblea legislativa.
I sei comitati
erano: 1° centrale, 2° dell'interno, 3° di
guerra, 4° di finanza, 5° di giustizia e di polizia, 6° di legislazione.
Le persone elette al governo furono: Abamonti, Albanese, Baffi, Bassal
francese, Bisceglia, Bruno, Cestari, Ciaia, De Gennaro, De Filippis, De Rensis,
Doria, Falcigni, Fasulo, Forges, Laubert, Logoteta, Manthoné, Pagano,
Paribelli, Pignatelli-Vaglio, Porta, Riari, Rotondo.
Ma l'immaginare
un progetto di costituzione repubblicana non è lo stesso che fondare una
repubblica. In un governo in cui la volontà pubblica, o sia la legge, non ha e
non dee avere altro sostegno, altro garante, altro esecutore che la volontà
privata, non si stabilisce la libertà se non formando uomini liberi. Prima
d'innalzare sul territorio napolitano l'edificio della libertà, vi erano, nelle
antiche costituzioni, negl'invecchiati costumi e pregiudizi, negl'interessi
attuali degli abitanti, mille ostacoli, che conveniva conoscere, che era
necessario rimuovere. Ferdinando guardava bieco la nostra nascente libertà e da
Palermo moveva tutte le macchine per riacquistare il regno perduto. Egli avea
de' potenti alleati, i quali erano per noi nemici terribili, specialmente
gl'inglesi, padroni del mare ed, in conseguenza, del commercio di Sicilia e di
Puglia, senza di cui una capitale immensa, qual è Napoli, non potea che
difficilmente sussistere.
Dall'epoca de'
romani in qua, la sorte dell'Italia meridionale dipende in gran parte da quella
della Sicilia. I romani ridussero l'Italia a giardino, il quale ben presto si
cangiò in deserto. Dopo le grandi conquiste de' romani, s'incominciò ad udire
per la prima volta che la Sicilia era il granaio dell'Italia; detto quanto
glorioso per la prima tanto ingiurioso per la seconda. Non si sarebbe ciò detto
prima del quinto secolo di Roma, quando l'Italia bastava sola ad alimentare
trenta milioni di uomini industriosi e guerrieri, di costumi semplici e
magnanimi. Ne' secoli di mezzo, chiunque fu padrone della Sicilia turbò a suo
talento l'Italia. Dalla Sicilia Belisario distrusse il regno de' goti; dalla
Sicilia i saraceni la infestarono per tre secoli, finché i normanni la
riunirono di nuovo al regno di Napoli, al quale rimase unita fino all'epoca di
Carlo primo d'Angiò. E chi potrebbe negare che quella separazione non abbia
influito a ritardare nel regno di Napoli il progresso di quella civiltà, la
quale, prima che in ogni regione d'Italia, vi avevan destata il gran Federico
di Svevia e la sventurata sua progenie? I due regni furon riuniti sotto la
lunga dominazione della casa Austriaca di Spagna. In que' tempi appunto Napoli
incominciò ad ingrandirsi, ed è divenuta una capitale immensa, la quale per
sussistere ha bisogno del formento e più dell'olio delle province lontane che
bagna l'Adriatico, ed il commercio delle quali non si può comodamente
esercitare, né la capitale potrebbe comodamente sussistere, senza il libero
passaggio per lo stretto di Messina. E si aggiunga che di quello stretto il
vero padrone è colui che possiede la Sicilia, poiché egli vi tiene in Messina
ampio e comodo porto, mentre dalla parte delle Calabrie non vi sono che picciole
e mal sicure rade.
Avea il re nel
Regno stesso non pochi partigiani, i quali amavano l'antico governo in
preferenza del nuovo; ed in qual rivoluzione non si trovano tali uomini? Vi
erano molte popolazioni in aperta controrivoluzione, perché non ancora avean
deposte quelle armi che avean prese, invitate e spinte da' proclami del re;
altre pronte a prendere, tostoché, rinvenute una volta dallo stupore che loro
ispirava una conquista sì rapida ed accorte della debolezza della forza francese,
avessero ritrovato un intrigante per capo ed un'ingiustizia, anche apparente,
del nuovo governo per pretesto di una sollevazione.
Il numero di
coloro che eran decisi per la rivoluzione, a fronte della massa intera della
popolazione, era molto scarso; e, tosto che l'affare si fosse commesso alla
decisione delle armi, era per essi inevitabile soccombere. Eccone un esempio
nella provincia di Lecce, dove la sollevazione fu prodotta da un accidente che,
per la sua singolarità, merita d'esser ricordato.
Trovavansi in
Taranto sette emigrati còrsi, che si erano colà portati a causa di procurarsi
un imbarco per la Sicilia. I continui venti di scirocco, che impediscono colà
l'uscita dal porto, impedirono la partenza de' còrsi, i quali loro malgrado
furono presenti allorché fu in Taranto proclamata la repubblica. E, dubitando
di poter essere arrestati e cader nelle mani dei francesi, sen partirono la
notte degli 8 febbraio 1799 e si diressero per Brindisi, sperando di trovar un imbarco
per Corfù o per Trieste. Dopo varie miglia di viaggio a piedi, si fermarono ad
un villaggio chiamato Monteasi: qui furono alloggiati da una vecchia donna,
alla quale, per esser ben serviti, dissero che vi era tra essi loro il principe
ereditario. Ciò bastò perché la donna uscisse e corresse da un suo parente
chiamato Bonafede Girunda, capo contadino del villaggio. Costui si recò
immediatamente dai còrsi, si inginocchiò al più giovane e gli protestò tutti
gli atti di riverenza e di vassallaggio. I còrsi rimasero sorpresi, e,
dubitando di maggiori guai, appena partito il Girunda, senz'aspettare il
giorno, se ne scapparono immediatamente. Avvertito il Girunda dalla vecchia
istessa della partenza del supposto principe ereditario, montò tosto a cavallo per
raggiungerlo; ma tenne una strada diversa. E, non avendolo incontrato,
domandando a tutti se visto avessero il principe ereditario col suo séguito,
sparse una voce, che tosto si diffuse, e bastò per far mettere in armi tutti i
paesi per dove passò e per far correre le popolazioni ad incontrarlo. Il
supposto principe fu raggiunto a Mesagne e fu obbligato dalle circostanze del
momento a sostener la parte comica incominciata; ma, non credendosi sicuro in
Mesagne, si ritirò sollecitamente in Brindisi. Qui, rinchiusosi nel forte,
cominciò a spedire degli ordini. Uno dei dispacci conteneva che, dovendo egli
partire per la Sicilia a raggiungere il suo augusto genitore, lasciava suoi
vicari nel Regno due suoi generali in capo, che il popolo dipoi credé due altri
principi del sangue. Questi due impostori, uno cognominato Boccheciampe e
l'altro De Cesare, si misero tosto alla testa degl'insurretti. Il primo restò
nella provincia di Lecce ed il secondo si diresse per quella di Bari,
conducendo seco il Girunda, che dichiarò generale di divisione.
Con questa
truppa, che fu fatta composta di birri, degli uomini d'armi dei baroni, dei
galeotti e carcerati fuggiti dalle case di forza e dai tribunali, e di tutti i
facinorosi delle due province, riuscì loro facile l'impadronirsi di tutti i
paesi che proclamata avevano la repubblica e di sottomettere con un assedio
Martina ed Acquaviva, le quali città giurato avevano piuttosto morire che
riconoscer gl'impostori. Audaci per i buoni successi avuti, tentarono di provarsi
coi francesi, i quali erano già padroni di una buona porzione della provincia
di Bari; ma, incontratisi con un piccolo distaccamento francese nel bosco di
Casamassima, furono essi intieramente disfatti e sen fuggirono, il Boccheciampe
in Brindisi ed il De Cesare in Francavilla. Il primo però cadde nelle mani dei
francesi; ma il secondo, più astuto, se ne scappò, dopo la nuova della
prigionia del suo compagno, in Torre di mare, l'antico Metaponto, e andiede ad
unirsi al cardinal Ruffo nelle vicinanze di Matera.
La nostra
rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon
fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo. Ma le vedute de'
patrioti28 e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano diverse
idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse. Quella stessa ammirazione
per gli stranieri, che avea ritardata la nostra coltura ne' tempi del re,
quell'istessa formò, nel principio della nostra repubblica, il più grande
ostacolo allo stabilimento della libertà. La nazione napolitana si potea
considerare come divisa in due popoli, diversi per due secoli di tempo e per
due gradi di clima. Siccome la parte colta si era formata sopra modelli
stranieri, così la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la
nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre
facoltà. Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi; e coloro che erano
rimasti napolitani e che componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Così
la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda,
quasi disprezzava una coltura che non l'era utile e che non
intendeva29.
Le disgrazie
de' popoli sono spesso le più evidenti dimostrazioni delle più utili verità.
Non si può mai giovare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la
patria se non si stima la nazione. Non può mai esser libero quel popolo in cui
la parte che per la superiorità della sua ragione è destinata dalla natura a
governarlo, sia coll'autorità sia cogli esempi, ha venduta la sua opinione ad
una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta allora la metà della sua
indipendenza. Il maggior numero rimane senza massime da seguire, gli ambiziosi
ne profittano, la rivoluzione degenera in guerra civile, ed allora tanto gli
ambiziosi che cedono sempre con guadagno, quanto i savi che scelgono sempre i
minori tra' mali, e gl'indifferenti i quali non calcolano che sul bisogno del
momento, si riuniscono a ricever la legge da una potenza esterna, la quale non
manca mai di profittare di simili torbidi o per se stessa o per ristabilire il
re discacciato.
Quell'amore di
patria, che nasce dalla pubblica educazione e che genera l'orgoglio nazionale è
quello che solo ha fatto reggere la Francia, ad onta di tutt'i mali che per la
sua rivoluzione ha sofferti, ad onta di tutta l'Europa collegata contro di lei:
mille francesi si avrebbero di nuovo eletto un re, ma non vi è nessuno che lo
abbia voluto ricevere dalla mano de' tedeschi o degl'inglesi. Niuno più di Pitt
dagli esempi domestici ne avrebbe dovuto esser convinto, se mai la vendetta dei
diritti borbonici fosse stata la cagione e non già il pretesto della lega, che
una tal guerra, col pretesto di rimettere un re, era inutile.
La nazione
napolitana, lungi dall'avere questa unità nazionale, si potea considerar come
divisa in tante diverse nazioni. La natura pare che abbia voluto riunire in una
picciola estensione di terreno tutte le varietà: diverso è in ogni provincia il
cielo, diverso è il suolo; le avanie del fisco, che ha sempre seguite tali
varietà per ritrovar ragioni di nuove imposizioni ovunque ritrovasse nuovi
benefìci della natura, ed il sistema feudale, che ne' secoli scorsi, tra
l'anarchia e la barbarie, era sempre diverso secondo i diversi luoghi e le
diverse circostanze, rendevano da per tutto diverse le proprietà ed, in
conseguenza, diversi i costumi degli uomini, che seguon sempre la proprietà ed
i mezzi di sussistenza.
Conveniva, tra
tante contrarietà, ritrovare un interesse comune, che chiamare e riunir potesse
tutti gli uomini alla rivoluzione. Quando la nazione si fosse una volta
riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di
noi. Se lo stato della nostra nazione presentava grandi ostacoli, offriva,
dall'altra parte, grandi risorse per menare avanti la nostra rivoluzone.
Si avea una
popolazione, la quale, sebbene non avrebbe mai fatta la rivoluzione da sé, era
però docile a riceverla da un'altra mano. I partiti decisi erano ambedue
scarsi: la massima parte della nazione era indifferente. Che altro vuol dir
questo se non che essa non era mossa da verun partito, non era animata da
veruna passione? Giudice imparziale e perciò giusto de' due pretendenti,
avrebbe seguìto quello che maggiori vantaggi le avesse offerto. Un tal popolo
s'illude difficilmente, ma facilmente si governa.
Esso non ancora
comprendeva i suoi diritti, ma sentiva però il suo bene. Credeva un sacrilegio
attentare al suo sovrano, ma credeva che un altro sovrano potesse farlo, usando
di quello stesso diritto pel quale agli Austriaci eran succeduti i Borboni; e,
quando questo nuovo sovrano gli avesse restituiti i suoi diritti, esso ne
avrebbe ben accettato il dono.
Le insorgenze
ardevano solamente in pochi luoghi, i quali, perché erano stati il teatro della
guerra, erano ancora animati dai proclami del re, dalla guerra istessa, che, a
forza di farci finger odio, ci porta finalmente alla necessità di odiare da
vero, e dalla condotta di taluni officiali francesi, i quali, armati e
vincitori, non sempre si ricordavano del giusto. La gran massa della nazione
intese tranquillamente la rivoluzione e stette al suo luogo: le insorgenze non
iscoppiarono che molto tempo dopo.
Vi furono anche
molte popolazioni, le quali spinsero tanto avanti l'entusiasmo della libertà,
che prevennero l'arrivo de' francesi nella capitale e si sostennero colle sole
loro forze contro tutte le armi mosse dal re, anche dopo che la capitale si era
resa. Tutte queste forze riunite insieme avrebbero potuto formare una forza
imponente, se si avesse saputo trarne profitto.
La popolazione
immensa della capitale era più istupidita che attiva. Essa guardava ancora con
ammirazione un cangiamento, che quasi avea creduto impossibile. In generale,
dir si poteva che il popolo della capitale era più lontano dalla rivoluzione di
quello delle province, perché meno oppresso da' tributi e più vezzeggiato da
una corte che lo temeva. Il dispotismo si fonda per lo più sulla feccia del
popolo, che, senza cura veruna né di bene né di male, si vende a colui che
meglio soddisfa il suo ventre. Rare volte un governo cade che non sia pianto
dai pessimi; ma deve esser cura del nuovo di far sì che non sia desiderato
anche dai buoni. Ma forse il soverchio timore, che si concepì di quella
popolazione, fece sì che si prendesse troppo cura di lei e si trascurassero le
province, dalle quali solamente si doveva temere, e dalle quali si ebbe infatti
la controrivoluzione.
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