Io credeva di
far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia
della rivoluzione di tutt'i popoli della terra, e specialmente della
rivoluzione francese. Le false idee che i nostri aveano concepite di questa non
han poco contribuito ai nostri mali.
Hanno voluto
imitare tutto ciò che vi era in essa: vi era molto di bene e molto di male, di
cui i francesi stessi si sarebbero un giorno avveduti; ma non hanno i nostri
voluto aspettare i giudizi del tempo, né han saputo indovinarli. Si è creduto
che la rivoluzione francese fosse l'opera della filosofia, mentre la filosofia
aveva fatto poco men che guastarla. Ne giudicavano sullo stato attuale, senza
ricordarsi qual era stata e senza preveder quale sarebbe un giorno divenuta.
La rivoluzione
francese aveva un'origine quasi legale,
che mancava alla nostra. Il suo primo scopo fu quello di rimediare ai mali
della nazione, sui quali eran concordi egualmente il popolo ed il re; ed il
popolo riconobbe la legittima autorità degli Stati generali e poscia delle
assemblee, non altrimenti che venerava quella del re, per di cui comando, o
almeno col di cui consentimento, tanto gli Stati generali quanto le assemblee
erano state convocate.
Quello stesso
stato politico della Francia, che faceva preveder ai saggi da tanto tempo
inevitabile una rivoluzione, produsse la disunione degli Stati generali; si
formò l'Assemblea nazionale, ed il re fu dalla parte dell'Assemblea. Che vi sia
stato solo in apparenza e costretto dal timore, ciò importa poco: fin qui non
vi è ancora rivoluzione.
Essa incominciò
allorché il re si separò dall'Assemblea: allora incominciò la guerra civile, ed
il partito dell'Assemblea seppe guadagnare il popolo coll'idea della giustizia.
E fin qui il
popolo francese fece sempre operazioni al livello, diciamo così, delle sue
idee. I Stati generali gli sembravano giusti, tra perché la Francia conservava
ancor fresca la memoria di altri Stati generali, tra perché erano convocati
dall'autorità del re, che egli credeva legittima. Il re stesso autorizzò
l'Assemblea nazionale; il re contrattò con la medesima, allorché divenne re
costituzionale; quando fu condannato, lo fu pel pretesto di aver mancato al
proprio patto, a cui il popolo intero era stato spettatore. E quale era questo
patto? Quello con cui avea egli stesso riconosciuta la sovranità della nazione
ed aveva giurata la sua felicità. Il popolo, seguendo il partito
dell'Assemblea, credette seguire il partito della giustizia e del suo
interesse. Quando io paragono la rivoluzione inglese del 1649 alla francese del
1789, le trovo più simili che non si pensa: s'incomincia la riforma in nome del
re; il re è arrestato, è giudicato, è condannato quasi dal re istesso; il
popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono
appoggiate alle antiche.
Le operazioni
de' popoli van soggette ad un metodo, non altrimenti che le idee degli uomini.
Se invertite, se turbate l'ordine e la serie delle medesime, se volete esporre
nell'Ottantanove le idee del Novantadue, il popolo non le comprenderà; ed
invece di veder rovesciato un trono, vedrete esiliato un mezzo sapiente o
venale declamatore. Al pari che l'uomo lo è nelle idee, un popolo è nelle sue
operazioni servo delle forme esterne onde son rivestite; l'esattezza esterna di
un sillogismo ne fa bever, senza avvedersene, un errore; l'esterna solennità delle
formole sostiene un'operazione manifestamente ingiusta. Incominciate per
inavvertenza o per malizia da un leggerissimo errore: quanto più vi
inoltrerete, tanto più vi discosterete da quella retta nella quale sta il vero;
e vi inoltrerete tanto, che talora conoscerete l'errore, ma ignorerete la
strada di ritornare indietro. Allora pochi ambiziosi dichiareranno giustizia e
pubblica necessità quello che non è se non capriccio ed ambizione loro; ed il
delitto si consumerà non perché il popolo lo approvi, ma perché ignora le vie
di poterlo legittimamente impedire. Quando l'errore vien da un metodo fallace,
il ricredersene è più difficile, perché è necessità ritornar indietro fino al
punto, spesso lontano, in cui la linea delle fallacie si separa da quella della
verità; ma, ricreduti una volta gli animi, per cagion di un solo errore
distruggeranno tutto il sistema. La Convenzione nazionale condannò Luigi
decimosesto contro tutte quelle leggi che essa istessa avea proclamate. I
faziosi ragionarono allora come avea ragionato Virginio quando Appio appellava
al popolo; ed è cosa «di cattivissimo esempio in una repubblica - dice
Macchiavelli - fare una legge e non la osservare, e tanto più quando la non è
osservata da chi l'ha fatta». Tutto il bene che poteva produrre la rivoluzione
di Francia fu distrutto colla stessa sentenza che condannò l'infelice Luigi
decimosesto.
Nell'epoca
istessa in cui la Francia credette acquistar piena libertà, incominciarono
anche quelle riforme che noi chiamiam superflue. Qual effetto produssero queste
riforme? Vi fu una continua lotta tra partiti e partiti; finalmente i partiti
non si intendevano più tra loro, ed il popolo non ne intendeva nessuno. Si
correva dietro una parola, che indicava una persona più che una cosa, e talora
non indicava né una cosa né una persona; e le controversie, che non potevano
decidersi colla ragione, si decisero colla forza. Robespierre surse; ebbe una
forza maggiore e contenne tutte le altre col timore.
Robespierre
ritenne le parole per perdere i suoi rivali, ma attaccò a queste parole delle
cose sensibili, sebbene tutte diverse, per guadagnar il popolo. Il popolo non
intendeva né Robespierre né Brissot; ma sapeva che Robespierre gli accordava
più licenza degli altri, e scannava tutti quelli che Robespierre voleva
scannati. Robespierre non poteva durar molto tempo, per la ragione che i suoi
fatti non avean verun rapporto colle sue idee e si potevano conservar le cose
senza conservar le idee. Che volle significare infatti quella parola di «oltre
rivoluzionario», che i suoi rivali inventarono per caratterizzarlo e perderlo?
Robespierre
salvò la Francia, facendo rivoltare tutt'i partiti contro di lui ed, in
conseguenza, riunendoli30; ma Robespierre non salvò né potea salvare la
sua persona, le sue idee, la costituzione sua.
Le idee erano
giunte all'estremo e doveano retrocedere. Si era riformato più di quello che il
popolo volea; e, siccome queste riforme superflue non aveano in favor loro il
pubblico costume, così conveniva farle osservare col terrore e colla forza: le
leggi sono sempre tanto più crudeli quanto più son capricciose. Il sistema de'
moderati rimenava le cose al loro stato naturale e non dava loro altra
importanza che quella che il popolo istesso lor dava; così il suo rigore e la
sua dolcezza erano il rigore e la dolcezza del popolo.
L'uomo è di
tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt'i suoi affetti, giunti
all'estremo, s'indeboliscono e si estinguono: a forza di voler troppo esser
libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertà. «Nec totam
libertatem, nec totam servitutem pati possumus», disse Tacito del popolo
romano: a me pare che si possa dire di tutt'i popoli della terra. Or che altro
avea fatto Robespierre, spingendo all'estremo il senso della libertà, se non
che accelerarne il cambiamento?
La vita e le
vicende de' popoli si possono misurare e calcolare dalle loro idee. Vi è tra
l'estrema servitù e la libertà estrema uno stadio che tutt'i popoli corrono, e
si può dire che in questo corso appunto consiste la vita di tutt'i popoli. La
plebe romana era serva addetta alle glebe di pochi patrizi, non aveva proprietà
di beni né di persona. Incominciò dal reclamar leggi certe; ottenne la
sicurezza delle persone e de' beni, ma rimaneva ancora senza nozze, senza
auspìci, senza magistrature; chiese ed ottenne la partecipazione a tutte queste
cose, ma le chiese con temperanza, le furon concesse con moderazione; e ciò non
solo prolungò la vita della repubblica, ma la rese, per la vicendevole
emulazione delle parti che la componevano, più energica e più gloriosa.
Pervenute le cose a quella che chiamar si potrebbe «eguaglianza di diritto», i
tribuni pretesero anche l'eguaglianza di fatto: s'incominciò a parlar di leggi
agrarie, e la repubblica perì. Si era giunto a quell'estremo oltre del quale
era impossibile progredire. Nel primo anno della rivoluzione francese, non si
pensava che a stabilire quella eguaglianza di diritto, alla quale tendevano
irresistibilmente gli ordini pubblici di tutta l'Europa; nel terzo però si
pretendeva l'eguaglianza di fatto: in tre anni voi passate dall'età di Menenio
Agrippa a quella de' Gracchi. Che dico io mai? Nell'età de' Gracchi, mentre si
pretendeva eguagliare i beni, si riconosceva la legittimità del dominio civile.
Il rispetto, che il popolo ancora serbava per la legge delle doti, lo trattenne
dall'eseguire la divisione de' beni. In Francia le idee eran corse molto più
innanzi: erasi messa in dubbio la legittimità delle doti, quella de'
testamenti, l'istessa legge fondamentale del dominio, senza la quale non vi è
proprietà. Le idee della rivoluzione francese erano un secolo più innanzi di
quelle de' Gracchi: ed ecco perché, contando da quest'epoca, la repubblica
francese ha avuto un secolo meno di vita della romana.
Quando le
pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa
della libertà diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non
distingue più i patrizi dai plebei: perché dunque vi sono ancora dissensioni
tra i plebei ed i patrizi? Perché vi sono ancora e vi saranno sempre i pochi e
i molti: pochi ricchi e molti poveri, pochi industriosi e moltissimi
scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti.
Le idee di
Robespierre non potevano star insieme né colle altre idee della nazione
francese né con quelle delle altre nazioni di Europa. Togliendo, se però era
possibile, alla sua nazione le arti, il commercio e la marina, avrebbe fatti
de' francesi tanti Galli: li avrebbe resi più guerrieri, ma meno capaci di
sostener la guerra; avrebbe potuto in un momento invadere tutta la terra, ma a
capo di qualche tempo la terra tutta si sarebbe vendicata e la nazione francese
sarebbe stata distrutta. Di un antico si diceva che o doveva esser Cesare o
pazzo; di Robespierre si avrebbe potuto dire che o doveva essere il dittatore
del mondo o pazzo.
Ho cercato
nella storia un uomo a cui Robespierre si potesse assomigliare. Alcuni de' suoi
amici ed anche de' suoi nemici lo han paragonato a Silla; ma convien dire che i
primi non conoscessero Robespierre ed i secondi non conoscessero Silla.
Robespierre ha molta somiglianza con Appio. Differivano nelle massime che predicavano;
non so se differissero nello scopo che si avean prefisso, perché per me è ben
lontano dall'esser evidente che Robespierre, predicando libertà, non tendesse
al dispotismo; ma ambedue egualmente ambiziosi e, nella loro ambizione,
egualmente crudeli, egualmente imbecilli. Ambedue volevano stabilir colle leggi
quel dispotismo, il quale non è altro che la forza distruttrice della legge.
Ambedue ebbero quell'autorità, che Macchiavelli chiama «pericolosissima»,
libera nel potere, limitata nel tempo, onde nell'uomo nasce brama di
perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi, non essendosi dati dalle leggi
a quel fine al quale egli li indirizza, debbono per necessità divenir
tirannici. Né l'uno né l'altro comprese la massima o di non offender nessuno, o
di fare le offese ad un tratto e dipoi rassicurare gli uomini e dar loro
cagioni di quietare e fermare l'animo; ma rinfrescavano ogni giorno ne'
cittadini, con nuove crudeltà, nuovi timori, e rendevan feroce quel popolo che
volevan dominare. Ambedue volevan stabilire l'impero col terrore; non eran
militari, né soffrivano la milizia della quale temevano, ma aveano alla
medesima sostituita l'inquisizione ed una prostituzione di giudizi, che è più
crudele di ogni milizia, perché è costretta a punire i delitti che questa
previene ed accresce i sospetti che questa minora. Questa specie di tirannide,
che chiamar si potrebbe «decemvirale», è la più terribile di tutte, ma per
buona sorte è la meno durevole.
Per gli uomini
che riflettevano, il «moderantismo» non era che uno stato intermedio, il quale
ne dovea produrre un altro. La nazione respirava dopo la lotta che avea
sostenuta con Robespierre, ma non ancora avea scelto il punto del suo riposo.
Un eccesso di energia ne dovea produrre un altro di rilasciatezza. La guerra
contro Robespierre era stata desiderata dalla nazione; ma era stata fatta da un
partito, il quale poi, come suol avvenire, avea affidata la somma delle cose a
mani perfide e sciagurate. La nazione sotto Robespierre fu costretta a salvar
la sua libertà: sotto il Direttorio la sua indipendenza31.
Questo è il
corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo si agita
senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è
nel mezzo. Guai se, come avvenne altre volte al popolo fiorentino, esso non
ritrova mai questo punto!
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