S'incominciò
dai primi giorni della repubblica a fare una guerra a tutti gl'impiegati:
accuse sopra accuse, deputazioni sopra deputazioni: chi ambiva una carica non
dovea far altro che mettersi alla testa di un certo numero di patrioti e far
dello strepito. Siccome tutto si aggirava su parole vaghe che niuno intendeva,
così la ragione non poteva aver luogo e dovean vincere il numero e lo strepito,
prima forza che gli uomini usano nelle gare civili, finché passino ad usarne
un'altra più efficace e più crudele. All'uomo ragionevole e dabbene non
rimaneva che involgersi nel suo mantello e tacere.
Prosdocimo
Rotondo, eletto rappresentante, offese l'invidia di qualche suo nemico. Si
mosse Nicola Palomba ad accusarlo: Nicola Palomba, che non conosceva Rotondo,
ma, entusiasta ed in conseguenza poco saggio, credea che ei fosse indegno della
carica, sol perché qualche suo amico lo credeva tale. Un'accusa di tale natura
non avrebbe dovuto ammettersi, poiché l'indegnità di taluno potrà far sì che il
sovrano non lo elegga; ma, eletto che l'abbia, perché sia deposto prima del
tempo stabilito dalla legge, vi è bisogno di un delitto. Ammessa però una volta
l'accusa, conveniva esaminarla: nella repubblica deve esser libera l'accusa, ma
punita la calunnia. Io non so se Rotondo fosse reo: so però ch'egli insisteva
perché fosse giudicato; so che, dimesso dalla carica, pubblicò il conto della
sua amministrazione, e tutti tacquero. Il presidente allora del comitato
centrale vedea in questo affare, in apparenza privato, quanto importasse
conservarsi il rispetto alla legge, senza di cui non vi è governo, ed intendeva
bene che una folla di patrioti poteva diventar fazione, subito che non fosse
più nazione. Ma, poco di poi, alcuni, disperando di farsi amare e rendersi
forti colla nazione, vollero adular la fazione, e non si permise che
dell'affare di Rotondo più si parlasse. Palomba partì pel dipartimento del
quale era stato nominato commissario. Gli fu data, è vero, la facoltà di
proseguir l'accusa anche per mezzo de' suoi procuratori: ma non si trattava di
dargli una facoltà; era necessario imporgli un'obbligazione. Palomba non
avrebbe dovuto partire, se prima non adempiva al dovere che gl'imponeva
l'accusa. In un governo giusto l'accusatore è nel tempo istesso accusato; e,
mentre si disputava se Rotondo era degno o no di seder tra i legislatori,
Palomba non avea diritto di esser nominato commissario. Dispiacque a Rotondo ed
a tutt'i buoni un silenzio che sacrificava il governo alla fazione e la fazione
all'individuo.
Il segreto, una
sola volta svelato, tolse ogni freno all'intrigo. Napoli si vide piena di
adunanze patriotiche, che incominciarono a censurare le operazioni e le persone
del governo. Ma non si contentavano di mettere così un freno alla condotta di
coloro che potevano abusare della somma delle cose, ottimo effetto che la
libertà de' partiti produce nella repubblica; non si contentavano di osservarsi
a vicenda: voleano combattersi, voleano vincersi; le loro censure voleano che
avessero la forza di accuse, e così lo studio delle parti dovea degenerare in
guerra civile.
Non vi fu più
uno il quale non fosse accusato; ma, siccome le accuse non erano dirette
dall'amore della patria, così non erano fondate sulla ragione: motivi personali
le facevano nascere, gli stessi motivi le facevano abbandonare. Si aggiugneva a
ciò che, il più delle volte, le contese decidevansi per autorità degli esteri.
Sebbene le loro decisioni talora fossero giuste, non potevano però mai esser
legali, perché, anche quando si eseguiva la legge, parlava l'uomo. Così gli
uomini non si avvezzavano mai a credere che a soddisfare i loro desidèri non vi
fosse altra via che quella della legge; e, senza questa intima e profonda
persuasione, non vi è repubblica. Il costume pubblico si corrompe; le sètte non
servono più la patria, ma bensì l'uomo che esse credono superiore alla legge, e
quest'uomo fomenta in segreto una divisione che assoda il suo imperio. I
partiti corrompono l'uomo, e l'uomo corrompe la nazione. Gl'intriganti prendono
le loro misure, i buoni si vedono senza alcuna difesa, i faziosi (importa poco
di qual partito essi siano: è fazioso chiunque non è del partito della patria)
trionfano; e, siccome l'unico mezzo di acquetarli è quello di dar loro una
carica, così si vedono elevati molti che la nazione non vuole e che ruinano poi
la nazione.
Male funesto,
non ultima causa della nostra ruina, e che i buoni non debbono giammai
obbliare, onde esser più cauti ad accordare la loro confidenza ai pessimi, che
la forza della rivoluzione spinge sempre in alto! Essi divengono assai più
terribili in una rivoluzione di opinione, nella quale un sentimento che non si
vede, un nome che si può fingere, tengono spesso il luogo delle vere virtù e
del merito reale; in una rivoluzione prodotta da armi straniere, in cui è
inevitabile la sconsigliata profusione delle cariche: tra il conquistatore, il
quale spesso non sa ciò che dona né a chi dona, ma sa solo che ciò che dona non
è suo; e tra i primi da lui impiegati, i quali rammentano più i bisogni di un
amico che quelli di uno Stato che odiavano, e, pieni ancora dell'impazienza di
obbedire, di rado sanno temperarsi nell'uso di comandare.
Il governo, per
acquetare un poco i rumori, istituì una commissione di cinque persone per
esaminare coloro che doveano impiegarsi: non erano impiegati se non quei tali
che dalla commissione venissero approvati; chi era riprovato veniva escluso per
sempre.
Questa
istituzione fu effetto delle circostanze. Le accuse, i reclami erano infiniti;
il tempo era breve; il bisogno di ben conoscere le persone urgente. La
commissione della quale parliamo, fu imaginata a fine di bene; le furon date
istruzioni limitatissime, quasi private: ma essa divenne, contro la mente del
governo, una magistratura che avea ed esercitava giurisdizione regolare,
manteneva un officio, riceveva petizioni, faceva decreti. L'istituzione cangiò
natura, e questo avvien sempre in tutte le istituzioni simili. Se, invece di
istituire una commissione, si fosse obbligato Palomba a proseguire l'accusa; se
fosse stato condannato, come era di giustizia, o Palomba o Rotondo, quattro
quinti de' clamori sarebbero cessati, ed il governo avrebbe conosciuto meglio
le persone e le cose. Accaduto una volta un disordine, specialmente ne' primi
giorni di un governo nuovo, di rado il popolo conosce la vera cagione del
medesimo, e tutto attribuisce al governo: male inevitabile e gravissimo, il
quale deve persuaderci che non tutto ciò di cui il popolo si doleva era sempre
cagionato dal governo; che le intenzioni eran sempre pure, ma non eran sempre
buone le istituzioni; e queste non eran sempre buone, perché li princìpi, dalli
quali dipendevano, eran fallaci; e finalmente che in un governo nuovo è
necessità far quanto meno si possa d'istituzioni tali che possino divenir
arbitrarie. Tutto deve esser potentemente afferrato dalla mano di chi governa.
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