Come sappiamo dal
romanzo di Tota Nerina, la paesanotta Gilda rimestava con il tridente il
letamaio, quando il giovane prof. Adriano Meraldi ritornò vittorioso del
concorso di Pompei a San Gerolamo Canavese.
Essa era figliuola
unica di Simone il falegname, curvo come un quarto di luna, senza essere molto
gobbo, imperocché la curva riguardava piuttosto la testa che la schiena. Simone
era un vecchio semplice con i capelli bianchi pallidi che in gioventù erano
stati biondi lucenti. Pareva un San Giuseppe ricamato. Era buono, sottomesso a
tutti. Avrebbe voluto che il Sindaco e il Parroco, Vittorio Emanuele II e Pio
IX fossero sempre stati in concordia, come pane e cacio.
Teneva bottega vicino
alla casa del geometra Meraldi: ed era assai bravo falegname: non lavorava di
malizia: niuno come lui stringeva salde le commettiture: ci metteva però il suo
tempo: per cui bisognava pensarci forse tre anni prima del bisogno ad
ordinargli un cassettone; ma una volta fatto quel cassettone durava un'eternità
di generazioni. Simone aveva avuto dell'inventiva: precursore locale dei
veicoli automobili aveva di suo genio architettato, congegnato un carrozzino
semovente con una tastiera di manovelle.
Simone aveva quale figliuola,
sola al mondo, la Gilda, che allevò pressoché soltanto egli desso, imperocché
sua moglie, Filomena, quel marzapane di Filomena, che dava ragione a tutti ed
era persino più dolce di Simone, Filomena gli morì di anemia, quando Gilda
aveva appena un anno e mezzo.
Egli si teneva sempre
la sua Gilda presso il banco del lavoro cucciata sopra un monte di trucioli
sotto un filare di ascie, di seghe e martelli pendenti sul suo capettino.
Adriano Meraldi, come
tutti i bambini, che aprono gli occhioni golosi ai lavorii meccanici, scappava
sovente nella bottega di Simone a godersi quelle pialle che raschiavano gli
assi sputando riccioli come serpentelli di legno che diconsi bugie a S.
Gerolamo. E di quelle bugie se ne faceva delle gale attorno il cappello. Risguardando
il babbo Simone a lavorare non poté non risguardare anche la figliuola Gilda,
con la quale si può dire che crebbe insieme. Provarono insieme i primi
trastulli, le prime curiosità infantili e i primi piaceri bambineschi:
godettero insieme la voluttà di pestare l'acqua nelle pozzanghere del cortile e
nel rigagnolo della strada con i piedini nudi. Facevano insieme il giardino di
due spanne ai piedi della muraglia giocavano insieme a nascondere il capo e il
moccirino. Qualche volta si bisticciavano e si azzuffavano anche insieme, ed
Adriano, il signorino Adriano, perché maschio e perché ricco percoteva anche la
Gilda, le cacciava le dita nei ricci dei capelli, anche perché quei ricci glie
le tiravano proprio le dita. Metti che il sole fosse un pecoro ed avesse la
lana. I capegli di Gilda erano lana di sole. Un giorno Adriano imbizzito più
del solito, scosse senza misericordia la cuticagna a Gilda, la quale si
ritrasse a casa piagnucolando e gridando: Adriano mi ha dato.
Resta sottointeso che
Simone dette torto alla sua bambina.
Alla quale però
nacque dal dolore l'amore. Quelle strappatine di capelli le infissero nella
mente e dalla mente nel cuore gli artigli rosati di Adriano. E come Adriano
andò nel Collegio di Trentacelle Gilda d'inverno pensava a lui quando la neve
faceva un deserto bianco attorno la stalla, pensava a lui quando tornava la
primavera riallacciando l'umanità ai campi rinverdenti e tornava l'opportunità
di fare i soliti giardini di due spanne.
Adriano invece,
cattivo come sono d'ordinario molti uomini verso le donne, aveva dimenticato la
Gilda, insuperbitosi della tunica da piccolo bersagliere con cui lo avevano
vestito in collegio. Dondolando il pennacchietto tricolore del suo cappello
nero e duro di feltro, mostrandosi onusto dell'enorme vocabolario latino, che
gli avevano messo sotto le ascelle, legato in carta pecora, egli si sentiva
pecorilmente superiore agli antichi affetti del villaggio, posa di collegiali
che dimenticano magari una ragazza sublime per un tanghero di un Calepino di
Mandosio!
Quando Adriano veniva
a casa in vacanza, non si degnava più di giocherellare con la Gilda.
Ma questa non lo
aveva dimenticato, Adriano, anzi lo ammirava maggiormente per quel cappello di
bersagliere piumato: le pareva persino più bello del baroncino Svolazzini
reduce dal Collegio di Torino con il pentolino (kepi) di piccola guardia
nazionale.
Ed i fiori silvestri
e quelli dell'orto che Gilda si poneva sulle orecchie, le corone di
margheritine, che si metteva sulle chiome bionde, i galani che si poneva sul
petto, i nastrini rossi con cui essa si attortigliava il collo, pari a quelli
con cui si distinguevano i gatti dei signori, (non lo sapevano mica né suo
padre, né le compagne, né il viceparroco di lei confessore) ma erano proprio
tutte mostre fatte per Adriano.
Quando si seppe in
paese, che questi rotava intorno alla Damigella Nerina Vispi, e che le portava
le buschette o pagliuzze per fare il nido, come dicono colà, a Gilda
parve che il mondo perdesse la sua vernice: la Madonna d'Ottobre dei sette
Dolori, che è la titolare di S. Gerolamo, per lei perdé, ebbe raschiata la
doratura dei sette coltelli infissi nel seno: la messa cantata, il vespro, non
la innalzarono più ai soliti entusiasmi caldi e vaporosi.
Quando poi si seppe
che Adriano era andato fuori di Stato a Gilda si oscurò addirittura la vista:
le parve di divenire cieca.
Non era che Gilda
avesse mai sperato di sposare Adriano: questi era figlio di un cadastraro: ed
essa figliuola di un falegname. Non sfuggiva a lei la profondità dell'abisso,
che separava le due condizioni. Pure anche senza disegno di sposarlo, le
sembrava che Adriano fosse cosa sua, perché le aveva tirati i ricci da bambina,
perché avevano fatto insieme le ascosaglie e i giardini di infanzia.
Dopo un ecclissi di
parecchi anni erano ricomparsi più luminosi i feudatari a S. Gerolamo.
Nel milleottocento
sessantasette fu posto in riposo in seguito a Sua domanda il Barone
Commendatore Rollone Svolazzini già Prefetto nelle Provincie Meridionali,
oriundo da S. Gerolamo.
La sua baronia non
era irrugginita, era appena dell'età napoleonica. L'avvocato Cristoforo
Svolazzini Sottoprefetto in Piemonte durante il Governo francese, precisamente
nel 1799 aveva saputo rintuzzare da una cittadina di Sant'Agata affidata alla
sua amministrazione la banda zingaresca di Brandaluccioni allor che i Russi di
Souwaroff, i sacrestani e gli scherani di Piemonte volevano restaurare la
monarchia Savoica. Per questi ed altri servigii resi al dominio Francese Napoleone
Imperatore nel 1806 aveva fatto l'Avvocato Svolazzini Cristoforo Barone
dell'Impero.
Ammogliatosi con una
figliuola di un colonnello francese il Barone Svolazzini, avuto un primo ed
unico figliuolo per impolverare la nobiltà recente di sua famiglia, abbandonò
San Cristoforo che aveva reso per il passato sì lunghi servizii nei battesimi
degli Svolazzini, e battezzò il suo maschiotto nel nome normanno di Rollone.
Il baroncino Rollone
Svolazzini cresciuto nei nobili esempi paterni ebbe un buon nome nella amministrazione
Piemontese, e divenne uno dei migliori prefetti del Nuovo Regno d'Italia, un
prefetto che nelle provincie meridionali importava quanto una legione di
Carabinieri, un prefetto di cui non avrebbero mai voluto sbarazzarsi né
Ricasoli né Rattazzi nemmeno per far luogo ai loro favoriti.
Il Barone
Commendatore Rollone Svolazzini figlio del fu Barone Cristoforo diventò padre
alla sua volta di un baroncino, di cui volle ribadire la nobiltà,
appioppandogli il nome medioevale di Svembaldo.
Al rampollo Svembaldo
il barone Rollone sempre attaccato al Piemonte volle dare una educazione per
eccellenza piemontese: lo mise nel collegio nazionale di Torino, poi non gli
parvero sufficienti gli insegnamenti collegiali nella lontananza paterna. Rivolle
il figliuolo presso di sé, curandone sopratutto l'educazione fisica, quasi
atletica: scherma, nuoto, inglese, tedesco, calligrafia ed equitazione: e di
queste discipline se non era egli stesso il maestro ne era però di continuo il
sopraintendente: per poco non conduceva con sé il suo bambino al consiglio di
prefettura e alla caccia dei briganti.
La Baronessa
Svolazzini, figliuola di un marchese scaduto, non c'entrava per nulla nel
governo di Svembaldo né in quello della biancheria baronale: essa non aveva
altro ufficio in questo mondo fuorché quello di fare degli inchini corti e di
mostrare ridendo i suoi denti lunghissimi. Il progresso nell'educazione fisica
fu di qualche ritardo alla intellettualità scolastica del baroncino e il fiero
barone padre poco se ne doleva, preferendo ammirare nel suo rampollo un
bell'asta di ragazzo achillesco ed erculeo, che non uno sgobbone pretenzioso.
Quando Svembaldo
conquistò a Viterbo la difficile licenza liceale, aveva già superata la
ventina. Venne per lui l'ora di andare all'Università a studiare legge, per
passare poi dalla legge alla amministrazione centrale, vera beva e feudo degli
Svolazzini, il Barone Rollone pensò che nelle città di sua prefettura non si
sarebbe trovata sempre una Università buona: quindi rassegnò il suo ufficio di
prefetto, e deliberò di prendere dimora a Torino per non staccarsi dalle
costole del figliuolo, e di far villeggiatura a S. Gerolamo, dove erano le
terre dei suoi padri, e dove comprò per giunta il vecchio Castello dei Conti
Grattugia di San Ginepro spropriatosi. Così a San Gerolamo il Barone Rollone
Svolazzini era diventato la crisalide del feudatario.
Nell'agosto del
milleottocento sessantasette mentre il Barone Rollone Svolazzini seguitava da
S. Gerolamo con occhio ancora prefettizio il viaggio del Generale Garibaldi sui
giornali, perseguitava poi con le gambe e con lo schioppo e con il figliuolo
baroncino le quaglie nei campi e nei prati.
Babbo e figliuolo
come vomeri traversavano i fieni alti e i trifogli e vi si aprivano una strada
come la verga di Mosè nel Mar Rosso... spiavano fra i filari e i pennoni del
mais, allettavano le quaglie percotendo un pupepu nella pancetta del richiamo:
finalmente il cane puntava: una quaglia correva con i piedini ratta quale
saetta terrea: poi frullava in su a volo: e padre e figlio con una coppiola di
schiopettate ne rompevano la geometria e la eleganza del volo curvo, e la
facevano tombolare per terra a linee brusche.
Un giorno il barone
Rollone incapocciato delle discorse sempre più veementi del generale Garibaldi
accusò l'emicrania e non volse andare con il figliuolo a caccia. Questi ci
andette da solo, scortato e rincalcagnato dal cane. Era la prima operazione
importante che faceva da solo a ventidue anni. Come si sentì fiero della sua
nuova dignità solitaria, fiero di bastare a se stesso, di fare guerra alle
quaglie da se stesso. Balzava, scapestrava di qua e di là, sparò tutta la
polvere che teneva nella fiaschetta, fece scattare tutti i capelletti, vuotò il
borsotto dei pallini senza acchiappare nulla: perché tirava a distanze
chilometriche: e quando ebbe consumata intiera la sua provvigione arrappò per
la bocca la canna del fucile e si mosse a trainarlo saltabeccando per i solchi.
Il calcio del fucile in quella corsa matta percosse nei ciottoli e si ruppe il
naso del cacciatore e si scheggiò la coda del cane scolpiti sulle falde del
calcio. Allora il Baroncino Svembaldo cessò quel matto trainare, passò la cigna
dello schioppo attraverso le spalle, e rientrò in paese cercando di un
falegname, che gli raccomodasse il naso e la coda avariati del calcio. Gli fu
indicato il mastro da legna Simone. Andato nella costui bottega, gli domandò se
si sentiva di rabberciare quelle sculture rotte: mastro Simone allo apparire
del Baroncino non si contentò di levarsi la berretta ma la gettò lungi da sé
nell'angolo più lontano della bottega e poi rispose di sì alla domanda di lui.
Gilda presente avvallò gli occhi. Svembaldo uscito dalla bottega di Simone
ancora trafelato per il lungo correre del giorno pensò se aveva visto una
ragazza nella bottega di Simone. Gli pareva di sì e poi gli pareva di no...
Quando gli pareva di sì, era ancora incerto se la ragazza veduta era bionda, o
bruna o castana, se aveva i capelli crespi o lisci come quelli di Santa Marta o
di Santa Lucia. Almanaccò tutta la notte mentre il sangue gli sbolliva dalla
scapestrata diurna, sulla parvenza di quella ragazza.
L'indomani il padre
era andato a Torino chiamatovi da un telegramma di Rattazzi, allora Presidente
del Consiglio dei ministri.
Il cosidetto castello
di S. Gerolamo è nascosto dietro una casa rustica tramezzata da un androne che
dà l'adito al cortile.
Sotto l'androne a
mezzogiorno comparve la Gilda bionda, lustra, rassettata, a puntino come una
spilla, con i riccioli, che si muovevano e quasi friggevano alla brezza calda
meridiana.
Svembaldo, che era
ritto sull'uscio del suo Castello credette che un raggio di un altro sole
entrasse nel cortile vedendo colei cui aveva rugumato mentalmente tutta la
notte.
La Gilda teneva uno
schioppo in mano. Svembaldo gli mosse in contro: non ebbe cuore di guardare se
il cane e il cacciatore erano stati raccomodati a dovere da mastro Simone.
Credette che la Gilda fosse una Diana, una divinità nuova del villaggio, poi le
domandò, quanto voleva suo padre per l'aggiustatura dello schioppo. Due lire.
Svembaldo tremolando
come il pennacchio di un albero al vento tirò fuori di tasca il portamonete: ne
estrasse un biglietto; e voltandosi a ritroso perché non osava guardare in
volto la Gilda le disse: Suo padre non si offenderà se gli do dieci lire.
La Gilda prese il
biglietto, gli rimise lo schioppo e se ne andò via...
Alla Gilda la veduta
di Svembaldo aveva ridonata la fierezza sua di molto cascata dopo la partenza
di Adriano... la Gilda avvezzatasi a guardar in alto per amore di Adriano non
era stata capace a dibassare lo sguardo sui moscardini rusticani, sul
pettinaio, sul garzone dello speziale...
Svembaldo le parve un
nuovo Adriano: salvo che Adriano aveva i capelli castani e Svembaldo era biondo
come il sole...: oltre che Adriano nel cespuglio dei suoi capelli, in certa
ferocia di zigomi e di guardatura accusava la vita e la razza campagnuola,
accusava le minestre sode da geometra cadastraro. Invece Svembaldo nei capegli
serici, nella carne perlata sentiva le coltrici e le pappe signorili
diplomatiche. Non era che Gilda facesse già disegno su Svembaldo: mai no. Essa
erasi rassegnata a non disposarsi a nessuno: ma la sua anima sviata
dall'orgoglio si sentiva chiamare a un amore altezzoso, anco segreto, che essa
avrebbe custodito gelosamente nella camera del cuore...
Come Simone ricevette
dalla sua figliuola il biglietto da lire dieci, pensò subito a rimeritarsi
presso il generoso largitore accomodandolo della carrozzella da lui inventata
che si moveva per una tastiera a manovella. E la portò in casa Svolazzini.
La Baronessa Madre
contrasse le sue labbra sottili, fece ridere i suoi denti lunghi, e volle
subito provarla... Sedutasi sulla carrozzella e toccandone i pedali, la faceva
muovere a zighizzaghi quale bestia accecata. La Baronessa ne era contentona:
ritornava fanciulla: e regalò a Simone un biglietto da cento lire rosso come il
pudore.
Il Barone Svolazzini
continuava a dare delle capate a Torino per conferire con il Ministro Rattazzi.
Svembaldo seguitava a
cacciare da solo...
Un giorno, al tocco,
mentre il Garibaldi arringava per la sua Roma non ricordiamo bene se a Siena od
a Orvieto, Svembaldo era in mezzo alla campagna... Il sole versava a secchiate
la sua luce bianca avvampante: la terra e la vegetazione fioche, mute ne
rosolavano, e si crogiuolavano nel sudore.
Svembaldo si sentì
intorno alla testa il cerchietto della canicola. Avvertì un noce, che
proiettava sull'erba verde a tremolii di punte e di dorsi argentini o bavosi
un'ombra nera dai contorni tagliati con precisione, quasi da un paio di
forbici, da un rasoio... Dei fili di ragno serici, illusorii, scintillavano
nell'aria... Si avviò al noce per usufruttuarne l'ombria... Per lui allora non
c'era niuno ardore di beltà che agguagliasse quello di una campagnuola con la
camicia raffazzottata ad orlo sui fianchi e con un fascio d'erba sulle spalle,
a mezzogiorno...
Se questa campagnuola
è bella, è bionda, è Gilda, lo splendore della vegetazione circostante,
l'incubo di calore con cui il cielo accascia la terra, le stesse ombre, mille
loquele indistinte allacciano lo spettatore (non di Addison) a quel bozzetto
campestre, e glie ne viene una vertigine: la vertigine che prese Svembaldo
quando vide rilevarsi dall'ombra del noce Gilda con la corona di sottane
rialzata sui galloni, con la camicia bianca a ricaschi, con i ricci luminosi e
le carni roride, e con un fascio di erba verde punterellata di teste di fiori
rossi accesi sulle spalle o gialli trifogli, ranuncoli, punte di sogni.
Svembaldo corse a
Gilda per ghermirle quel fascio d'erbe, e recarsele egli sulle proprie spalle.
Tota Gilda, lo dia a
me che sono un uomo quel carico.
Gilda riluttò con gli
atti e con poche parole roride vergognose, come tutta la sua persona, e in
quella lotta cortese Svembaldo sfiorò le braccia e le spalle di Gilda.
Gli parve di premere
qualcosa di immensamente liquido, fluido, etereo. Gli sembrò che in lui tutto
l'azzurro del firmamento premesse tutta la superficie dell'acqua dell'orbe...
Finalmente Svembaldo
giunse ad impadronirsi del fascio d'erbe, se lo caricò sulla spalla sinistra
con una destrezza graziosa, e poi tolta a braccetto Gilda, si incamminarono
verso il villaggio.
Come era ridicolo
Svembaldo, baroncino, futuro avvocato e prefetto, a portare un fascio d'erbe
per una campagnuola. Se lo avessero veduto il suo professore di Greco, i suoi
compagni di scuola, il suo babbo fiero e Rollone, la sua mammà aristocratica,
e la memoria del primo Barone Cristoforo Svolazzini, sottoprefetto del Primo
Impero...
Ma Svembaldo non era
ridicolo sotto il sole che versava luce e bollore, dinnanzi a' grilli che
nuotavano nell'erbe, sui fiori, nello spazio e fra i ricci di Gilda, non era
ridicolo dinnanzi alla grande figliuola di Dio e Madre nostra, la Natura.
Giunti al termine di
una stradicciuola e visto fra gli alberi spuntare il villaggio, Gilda con un
grazie frettoloso strappò il fascio d'erbe dalle spalle di Svembaldo e scappò
via...
Ma scappò dietro a
lei un amore, e una speranza ardita, superba, enorme.
Svembaldo,
fantasticava Gilda correndo, è più bello di Adriano: e poi è più gentile. Mi ha
dato del lei, della signorina. Adriano non mi ha usata altra garbatezza,
fuorché quella di ficcarmi le unghie sulla pelle della testa... E poi, andato
in collegio, perché lo vestirono da militare, perché gli misero ai fianchi una
sciabola da burla nemmeno buona a tagliare la polenda, egli non mi volle più
guardare quanto ero lunga... E poi è andato via, chi sa dove, ed ha abbandonato
padre e madre... Senza cuore!... Svembaldo Svembaldo invece... Svembaldo
invece...
Giunta al nome di
Svembaldo, Gilda quasi non era più buona ad almanaccare: imperocché il nome di
una persona amata nella testa di chi ama diventa una musica, un gorgheggio,
un'iride, che suona, titilla e scintilla da tutte le bande, e non viene quasi
mai un sentimento, che si possa concretare in frasi, come si formulano in frasi
i contratti e le obbligazioni civili. Svembaldo, pensava confusamente e
vagamente Gilda sempre più correndo... Svembaldo è bello, come l'Arcangelo
Michele... Come sono graziose le pieghe che gli fa sotto le ascelle la sua
cacciatora di velluto di seta castano! come sono diritte le piume sul suo
cappello...! Voglio volergli bene, tanto bene a Svembaldo... Come è buono!...
Ha portato un fascio d'erba a me, egli che è stato nelle città più lontane
d'Italia, persino negli Stati del Papa ed ha visto le signore Romane che dicono
siano così alte e così ben fatte... Io sono una povera paesanotta... Pure sente
di essere venuta al mondo per il suo Svembaldo...
Ma non è come le
altre sue compagne: io non mi sono mai adattata a far all'amore con i
pizzicotti, con i pugni e con gli urtoni, come fanno i vaccari del paese... Me
lo dice il cuore, me lo dicono il Signore e l'Angelo Custode che Svembaldo è
nato per me... Adriano, brutto, cattivo, era soltanto un passo, uno scalino, un
termine verso Svembaldo... Farei anche la serva a Svembaldo No! No! la serva... Alto là: Perché Gilda è
bionda come lui, è eguale a lui, e mi sento capace di guardarlo in una maniera,
che egli non mi vorrà serva ma mi vorrà signora.
Oh se nel Cielo,
lassù, vicino al sole ci fosse una strada ferrata con le rotaie di argento. E
volassero su quella strada insieme tutti due, Svembaldo e Gilda... Camminassero
tremolando sul filo di quelle rotaie: Gilda sopra l'una e Svembaldo sopra
l'altra... Tremolassero, camminassero come ciarlatani sulla corda... Oh
Svembaldo che bel pagliaccetto!... fossero per cadere... Si abbracciassero...
Cadessero insieme, abbracciati... e morissero stretti stretti nello spazio che
c'è dal sole a San Gerolamo...
Gilda giunta a casa
farneticando quella sera non insalò punto la cena al suo babbo Simone. Pur
troppo si videro e si rividero, si amarono e si riamarono Svembaldo e Gilda.
La sciocca baronessa
Svolazzini, che si compiaceva delle belle ragazze come delle belle puppatole e
delle belle figurine nei giornali di moda, avendo aocchiata la Gilda, la volle
con sé nel palazzo, a cucire e a stirare...
Era autunno logoro...
Più non si parlava di Garibaldi disfatto a Mentana dalle facili e brutali
maraviglie dei Chassepots: più non si cacciava alle quaglie... Svembaldo e suo
padre Rollone andavano alla beccaccia... Svembaldo da più di un mese dormiva
poco o punto...
Le strane notti che
faceva Svembaldo!... Vedeva dei mondi a colori forti e iperbolici, troppo
rossi, troppo neri, o a bagliori umidi profondi, come la superficie dell'acqua
in un pozzo... Architettava la gloriosa impresa di rendere baronessa la Gilda,
la figliuola di un falegname... caricarla di perle e di diamanti, ondeggiarla, avvilupparla
con sferoidi di mussola, e condurla fra gli inchini, i gelati e i motti
francesi a un ballo di Corte... Poi smaniava pensando che la Gilda sarebbe
stata tralunata, smemorata, intronata, fra quelle acconciature, quegli
strisciapiedi e quelle musiche di convenzione. E non la avrebbero guardata,
l'avrebbero lasciata in un canto: o sbeffata alle spalle.
Allora egli si
adirava contro la Società presente, contro il mondo, che a lui Beniamino non
aveva arrecata una graffiatura, che gli aveva ministrato a bizzeffe confetti,
caffè e latte, thè, panni morbidi e solini alla moda...
Avrebbe voluto
vendicarsi del mondo... farsi bandito o insorto elegante da melodramma con un
pugnale alla cintola, un trombone in ispalla, tenendo a fianco la Gilda,
avvinghiandola per la vita, la Gilda che portasse una bandiera rossa e fosse
bella e radiante come la Santa Vergine Repubblica.
Il roteare di questi
mondi trainavano la fantasia di Svembaldo per tutta la lunghezza della notte.
Ed al mattino egli formava dei propositi fieri e rubelli... Ma appena egli
calava dal letto e si dava una rinfrescatina d'acqua alla faccia essi
svanivano: egli si sentiva, sebbene di contraggenio, forzatamente nel mondo
reale: ed egli non sapeva più rintracciare i suoi odii e i suoi bollori davanti
le sardelle e frittelle dell'asciolvere...
Pure egli considerò
geometricamente la sua condizione morale... e la risolvette trovando che egli
poteva sposare la Gilda... Anzi secondo la sua persuasione fanciullesca e
fisiologica era una legge d'amore che glie lo comandava... Non era il primo
barone che togliesse a compagna una contadina... Gli pareva una impresa
nobile... Né l'immagine del disagio che avrebbero procurato alla Gilda i balli
di Corte più l'atterriva. Egli pensava che l'amore e il dovere fanno di due
sposi amanti un nido proprio piccino, in cui possono passarsi d'ogni ballo e
d'ogni convenzione terrestre.
Svembaldo e suo padre
Rollone, come dicemmo sopra, cacciavano la beccaccia...
Era l'autunno
moriente... la cappa del cielo plumbea: l'aria piorna pareva si allentasse a
spremere e a sudare pioggia, e non la spremeva non la sudava. I cespi di ontano
parevano ali strane, strani ventagli... i rami dei rovi e dei rosai di rose
canine uncinavano malignamente gli abiti dei due cacciatori... un qual che
misterioso ne accoltellava, ne assaettava le viscere, e necessitava un'uscita,
uno sfogo.
Svembaldo trovò
l'uscita dicendo a suo padre in mezzo a una boscaglia di nocciuoli
selvatici...: Senti, avrei intenzione di sposare la Gilda, di farle una
fortuna.
Il babbo non andò
guari fuori dal secolo... e rispose: Quest'oggi le beccacce non ricevono...
Intanto si sentì un
grosso sfogliaricciare fra la ramaglia dei nocciuoli: e quindi sopra essi si
levò un rullo di ali, un globo nero, areostatico, una beccaccia, una di quelle
beccaccie che interroriscono i cacciatori novellini, i quali fuggono svelti per
tema di essere eglino cacciati e presi dalla beccaccia.
Invece Svembaldo
librò pacificamente il suo schioppo, lo sparò e fece cimbottolare la beccaccia
per terra con la caduta di un angolo lunghissimo e acutissimo.
Il babbo Rollone che
alla dichiarazione del figliuolo non si era spaventato, avendola intesa per una
delle solite ed inevitabili smargiassate amorose dei collegiali, quando vide
che subito dopo una sparata erotica Svembaldo sapeva aggiustare egregiamente
una sparata di schioppo si impensierì e conchiuse: che dura ed aspra doveva
essere la cote di suo figlio.
Durante la caccia
evitò di lasciar cascare il discorso sulla Gilda parlando focosamente di
politica e di uccellame. Tornato a casa e ristrettosi con la moglie, ebbe dalla
baronessa il seguente consiglio puro e semplice¾ È presto fatto, per contentare
Svembaldo, prendiamo la Gilda come nostra cameriera...
Il barone Rollone
ripensando la botta soda di fucile che aggiustava il figliolo subito dopo
quella di Amore non si acquietò al consiglio della Baronessa, e deliberò, che
bisognava fare scomparire la Gilda.
L'opinione pubblica
di San Gerolamo non se ne sarebbe maravigliata. Già nel villaggio l'immagine
bionda e stellante di Tota Nerina poi Contessa De Ritz era
comparsa e quindi scomparsa come una folgore.
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