In America,
materialmente, fisicamente no.
Ma dei viaggi anche
più lontani oh! ne fa la psiche di Spirito Losati.
L'anima del puritano
illibato viaggia perdutamente nel vizio. E viaggia come un navigante senza
bussola e senza esperienza. Dotto in lettere greche, latine e sanscrite ed in
filosofia e storia patria ed universale egli era un ignorantone nella animalità
passionale.
Egli misurava la
distanza dei modi per gli inviti d'amore tra l'attaché d'ambasciata che
ottiene un appuntamento voluto dalla ambasciatrice, e il protervo casaro,
priore della Confraternita di San Gerolamo, che a cinquant'anni mostra una
pappagorgia da lattonzolo e propone brutalmente a una proterva villanella:
vieni a fare la vacca o la troia con me! e ti regalo un tondo di burro riccio.
Ma l'attaché e
il casaro sanno ed hanno il loro nido o la loro tana d'amore; per l'attaché
e l'ambasciatrice la penombra vellutata di un boudoir profumato; per
il casaro e la villanella la legnaia o la boscaglia, o la stalla nelle ore
deserte. Anche gli studenti universitarii chiamano vaccheria o porcile (porchêra)
la loro stanza mobigliata ad usi molto profani.
Invece per lui
professore, pubblicista, patriota politico, molto notus in Iudea, quale
ignoranza relativa si attenda innanzi!
Se egli si
presentasse a una affittacamere, e le facesse onestamente, lealmente intendere,
che condurrebbe una signora di contrabbando, ed invece del romanesco «faccia il
comodaccio suo! faccia il suo santo comodo» si sentisse rispondere: «Vergognous!
Lei che predica la morale ai Preti, e tiene immeritatamente in casa tanta
grazia di Dio, se ne vada, vergognous!» oh ci sarebbe da nascondersi
sotterra, altro che emigrare in America!
Spirito Losati ebbe
netta la visione di contentezza che proverebbe se un accidente lo liberasse dai
pericoli e dalle vergogne del vizio.
È chiaramente più
piacevole la fede alla virtù che la voluttà viziosa.
Quante mogli
invocarono tacitamente uno scontro di treni, o il franamento di una montagna,
che loro impedisse la rovina di una fuga premeditata?!
Oh! Si rovina nel
vizio più per impegno, che per allettamento.
Ma era soltanto vizio
quello che lo faceva deviare dalla retta via coniugale, e lo spingeva nelle braccia
di una tentatrice impervia? No! Era anche vendetta d'amore. Nerina era stata lo
spasimo della sua giovinezza, il sogno da lui lungamente covato, lo spasimo, il
sogno, il miraggio per cui aveva gettato la sua vita nel vuoto dell'aria e
nell'abisso dell'acqua.
E dove, dove aveva
covato pure lungamente e celestialmente quel sogno?
Nell'alto e lurido
tugurio del signor Bernardo Uccellini sensale di affari cosidetti leciti ed
onesti.
Ecco il dirizzone per
ritrovare il nido cercato. Nella povertà di trovate mondane dell'ingegnoso
professore, anche il sig. Uccellini può tornargli buono, se Morte, in quel
trascorrere di anni, non lo ha tolto di mezzo.
Ma prima di recarsi
in viaggio di scoperta al vicolo dei Pasticcieri, Losati si sentì trattenere
ancora dallo scrupolo montante a terrore di trasgredire due comandamenti di
Dio.
Dopo una brevissima
lotta morale si ribellò con impertinenza di pretese e sofismi ad ogni scrupolo.
¾ Gli è
vero, che tu, o Dio, ci parli soventi in fondo della nostra coscienza. Ma tu,
che sei omnipotente e omnisciente, perché ora scarseggi tanto di miracoli?
Perché non rompi più la monotonia delle leggi naturali, che non si direbbero
tue, tanto ti dimostri ad esse tacitamente schiavo? Perché non comparisci
sull'orizzonte come un occhiuto triangolo, o come barbone luminoso di Padre
Eterno o come gruppo raggiante di Santa Trinità, e perché tale comparisci
soltanto nelle illustrazioni della Bibbia e del Catechismo immaginate dai
disegnatori mestieranti od ascetici, originali o copisti? Tu che conosci
indubbiamente tutte le lingue e tutti i dialetti di questo mondo e della
pleiade degli altri mondi, perché non gridi i tuoi Comandamenti con voce forte
e intelligibile, come si esige per gli istrumenti notarili? Come si
sospenderebbero le faccenduzze e le trivialità della Terra, se corresse la
voce: andiamo in piazza, usciamo sui balconi, saliamo sopra i tetti a sentire,
a vedere Domine Dio... Ma tu, Dio! non parli, non ti lasci vedere. Ebbene, io
andrò dal signor Uccellini, sensale di matrimoni, persone di servizio ed altri
affari cosidetti leciti ed onesti...
Anche la via dei
Pasticcieri, se non addirittura uno sventramento, aveva subìta una scalfittura
dal progresso dell'igiene edilizia.
La bava secolare,
grattata dalla raspa, era stata ricoperta dalla scopa intrisa dell'imbianchino;
ed appena accennava rifiorire ai lavabus degli acquazzoni.
Nello stesso modo si
era rammodernato il signor Uccellini. Anzitutto aveva cambiato moglie. Mortagli
di soffocazione, crediamo naturale, la vecchia megera, che per i due gozzi
sembrava tricipite, egli dopo venticinque giorni di lutto vedovile aveva
impalmata una interessante giovinetta, Cordelia, figlia unica del portinaio
dirimpettaio, alla quale non era mancata la dote formatagli da due altri padri
putativi, un negoziante israelita e un canonico di San Giovanni, più che dai
quattro reali amanti, uno studente, un commesso viaggiatore, un giovane di
negozio e un procuratore capo. La portieria del signor Uccellini era discesa dal
quinto piano al terreno.
E si direbbe per
l'attrazione del nome, egli aveva cambiato di mestiere principale
Senza abbandonare del
tutto l'agenzia di collocamenti muliebri e la larga cerchia degli affari
diversi, purché onesti, egli aveva impiantato ed annesso alla portieria
terrena un copioso negozio di uccelli domestici dai bengalini alle tortore e ai
colombi viaggiatori, non senza uno scampolo di pollicoltura eteroclita. Da
basso la bella mostra; di sopra al 5o piano, nell'antica sede della
portieria metereologica e astronomica, l'allevamento e l'ospedale degli
uccelli.
Presentatosi dal
signor Uccellini, il prof.e Spirito Losati venne riconosciuto come
l'antico studente pigionante, che si lasciava governare come un bambino.
Alla richiesta
direttagli dal professore con un bisbiglio pudibondo, il signor Uccellini annuì
con un batter di ciglio da Giove, che rassicurava: ¾ Tengo per Voi un posticino, che
nemmanco la Polizia Europea e l'Americana vi scoprirebbero. ¾ E gli
affittò per un prezzo elevato la soffitta adiacente all'uccellanda del quinto
piano.
Quivi il professore
Losati conduce furtivamente la oramai anche sua Nerina, e non senza rimorsi.
Ma i rimorsi vanno
travolti dalla passione; e la passione cerca e trova la sua giustificazione,
eziandio nella filosofia. L'uomo, che volgarmente si dice cacciatore, non è
forse scientificamente poligamo?
Egli, che si è
elevato con gli studi e con l'ingegno, può credersi anche superuomo. E la
poligamia è certamente un diritto del superuomo, che le buone donne fanno bene
a riconoscere e rispettare. Testè i giornali riferirono, che avendo l'editore
Lacroix offerto un banchetto per festeggiare il sessantesimo anno di Vittor
Hugo, la costui moglie autorizzava l'invito alla amante del marito semidio e
faceva un brindisi alla salute di lei. Thiers e Verdi, se contasi il vero,
offrono altre imitazioni.
Del resto le donne in
generale non dovrebbero avere difficoltà ad ammetere il sultanato maschile, esse
che... Ed alla sua erudizione antiquata sorridevano, mentre egli ardeva
estremamente della concupiscenza per una donna, sorridevano fresche le ingiurie
rivolte dal Nevizzano nella Sylva Nuptialis contra il bel sesso. Egli
spiegava mentalmente la sciarada latina:
Arbor
inest sylvis
Quae
scribitur octo figuris,
Unde tribus ademptis,
Vix unam e mille videtis.
Spiegazione:
Casta- nea.
Ma l'una tra mille,
la casta tra mille è precisamente la signora Losati, la moglie
dell'imperdonabile traditore. Onde lo ripigliava il relativo rimorso.
Per ricacciarlo in
fuga, egli profanava la preghiera dell'inno cristiano: Accende lumen
sensibus. Profanava la risposta assicuratrice di Salomone al quesito sulla
risurrezione della carne fattogli da Beatrice per Dante:
Gli
organi del corpo saran forti
A
tutto ciò che potrà soddisfarne.
Quando con un fiatone
il peccatore novellino e la peccatrice inconsumabile penetrarono nell'alta
stamberga, Nerina dopo lo sbattimento dell'uscio, fatta l'ispezione
rapidissima, disse a lui, che serrava a chiave: ¾ Potevi trovare anche di meglio!
Egli si sentì
mortificato, ma vinse la mortificazione con uno slancio di umiltà regale. Ed a
lei, che gli apparve discinta con generosità di imperatrice romana, disse la
dolcezza dell'egloga di Virgilio:
Nerine
Galatea, thymo mihi dulcior Hyblae,
Candidior
cycnis, edera formosior alba.
Dalle citazioni
latine l'imperatoria Nerina lo tradusse, lo coinvolse rattamente nel peccato
originale.
A lui parve avverato
il desiderio di passare come un fiume dolce a traverso un lago di ebrietà amara
senza inamarire.
Essa, malgrado il
fastidio del sito di guano proveniente dalla contigua uccelliera, provò una
nuova soddisfazione acuta, la soddisfazione di vedersi e sentirsi amata in
latino, ed amata dalla sapienza di un re Salomone.
Ecco soddisfatto un
altro dei suoi oramai infiniti capricci per pianoforte. Essa mostrò di meritare
il complimento virgiliano, essendo più dolce del miele ibleo, più candida dei
cigni, più teneramente tenace dell'edera bella.
Estasiato,
riconoscente, Spirito Losati respingeva il rimorso verso la sua legittima e
santa mogliera; e quando l'immagine di costei gli sorgeva nel cervello
incitatrice di vendetta e strage contra la sublime provocatrice di peccati,
egli scendeva a più miti propositi, pensando di imitare Dante, che per amore
ghibellino imparadisò nel Cielo di Venere la Cunizza, sorella del feroce
Ezelino, sebbene la malandrina avesse avuto tre mariti ed innumerevoli amanti,
tra cui principale preclaro il trovadore Sordello. Così Spirito Losati
incielava la venerea Nerina nel Paradiso di Dante; e gli pareva che Nerina con
profanazione dantesca gli dicesse paradisiacamente eccitante:
L'alto
disio che mo' t'infiamma ed urge
Tanto
più mi piace quanto più turge.
Invece Nerina dal più
abbondante sentore di guano che l'uccelliera tramandava in quel nido di
paradiso, ebbe un trasalto imperioso che le scosse le viscere. E per esercizio
di impero in quella lurida soffitta, fa portar via da Losati il vaso da notte,
mostrando, pensa egli ancora dantescamente, mostrando l'ubertà del suo
cacume. Fra i piaceri volgari, dopo aver vuotata la pelle, c'è quello di
riempirla.
E Nerina esige che
egli la conduca a cena in una trattoria da studenti e modiste.
Con quale paura di
vergogna, il professore si nascose nel cabinet particulier!
Cacciò la vergogna,
bevendo copiosamente vino e citando Anacreonte, nella sua propria traduzione:
Tra
giochi venera il Dio del vino!
Vuota
il bicchiere! ¾ Se morte
giugneti,
Diratti
squallida: «Non dei più ber!»
Ma,
mentre si vive, bisogna bere.
Beve
la bruna terra,
E
ogni albero, ogni fiore
Beve
il fecondo umore che nel suo sen rinserra.
Il
mar l'auretta beve
Non
cessa unqua di bere:
Il
sole dalle spere
I
salsi flutti beve.
Bea
Delia i rai del sole...
Ed egli beveva un
bicchierino di nebiolo, dopo aver ottenuto che Nerina baciasse, benedicesse
anche quel nettare con le sue labbra.
¾ Dal
farle tardi SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ Cristo ti guardi! SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ mormorava la coscienza
professorale al galantuomo, che si permetteva una licenza da studente. E perché
la dignità di professore ripigliasse il disopra, egli cenando per la prima
volta in una trattoria di straforo con una donnina, le piantò la grana erudita
della confarreatio, formalità matrimoniale degli antichi romani,
consistente nel rompere e mangiare insieme della stessa focaccia.
Nerina oramai era
stufa di quell'ingenuo sapiente; e se non fosse stata l'ostinazione di non
lasciarsi sfuggire così presto la preda rara, essa a sua volta si sarebbe
affrettata a piantarlo lui e la sua grana della confarreatio.
Ma per non rendere
troppo presto la metà alla legittima proprietaria, essa continuò nel circuire,
avvinghiare Spirito Losati, imponendogli di affittare per il ritrovo uno
stanzino meno fetente.
Egli con mille
comiche circospezioni locò una stanzetta da tenentino nel Lungo Po prospiciente
al Monte dei Cappuccini.
Ma nel rendersi al
primo appuntamento colà egli trovava la porta listata di nero per la tragica
caduta di un povero muratore. Volle retrocedere; e non osava, perché Nerina lo
aveva preceduto. Almeno si prefisse di non consumare il peccato.
Si deve onorare la
sventura. La pietà umana fa risentire maggiormente la fratellanza, quando la
sventura giunge inopinata, e un figlio si accorge ad un tratto di aver cenato
l'ultima volta con il babbo, con cui non potrà più discorrere, né domandargli
perdono.
Il cuore pulsava a
Spirito Losati di compassione cristiana; e gli pareva un sacrilegio godere la
vita, mentre fratelli in Cristo e nell'umanità piangevano lì presso la morte.
Ma il cuore di Nerina
non era recipiente di simile misericordia. Con occhi imperdonabili ed
irresistibili la giudicò una bambinata; ed egli dovette farle il sacrifizio
anche dell'istante di purificazione ed elevazione religiosa.
¾ Sei
l'angelo dei demonii! ¾ egli
disse subendo la condanna dei sensi.
Quasi maledicendo di
beatitudine vedeva per Nerina l'angelo umano attratto, allacciato da Venere mater
saeva libidinum aut cupidinum, madre crudele di voglie amorose.
Come potrà Spirito
Losati liberarsi dai vincoli di quella empia Dea della bellezza moralmente
brutta?
* * *
Sperò un risorgimento
morale nell'amore della patria, nella passione politica della libertà.
Il partito avanzato
di Torino fremeva sdegni per l'andata del Gran Re d'Italia a Vienna, e per le
concessioni governative al Vaticano nelle nomine dei vescovi intransigenti.
Pareva che dalle carceri sepolcrali dello Spilberg e di Gradisca, dalle forche
di Belfiore e dal rogo di Campo dei fiori sorgessero i martiri a squadrare le
forche all'indirizzo della consorteria e della Regia cointeressata che
sfruttava il paese coll'umiliazione.
Come in altre città
del bello italo regno, si era organizzato un imponente meeting di
protesta al teatro Vittorio di Torino. Il prof. Spirito Losati era in predicato
quale uno dei primarii oratori. Egli ne parlò alla moglie, che lo infiammava
alla più santa eloquenza; ne tacque alla amante, la quale indovinato il suo
proposito, si proponeva distorgliernelo, se non con la persuasione
dell'intelletto, certamente con la snervante eccitazione dei sensi.
Eppure la stessa
Nerina nel passare in rassegna le eminenti potenzialità donatele da Dio,
invidiava la gloria delle eroine, di quelle che il Manzoni con arguzia grave
chiamava madri della patria. Avrebbe voluto essere almeno un'artista capace di
tradurre un raggio di sole nella pennellata di un quadro o nel verso di un
libro... Che ne poteva lei, se Dio le aveva dato soprattutto la voracità
dell'aquila carnivora! E le si acuiva la rabbia di non essere divenuta madre
della Patria, di non essere ascesa all'Olimpo femminile delle eroine, e di
essere soltanto un'aquila, che domanda sempre carne carne umana!
Nella mattinata del
giorno, in cui era indetto il comizio, ella volle un lungo convegno con lui.
Egli si recò
sentendo, agitando nella testa e nel cuore una montagna di ideali da ascendere.
In questa bassa vita,
che è un breve contatto di una forma materiale con l'immenso e l'infinito
ideale, certamente riesce superiore e sente una brama più pura, larga ed
elevata chi estende, protende il suo egoismo al prossimo, alla patria, che è
una forma storica e naturale del prossimo, e si innalza nella distribuzione
della libertà, che è il migliore ambiente in cui possa svolgersi l'attività di
tutti.
Pertanto egli
domanderà a Nerina, che lo lasci integro a quella ascensione ideale umana, la
quale ridonderà pure a gioconda di lei gloria.
Ma che ascensione
ideale umana!
Quando vide Nerina,
che lo attendeva intronizzata, spettoracciata, sul canapè, sentì che egli omne
tulit punctum, toccava il vertice della bestia umana, con il tornare su
quelle montagne, tenere e solide combinate di latte e miele rappreso, premere,
tastare quel giardino di Dea Pomona, entrare in quella valle di gigli e rose
del Paradiso.
Gli bruciava addosso
un pizzicore inestinguibile, irrefrenabile, che dava in un lago di dolcezza
insuperata, dove tornava bello anche annegare, esalare l'anima per la
perdizione eterna.
Era abbandonarsi,
ubbidire alla maggiore, alla più forte delle leggi, alla legge di Natura.
Egli con la
malinconia dell'animale, dopo il congresso, ricuperò un'apparenza di energia
risolutiva; e si sciolse da Nerina, che indarno pretendeva trattenerlo ancora,
e poi si profferiva di accompagnarlo al Comizio.
Egli scese sulla strada
infiacchito, estereffatto, barcollante del lungo amore subìto.
Nell'avviarsi al
teatro Vittorio Emanuele, egli invece del fremito di comunicare ad una folla
pulsante, inondante, sentiva il bisogno di separarsi dal mondo e porsi a letto.
Pure, obbedendo ad
una consegna di onore cittadino e a un giuramento più patriottico che settario,
si portò al teatro Vittorio, pregando Nerina, che pigliasse posto nelle sedie
chiuse, mentre egli doveva salire al palcoscenico fra i promotori.
Si trovò sul
palcoscenico, confinato nel semicerchio di sedie, che incoronava il tavolo
presidenziale e la tribuna degli oratori, spalleggiato da una foltezza di
bandiere operaie, e davanti in platea un mare tempestoso scintillante di gente,
e le gallerie rigurgitanti, come versanti di colline in vendemmia ideale. Ma
egli è oramai un operaio inutile per la vigna del Signore.
Trilla nel cuore
trepidante di Losati il campanello presidenziale, che inizia il comizio. Ma la
testa vana non gli risponde idee. Invano occhiate di aspettazione, e
strizzature d'occhi invidi o intelligenti si rivolgono a lui. Egli si lascia
pigliare il primo, il secondo, il terzo turno da un avvocatino petulante, da un
deputatino procacciante, da un operaio indiavolato.
Il quarto turno, il
turno finale tocca a un Mosè dell'estrema sinistra garibaldina. Spirito Losati
si è messo fuori di combattimento. Egli resta compresso, abbattuto dalla
persuasione della sua impotenza e della sua indegnità, è l'imparità, è
l'indegnità di sostenere la causa della Patria e della Ragione, quando si è in
peccato carnale. Così egli è impedito dalla debolezza fisica e dalla coscienza
morale a protestare italianamente contro l'andata del Soldato di Palestro a
Vienna, e impedito a chiedere dantescamente e petrarchescamente l'abolizione
della Legge delle guarentigie al Papa dell'empia Babilonia, che usurpa il luogo
vacante di Pietro e di Cristo. Ma, appena cessato il comizio, lo invasa
l'orazione, che egli avrebbe dovuto o potuto fare. A casa, a scuola, per via,
egli soffre i tormenti del discorso rientrato, che gli ulula dentro. Egli si
abbandona per parecchi giorni ad una masturbazione oratoria, declama il
discorso nel suo gabinetto solitario, allunga le unghie per afferrare le
settemila persone del Comizio già da tre giorni disciolto.
¾
L'oratoria, egli riflette, rassomiglia un po' all'amore. Quando l'amante si
incammina al colloquio con l'amato bene, ha l'anima rigurgitante di parole da
Paradiso; ammutolisce poi nel colloquio; ed appena ritorna solo, quelle parole
non dette gli rientrano, si amplificano, insorgono, lo accusano, lo assalgono,
gli si ficcano nelle carni del cuore, nei precordii, gli scuotono, gli gonfiano
il cervello, inferociscono...
Con un ghigno
mefistofelico sull'utilità trapassata gli si matura la materia, gli si
riordinano gli argomenti. Gli pare di trovarsi perfettamente nel precetto di
Orazio: cui lecta potenter erit res, nec facundia deserit hunc, nec lucidus
ordo... Ed ora tutto è inutile, tutto è perduto...
No! Perviene a
salvarlo, liberarlo dall'ossessione, a fruttificarlo nella vita degna essa, la
fedele, l'ottima signora Consorte. La quale gli consegna un decreto
ministeriale, che lo nomina Commissario Regio per gli esami di Licenza
all'Istituto Tecnico di Trentacelle.
Trentacelle era la
città, dove Losati aveva compiuto gli studi secondarii, e dove il padre di
Lorenzina si era arricchito con la macelleria gentile. Non per l'attrazione di
un'aurea dote, ma per l'attrazione di due trecce nere più forti delle catene di
un porto, per l'attrazione del volto di rosa ferruginosa, per l'attrazione di
due occhi scintillanti, come il diamante, Losati si era sentito avvinto alla
sua futura consorte cogli approcci dell'improntitudine, che la Provvidenza
aveva stabiliti a salvezza e consacrazione della vita.
Che bella cosa pel
professore rifare a Trentacelle l'idillio studentesco! E l'ottima signora lo
avrebbe volontieri accompagnato colà, se nominata dal Municipio di Torino
ispettrice per le Scuole elementari di Borgo Dora non avesse dovuto essa stessa
prendere parte ad una giunta esaminatrice.
Il redento Losati
giunse pertanto solo a Trentacelle con la migliore intenzione di purificare nei
ricordi testimoni di un ingenuo santo idillio i trascorsi peccaminosi con la
contessa De Ritz.
Ma nella sera
medesima del suo arrivo all'Albergo del Leon D'Oro, ecco riapparirgli
Nerina, pantera misteriosa, fatta di ombra e di velluto, e di fascino sempre
irresistibile. Pertanto egli venuto ad esaminare e giudicare i giovani per la
direzione alla virtù, cedeva di nuovo scandalosamente al vizio. Inutile il suo
rimorso della profanazione di innocenti primordii d'amore appositamente voluta
dalla consumata peccatrice.
Vicino all'Istituto
Tecnico eravi l'asilo infantile «Calasanzio». La Contessa, dopo essere stata a
prendere il professore al termine d'una sessione d'esami, volle essere condotta
da lui a visitare quell'asilo, che meritamente si decantava come un monumento
d'arte applicata all'educazione, onde l'architetto cav. Domenico Gattelli era
stato insignito della Commenda dei Santi Maurizio e Lazzaro. Di vero l'edifizio
meritava una visita di ammirazione, specialmente il cortile, che rendeva la
poesia d'un chiostro francescano. I pilastrini esili come steli coi capitelli
di varietà floreale erano stati inspirati dal modesto e valoroso artista
Giuseppe Maffei, che nel Biellese sotto il patrocinio munifico di Federico
Rosazza ricreava un tipo genuino di arte primigenia. Quei portici parevano
fatti, perché vi passeggiasse Gesù, mettendo la benedizione delle sue dita tra
i ricci dei bambini; e parevano quelle volte echeggiare il cristianissimo: Sinite
parvulos venire ad me! L'architetto aveva avuta una vera trovata amena
ed economica. Verso la sommità alla parete degli atrii erano fisse mensole
marmoree, ciascuna delle quali portava un angelo di gesso, che mostrava, quasi
ventilava questa scritta: Datemi diecimila lire e vi cedo il posto. Un
invito al busto per la fiera della vanità umana. Già tre benefattori avevano
accolto l'invito; e sopra tre mensole avevano rispettivamente preso il posto
degli angeli di gesso due impettiti in marmo di Carrara; un salsamentario
decorato, che si era fatta inchiodare al petto, oltre la croce della Corona
d'Italia, la medaglia di un'esposizione di suini; un droghiere improsciuttito dall'aria
impepata, che faceva starnutare a guardarlo; terzo un canonico di bronzo. Anzi
dal poeta cittadino doctor Malalingua si attribuiva al canonico l'idea bronzea
di lasciare per testamento altre dieci mila all'Asilo Calasanzio, affinché
erigesse un busto in marmo cipollino alla famosa cuoca di lui per quel panteon
di beneficenza.
Nerina commentò a
Losati: ¾ Mio papà
ci morderebbe. ¾ Poi ebbe
un pensiero più irriverente: il pensiero, che in teatro le signore scollacciate
mettessero sulle trine del seno: dateci dieci mila lire, ed anche meno, con
quel che segue.
Il professore Losati,
utilitario nelle modernità pratiche, ammirava eziandio l'igiene e la decenza
delle latrine.
La Contessa si affisò
davanti la lastra della soneria elettrica, compitando gustosamente il
cartellino d'avviso al bottone: un colpo solo pella portinaia; due colpi per le
suore maestre; una suonata lunga per la superiora.
La Contessa si
allontanò a braccetto del professore sghignazzando nel pervertimento dei doppi
sensi d'interpretazione: e pretendendo per sé tutta la gamma dei campanelli
elettrici, specialmente la suonata lunga della superiora da disgradarne la sonata
a Kreutzer del Tolstoi.
Il professore, pur
incapace di reagire, ne sentiva ribrezzo, come se egli con quella diavolessa
avesse importato la corruzione in quella antica città patriarcale.
Davvero Trentacelle
era in uno stato di quiete da offrire il maggiore spicco alla anormalità di una
diavolessa eteroclita.
Felicemente priva di
quei superuomini sporadici, che intorbidano in certe epoche le città di
provincia, era governata sistematicamente da vecchi patriottardi ingenui, che
pigliavano sul serio anche i diplomi delle Società dei Salvatori di Napoli e
dei vetrai perlacei di Venezia. La stagione estiva aumentava la solitudine
acquitrinosa da capitale delle risaie. Viceversa le belle e ricche signore che
Doctor Malalingua chiamava ambubaie gratuite o paganti, se ne erano andate alle
acque più salubri dei mari, dei laghi e dei monti. Talune si erano spinte
all'Esposizione Universale di Vienna; e con maggiore fracasso delle altre era
partita per quella Mostra Mondiale la sfarzosissima marchesa, che Doctor
Malalingua aveva soprannominata la Dea Reggimentale, dopo che essa in una cena
al Circolo Ricreativo innalzando il calice spumeggiante aveva brindato: Viva
Piemonte Reale! Abbasso i mariti!
Desiderato Chiaves in
una ricreazione filodrammatica, compassionando una vedovella solitaria nella
sua villa, aveva fatto esclamare da uno zio rappresentativo: ¾ Che fa
il ministero della guerra, che non manda uno squadrone di cavalleria nei
dintorni a consolare la solitudine della mia cara nipotina? ¾ Così e
converso gli ufficiali di Piemonte Reale Cavalleria pesante, di guarnigione
all'uggia della melmosa Trentacelle nella state del 1873, potevano
mitologicamente invocare Venere e Cupido: ¾ Se non
siete definitivamente morti, Dio dell'amore, Dea dell'amore, che fate?
Spediteci qui una bellezza da ammirare e corteggiare.
Si direbbe, che
Venere e Cupido esaudissero i voti dell'Ufficialità di Piemonte Reale
Cavalleria con la spedizione della Contessa Nerina a Trentacelle.
Veramente essa vi era
venuta per il professore Losati. Ma non è più lecito ignorare, che essa era uno
di quei cuori ardenti, che non si appagano di nessun amore. Ed era più
prepotente di una czarina slava nella molteplicità dei suoi capricci imperiosi.
Della sua prepotenza
aveva già dato saggio all'albergo, al caffè e nelle passeggiate, principalmente
con gli occhi, che lucevano come una stella; una stella d'inferno, stella
promettitrice di rapimenti, tempeste e rovine.
La sua conquista
decisiva fu a teatro.
Al Politeama
Tupinetti si rappresentava un drammaccio da arena: La colpa vendica la
colpa. Però il maggiore spettacolo era quello che il pubblico si dava a se
stesso, facendo licito il libito in sua legge per esalare seralmente l'afa
della giornata estiva.
Chi fumava, chi
cicalava, chi beveva, chi ordinava scioppi di birra. Si sentivano come
revolverate gli stappi della gazosa.
Nel pandemonio si
distingueva la barcaccia degli ufficiali di Piemonte Reale, che sporgeva al
lato destro del proscenio, tanto da poter stringere la mano alla prima donna o
dare un pizzicotto alla servetta.
Irruppero cinque o
sei tenentini reduci coll'ultimo treno dagli esami di promozione della Scuola
di Pinerolo. Furono interrogati premurosamente sull'esito. Il più oratore di
essi rispose con rassegnazione di iattanza nel latino maccheronico più che
goliardico: Si passus, passus; si non passus, andabo a spassus, pigliabo
uxorem et coglionabo professorem.
Il cicaleccio venne
interrotto dalla luminosa apparizione della Contessa De Ritz nelle sedie chiuse
col professore Losati.
Vista la puntatura
pertinace del relativo binoccolo, un capitano osservò all'oratore dei tenentini
di Piemonte Reale: ¾ Mi pare
che tu voglia pigliare la moglie degli altri, la moglie del professore.
Pigliabo uxorem et
coglionabo professorem, divenne il ritornello, il refrain, il leit motiv della
barcaccia degli ufficiali di Piemonte Reale, che colle bande rosse sulle gambe
lunghe si rizzavano, si protendevano, come diavoletti arroncigliatisi: chi
spediva baci, chi pareva volesse gettare il fazzoletto di sultano, chi la rete
di pescatore, chi il laccio di gaucho mato sulla Contessa imperatrice
delle sedie chiuse.
Il professore non
dava segno di accorgersene, assorto come la maggiore parte del pubblico nella
lettura dell'Eco di Trentacelle, il cui foglio uscito e distribuito di
fresco, andava a ruba e costituiva l'avvenimento di quella sera. Tutti lo
leggevano, ad eccezione degli ufficiali della barcaccia più dediti
all'equitazione, alla scherma e alle conquiste, che ai pettegolezzi della
letteratura provinciale.
Eppure Spirito
Losati, benché rotto alle letterature classiche, scopriva un nuovo filone di
minerale letterario in quelle Cacature di Mosca, come il Doctor
Malalingua dell'Eco di Trentacelle aveva voluto modestamente ed
anche sprezzantemente intitolare i suoi ristretti di romanzo e spunti di
commedia. Egli era il giovane farmacista Evasio Frappa, che a divagazione e
sostegno della monotonia dei suoi pestelli e vasetti si era fatta coll'assidua
lettura una cultura straordinaria, e si era formato uno stil nuovo caustico da
rivaleggiare nella provincialità di Trentacelle con il rapido, plastico e
mordente bozzettista americano Bret Hart, e da precorrere agli acidi corrosivi
dell'amaro Massimo Gorki. Se un generoso editore (nella supposizione
inverosimile che vi siano generosi editori in Italia) avesse la furberia di
raccogliere dalle annate gialle dell'Eco o dell'Oca (come
dicevano gli spiritosi dileggiati) di Trentacelle d'una quarantina
d'anni fa, le Cacature di Mosca di Doctor Malalingua (Evasio Frappa)
colpirebbe l'immaginazione del pubblico con un tesoretto postumo di
osservazioni concrete da togliere il gusto della letteratura sbattuta e vuota
oggi in voga. Segnalatamente gustosi gli scampoli: Un trombone isolato SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ Il burattinaio famelico SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ A che servono le donne
d'altri SYMBOL 190
\f "Symbol" \s 12¾ Lasciate amare SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ Il mestiere d'amare SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ Storia di una molecola SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ Le citte SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ Necrologia di una pipa SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ Al marito di cento, senza
averne sposata nessuna, titolare di una commedia a soggetto. Noi per connessione di causa
riproduciamo un profilo relativamente più debile intitolato: Formidabile,
caricatura a chiave riconoscibilissima della Dea reggimentale, la cui attraente
lettura in quella sera distraeva l'attenzione dal dramma «La colpa vendica
la colpa» nonché dalle manovre di Piemonte Reale Cavalleria nella
barcaccia, dagli inviti assordanti di gaseuse e bira, e dallo
stesso splendore e fascino civettuolo della contessa Nerina sovrana nelle sedie
chiuse. Ecco il profilo esumato:
SYMBOL 190 \f
"Symbol" \s 12¾ Formidabile SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾
sommario di
romanzo
I. Non è la storia di
una pirocorvetta ad elice, ma è la storia di una nobile signora più formidabile
di una fregata da cento cannoni. Nacque figliuola unica del barone Uvamico,
proprietario rentier, insignificante, inconcludente e della baronessa
Carissa dei nobili Scintilla morta con sapore di bambina. Fu battezzata Stella.
Fu educata in un convento. Ritirata a casa a sedici anni giocava ancora con la
puppatola. Sentiva bisogno di amare. In convento le era sembrato di amare un
baritono venuto a cantare un pange lingua in una funzione religiosa. Ora
avrebbe voluto amare uno scolare studioso, un avvocato eloquente, un giovane
che si fosse reso benemerito verso sua madre o verso il prossimo, un
fabbricante, che avesse trovata una tinta indelebile per i calzoni o per la
cifra della biancheria. Un giorno le annunziarono, che ella avrebbe sposato il
marchese Ercole Passerotto di Frappaglia.
II. Chi era il
marchese Ercole Passerotto di Frappaglia? Era figliuolo a un diplomatico di
Carlo Emanuele ultimo e di Vittorio Emanuele I, che aveva abbandonato
l'educazione del figlio per la diplomazia. L'aveva commesso a un prete, Don
Procopio. Il tirone, di indole frigida, cioè pochissimo sensuale, si innamorò
molto spiritualmente e poco spiritosamente del cappellano. Don Ercolino
mostrava e sentiva entusiasmo per le benedizioni ed i santuarii: portava il
baldacchino, la pellegrina e le conchiglie in processione: avrebbe fatto dieci
miglia a piedi per sentire una messa cantata, accompagnata all'organo da padre
David. Si soffiava il naso con fazzoletti dello stesso colore del piviale, che
deve variare ogni giorno il prete a messa secondo il calendario rituale. Aveva
divisato di immortalarsi con una monografia sulla Confraternita di Santa
Caterina. I cosidetti sensi non li conosceva più nemmeno, avendo tarpato loro
le ali, appena mettevano il cannone.
A quindici anni,
quando alcuno gli domandava chi intendesse sposare, egli rispondeva: ¾ Voglio
sposare Don Procopio!
A venticinque anni,
il padre gli replicò la domanda. Ed egli rispose, che voleva sposare la Chiesa.
Il padre pianse alla
pochezza d'ingegno del figlio, egli che voleva tirarne un diplomatico, un uomo
di stato. Gli osservò, come per un figlio unico non c'era luogo a vocazione
ecclesiastica, ¾ e che
per un nobile né prete, né militare era un disonore non avere moglie. Don
Ercolino si acconciò e sposò la contessina Clara Faggio Del Poggio, florida
bionda, che dal giorno del matrimonio al contatto di quella cartapecora
intristì, fino a morire di lì a sette mesi.
Il marchese Ercole ne
pianse la morte religiosamente, ufficialmente e coralmente, perché così gli
imponevano le sue convinzioni di gentiluomo, di galantuomo e di fedele
cristiano. Ma nel suo sé fu contento di essersi spacciato dall'obbligo della
moglie, e dal disonore di rimanere nobile celibe senza essere colonnello né
monsignore.
Durò cinquant'anni di
fiera vedovanza, durante i quali fece fabbricare due organi nuovi, pubblicò le sue opere storiche su diverse
confraternite e comperò la mula bianca per l'ingresso del nuovo arcivescovo.
Protestò contra lo Statuto e l'abolizione del foro ecclesiastico e dei
Conventi. Nel 1858 per l'epidemia clericale elettiva fu mandato deputato al
Parlamento Subalpino. Vi si recava, dopo avere udito e servito due o tre messe
a San Filippo.
Avrebbe creduto di commettere un
peccato di gentiluomo cattolico, se avesse toccato la mano a Brofferio o a
Borella.
Non parlò mai.
Quando il padre Angius o il conte
Solaro della Margherita nominavano il Padre Eterno od il suo figliuolo nostro
Signore Gesù Cristo, egli si levava il berrettino pretesco, e si faceva fieramente
il segno della Santa Croce in Parlamento.
Dopo il sessanta, egli pianse su
Casa Savoia e si recò nel suo Castello di Frappaglia, paese quasi tutto suo.
Diceva il breviario, come i
preti.
Abolite le corporazioni religiose
anche nel Napoletano, egli ospitò a Frappaglia un monastero di suore
carmelitane. Una nobile monacella, dolce come una caramella, la Mirto La Chaine
di Mostiafè, la quale non aveva ancora varcato gli ultimi voti, gli presentò
nel giorno onomastico un mazzo di fiori con la grazia di un'estasi implorante
da reclusa. Il vecchio marchese Passerotto di Frappaglia sentì uno strabiliante
effetto di amore a settant'anni. Nell'orgasmo senile la baciò, ed onestamente
se la sposò, dopo avere pagata una lauta dispensa alla Dateria apostolica di Roma
ed ottenuta per sopramercato una particolare benedizione dal Santo Padre.
La marchesina allontanava ogni
adorazione altrui con un raggio d'occhio dolcemente superbo. Morì nella
maternità martire. Inconscio Barbableu, il marchese Ercole Passerotto di
Frappaglia pianse di nuovo ufficialmente e coralmente, e fece venire, oltre
l'arcivescovo, due vescovi e dieci canonici per la sepoltura. Finito il rito
funebre, convocò l'arcivescovo, i vescovi e i canonici a concilio nel coro
della cappella, e tenne loro un'arringa, dicendo che per la salute della sua
anima e del suo corpo aveva bisogno di una nuova sposa, purché aristocratica e
cattolica; e glie la cercassero.
Non fiutarono a lungo i
monsignori per trovare la nubenda al vegliardo de cujus. Uno di essi
propose la propria nipote baroncina Stella Uvamico, il cui padre era vicino a
spiantarsi per la sua imbecillità.
Nei primi giorni del suo terzo
matrimonio, il marchese Passerotto lasciò in libertà la sposa, che aveva
quartiere separato. Al sesto giorno la più vecchia delle dame di compagnia
avvertiva la marchesa, che lo sposo sarebbe venuto a farle visita intima di
sera, dopo il rosario. Venne ilare, rimpennacchiato, ossia vestito comicamente
e lussuosamente alla Goldoni con trine bianche e parrucca nera, spadino e
fioretti... Contento della relativa conquista, egli si arrese a trasportare i
lari in città. Quivi dava delle feste da ballo, come glie lo permettevano le
sue trecento e cinquanta mila lire di rendita. Mentre gli altri ballavano o si
divertivano altrimenti, egli diceva il breviario, e finito il ballo andava a
messa.
La marchesina Stella paragonò il
poderoso scalpitio di un capitano di Nizza Cavalleria alla tosse e allo
scricchiolare della carcassa del marchese. Dopo mille rimordimenti di
coscienza, diede il suo cuore, la sua fotografia, le sue labbra all'ufficiale
cavaliere, per crearsi una nuova vita di felicità perpetua, fedele, amorosa,
permessa dalle leggi degli angeli.
Il capitano cambiò di
guarnigione. Inutilmente essa spedì il marito clericale nella capitale usurpata
ad invocare dal ministero massone il ritorno di Nizza Cavalleria a presidio
della consorte.
Essa voleva fuggire, suicidarsi,
farsi monaca... Voleva recarsi a implorare un santo consiglio da un santo
vecchio sacerdote... Invece capitò a farle visita un giovane e bel canonico.
Essa si accorse solo allora, come un prete poteva essere salacemente bello.
Subì una dichiarazione amorosa sacerdotale. Stella amava misticamente il
canonico, che venne graffiato dalla cuoca e piantò la marchesa, dopo averla
accompagnata ostensivamente a braccetto nel visitare le cappelle artistiche del
Sacro Monte di Varallo.
Delusa dall'abbandono canonicale,
la marchesa ritiratasi al Castello di Frappaglia, quivi amò rubestamente un
contadino, che aveva adocchiato a un ballo pubblico, e giudicato più bello ed
aitante di tutti gli ufficiali e di tutti i canonici... Se ne disgusta una sera
per il puzzo... Stella non voleva cadere in una stalla.
Ritorna in città più formidabile
che mai. Allaccia, straccia, stritola, scarpiccia cento vincoli di amore. È un
uragano in un bosco d'amore. Il marchese sopporta da gentiluomo del settecento;
raccomanda solo di salvare le moderne apparenze. Stella riceveva docile e
imperiosa i frequenti assalti, più che omaggi, dei tenentini impertinenti ed
impetuosi; e dignitosa gli inchini dei grossi colonnelli, uno dei quali, grosso
come un tamburo, nel forte della dichiarazione scappò in un petardo.
Sgloriata nuovamente del
militarismo, essa volle lasciare un'altra volta l'esercito per la chiesa; finse
una malattia e una confessione per sedurre un celebre predicatore. Poscia si
invaghì di un giovane pittore, il quale visibilmente segnato dalla Dea Gloria,
aveva promesso di sposare al suo paese l'umile figlia di un fornaio, ricciuta
come una pecora del sole, perché era stata la sua prima favilla artistica.
Stella si fissò di rapire il nuovo Raffaello alla fornarina rusticana.
L'artista cede alle lusinghe della superba matrona. Ma dopo la prima eclampsi
d'amore, egli, già snebbiato di voluttà, sentì la plebea tentazione di
imprecare: porca marchesa! Come il re Teodorico in una ammoniaca spirituale
dell'ebrietà banchettante vide nella testa del pesce i teschi delle sue vittime
Simmaco e Cassiodoro, così il pittore in una svenia della Donna formidabile
vide rifiorire l'immagine della sua unica Fornarina, innocente fanciulla, che
lo scacciava dalla filatessa degli amanti di Stella. Per riabilitarsi egli ha
bisogno di un gran colpo: trae di tasca un portafogli; ne estrae un biglietto
della Banca Nazionale di lire cento, rosso come la vergogna, e lo dà alla
marchesa, dicendo: non ho mai pagato tanto niuna...
Se avesse pronunciata la parola,
l'avrebbe detta in greco: etaira...
La marchesa urla, ma
ritiene il biglietto, lo caccia in un medaglione; poi lo fa inquadrare e
spianta la sua corte.
Diviene una
benefattrice.
L'artista ha sposato
la fornarina.
Il marchese Ercole è
morto. Morrà anche la marchesa lasciando il fatto suo allo Spedale.
Sarà santificata.»
«Doctor
Malalingua»
Alla chiusa ottimista
del bozzetto, il professore sollevò lo sguardo carico dall'appendice dell'Eco
di Trentacelle, e colse in uno sguardo fragrante l'attacco più che
formidabile di Piemonte Reale Cavalleria alla contessa De Ritz, e questa in
posa smaniosa di fortezza prendibile, e quasi in accensione di Troia omerica;
onde sospirò internamente con una sicurezza di virgiliana immagine: Nerina
ruit in pejus.
|