Giunta a questo punto
la pubblicazione del presente romanzo a puntate nella Rivista «Lo specchio
della vita « il romanziere ricevette parecchie lettere di specchiate e
pietose lettrici, che domandavano la grazia della vita per Nerina.
«O nostro simpatico
scrittore! A Voi non costa niente farla guarire. Risparmiate il più grave
rimorso e chi sa quale condanna al padre giustiziere, ed a noi i relativi
brividi nell'insonnia».
Non mancò al
romanziere una visione calmante per le sue gentili lettrici.
Se la pistola del
Commendatore Vispi fosse stata carica soltanto a polvere, che non avesse fatto
palla con lo stoppaccio!
Se la detonazione
innocua avesse pure avuta la virtù di liberare completamente Nerina dai suoi
capricci! O se i capricci le fossero rimasti sovrani, ma indirizzati ad utilità
propria o dei suoi cari, per esempio messi a servizio del corpo elettorale di
suo marito...!
Se l'eroico di lei
marito reduce dalla gloria delle patrie battaglie si fosse riconciliato con lei
reduce dalle bottiglie di Sciampagna di Mistriss Dell, ed avesse ricuperato in
lei il più prezioso sostegno per la saldezza del suo trono politico ed
amministrativo!... Se essa inchiodando al suo carro vittorioso i più influenti
elettori, ne fosse divenuta la sacerdotessa e la divinità mitologica. Eccola
dessa intronizzata per un banchetto elettorale...
Come un ladrone
emerito il Barbarò del Rovetta si congelava ed erigeva un monumento cristallino
con le lacrime del prossimo, così la nostra Nerina, Barbarò in gonnella, con
tutta la possa delle sue atmosfere amorose si calcherà un monumento adamantino
delle lacrime squisite di amanti.
Ecco: si cerca una
sala ampia e storica per il banchetto del trionfo elettorale; e si giudica
abbastanza ampio e storico il teatro filodrammatico, insediandovisi nell'unico
palco la signora Barbarò, pardon Contessa De Ritz Ecatomfila.
La si adora come un
idolo.
Non conta, telum
imbelle, sine ictu, dirà Spirito Losati, l'orrendo bisticcio degli
avversarii politici ed amministrativi, che la raffigurano giovenca ingrassata
dal latte bevuto ai più influenti elettori, membri insigni di Corpi
deliberativi...
Ogni malignità
scompare nell'incenso dei turiboli. Massimo incensatore è il Cancelliere
vecchio ruffiano, che leggendo il discorso intacca nei numeri scritti in cifra,
e irresoluto a pronunciarli in Italiano, li dice in dialetto: ¾ Così il
Consiglio Comunale nella memorabile tornata del diset novembre milaotsentstantaset
dichiarava, proclamava l'inclita patrona contessa Nerina De Ritz, cittadina
onoraria di Ripafratta e benemerita della Salute Pubblica. Alla Salute della
nostra Madonna della Salute!
Il Cancelliere
dell'eroico brindisi sarà meritamente promosso dalla quarta alla terza
categoria. Si potrebbe imitare il finale zoliano dell'emerita tenente casini,
che termina venerata in una pieve di provincia, invitando il pievano a pranzo,
e fornendogli piviali e baldacchini broccati e frangiati d'oro. Che magnifico
titolo per l'ultimo capitolo del romanzo: La nostra Augusta Signora di
Ripafratta. Ma oltre Ripafratta la Contessa divenuta vedova (di quanti?) e
principalmente del suo legittimo marito, potrebbe riscattare dal nuovo
acquisitore Israelita il Convento del Sant'Oblio. Essa eroina, principale
beneficiata della pubblica dimenticanza voluta o naturale essa lo restituirà
benefica e grata al pubblico benefattore canonico Puerperio, ossia Giunipero,
che rivalendosi dell'opera angelica di Suor Crocifissa rediviva fonderà un
nuovo sanatorio morale con annessa cura dell'uva.
Sul poggio più alto e
brullo sovrastante alla valle del Sant'Oblio Nerina farà fabbricare una villa
sontuosa munita di osservatorio astronomico e cappella eremitica. Un licenziato
ginnasiale, lattonzolo ammiratore dell'ottuagenaria bellezza di questa nuova
Ninon de Lenclos fornirà l'iscrizione:
Su questo
colle vergine di
cultura umana
la Canuta Contessa De
Ritz- Vispi
innalzò questa villa
nomandola del suo
nome Nerina
ma votandola al verde
della speranza
alla fiamma degli affetti
nell'azzurro dei
Cieli.
Il canonico
Puerperio, cioè Giunipero, aggiungerà: Pie viator SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ Tibi omnia candida eveniant: non senza mormorare
intimamente: Titulum publicae hilaritatis testem!
Un archeologo
arricchirà la nuova villa di un ricordo storico, facendola sorgere sui ruderi
di una supposta villa dell'imperatore Elvio Pertinace qui otio senectutis SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ recessum non procul a patria SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ parabat SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ Fortitudine et celsitudine.
Un romantico farà
graffire sopra un sasso un motto inglese da Lord Byron, che rintracciava nel
passaggio di Orlando innamorato la maggiore potenzialità di amore: All that
of love can be...
Una spelonca viscida
come una boula (stagno monferrino) imiterà la miracolosa grotta di
Lourdes.
Salendo alla villa
Nerina, l'ex- tota omonima, godrà ancora il reame del
paesaggio.
Sia quando, Dea
moderna, si serve dell'automobile tra una nube di polvere, che avanza più
celere e fragorosa dell'uragano, sia quando procede lemme lemme come una
divinità della mitologia rustica sulla barrozza tirata da buoi
inghirlandati, vettura cornuta, a lei inoltrata nel secolo XX parrà di assidersi
arbitra tra due secoli.
Alla prima domenica
di Maggio saliranno ogni anno innocenti fanciulle ad offrire uno spettacolo
ricreatore per la venerata squarquoia.
Presenteranno un ramo
di pino sempreverde carico di fronzoli e di fantocci. Dapprima le maggioline
confuse e pretendenti agitando l'albero fiorito di figure simboliche ed
additandole, canterelleranno con voci frettolose di raganelle scompagne a
cominciare dal ritornello:
O
ben, o ben, o magg
ch'a
tourna el meis d'magg!
Guardè
sì coull'oimo vestì d'rouss
La
sua menigheta
Lo
spetta al fond del pouss
O
ben, o ben ecc.
Guardè
sì coull'oimo vestì d'gris
La
sua menigheta
Lo
speta an Paradis
O
ben ecc.
Guardè
sì coull'oimo vestì d'bleu
La
sua menigheta
Lo
speta fin d'ancheu
O
ben ecc.
La squarquoia mediterà
che i suoi amanti furono più numerosi dei fantocci tricolori; e si allieterà,
sentendo dalle birichine (filosofia rudimentale) che l'amorosa è unica ed è
sospetta per ironiche interrogazioni sulla provenienza dei donativi ricevuti.
Guardè
sì la nostra sposa
Se a
l'a l'anel 'n t'el dì!...
Chi
l'avrà donailo?
Saralo
so marì?
O
ben ecc.
Guardè
sì la nostra sposa
Se a
l'a l'or al col!...
Chi
l'avrà donailo?
Sarà
so confor?
O
ben ecc.
Qui le voci delle
maggioline si faranno più serrate e petulanti nella richiesta zingaresca...
Vi
dico, voi, padrona
Padrona
del polè,
Donene
j'euvi freschi
E j
chueuss lasseje ste!
Vi
dico, voi, padrona
Padrona
del Castel,
De'
man la ciav del cofo
E
dene un bel bindel.
L'opima contessa farà
distribuire copiose strenne; ed allora le maggioline monfrinote inuzzolite come
gallinelle d'India, canteranno il finale vieppiù accelerato:
E
adess ch'a n'ei pagà
Pregouma
la Madona
C'av
mantena sanità:
Ma
se an dasija gnent
Pregavo
San Defendent
C'av
feissa caschè tucc i dent.
La venerabile matrona
si rallegrerà per la sicurezza dei suoi denti finti.
E quando la vetusta
centenaria, ancora venusta, cederà finalmente alla Natura Mortale, il canonico
Puerperio, cioè Giunipero, come se essa fosse vissuta sine jurgio con sì
numerosi amanti e mariti, le applicherà un altro verso epigrafico del Boucheron
strappato alle giuste inferie di un santo arcivescovo: in altissima
tranquillitate, pari veneratione decessit.
E la sua immagine
ringiovanita su pala d'altare ritornerà venerabile nel pubblico, come quella di
Cunizza dai multipli maritaggi ed amori imparadisata da Dante nel Cielo di
Venere, se il romanziere svolgerà l'ipotesi accarezzata dalle gentili lettrici
di appendice, che Nerina non sia perita per il colpo paterno.
* * *
Ma per quanto il
romanziere sia deferente alle specchiate e pietose lettrici, la verità
inesorabile è questa: Nerina morì sul colpo, deponendo speriamo, in grembo
all'Infinita Misericordia di Dio, col sacrifizio obbligato e volontario della
sua vita, l'ultimo dei suoi innumerevoli Capricci per pianoforte.
Il padre, che per la
sacra orribilità del suo delitto niuno pensò di arrestare, si costituì da se
stesso in carcere; e contro a lui venne iniziato e condotto a termine un facile
e breve processo.
Difensore fu l'avv.
prof. Gioiazza.
Presidente della
Corte d'Assisie il conte Carlo Dounon. Egli adunava con raro connubio la maestà
all'arguzia; si radicava sul seggiolone presidenziale come una montagna.
Il Pubblico Ministero
era rappresentato dal Sost. Proc. Gener. cav. Simplicio Semplicisti, il quale
rappresentava principalmente la scarsità dell'eloquenza nelle procure del Re,
dove l'eloquenza figura oramai come una fonte disseccata, tanto che per farvene
rifluire qualche rivo si reclutarono procuratori del Re anche fra i tribuni
degli scioperi di cocchieri.
Due giudici astanti,
autorizzati dalla consuetudine a dormire, a fabbricare oche di carta, o
sporcare di fanciulleschi disegni il banco, erano un nobile napolitano di
famiglia borbonica e già lui stesso magistrato borbonico, il barone Gennaro Lo
Iodice, e il marchese Chablery, uno schietto discendente della feudalità
subalpina, i cui campioni trattavano pregiando la spada e disdegnavano la
penna, fino a crocesignarsi illetterati perché nobili.
A farlo apposta quei
due giudici si erano trovati il giorno innanzi insieme nel Tribunale
Correzionale a giudicare una querela di ingiurie e diffamazione grave data da
un deputato a un giornalista, perché questi aveva messo in dubbio la sua coerenza
politica e la sua originalità letteraria.
Nel ruolo delle
Assisie il processo De Ritz era stato preceduto da un processo di duello
mortale, in cui un mascalzone spadaccino, veterano delle patrie bottiglie,
abusando della sua bravura nel tirare di spada, per far onta ad un suo
avversario, veterano sciancato delle patrie battaglie, gli aveva fatto rubare
da un servo infedele lettere compromettenti di una signora, e per ristoro nella
sua fierezza di cavalleria leggiera gli aveva accordata una partita d'armi, non
d'onore. Lo spadaccino bravaccio infilzando il sofferente sciancato, aveva
ammazzato un uomo morto quasi come fece Maramaldo col Ferruccio. Pertanto la
Giustizia Umana a forza di attenuanti e discriminanti trovò modo di saldare la
partita con un po' di onorato confine al birbante.
Il pubblico,
specialmente femminile, che aveva molto gustato il processo del duello, si
riprometteva una variante di emozioni squisite dal processo di parricidio, o
meglio figlicidio De Ritz. Poco mancò che la varietà dello spettacolo si
riducesse al cambiamento della difesa e della giuria nella quale ultima il
cambiamento era più di persone, che di classi sociali, predominando sempre i
geometri e maestri elementari cittadini e foresi! Benedetti i cittadini che non
erano costretti a dormire e a sfamarsi all'albergo per 4 lire al giorno! Il
resto dello spettacolo si minacciò di sottrarre al pubblico.
L'avv. Ilarione
Gioiazza, che nonostante il suo temperamento di Democritus ridens, si
sentiva investito da pudibonda malinconia, aveva fatto osservare al Pubblico
Ministero, che era il caso richiedesse il dibattimento a porte chiuse. L'avv.
fiscale Semplicisti ne fece la richiesta con uno sbadiglio. Ma i due giudici
della Corte, che avevano promesso a due curiosissime signore la pubblicità,
premettero sulla volontà del Presidente. Il quale si rivalse con una bottata: ¾ La
Corte, a maggioranza, non ha rilevato a priori gli estremi indicati dall'art.
268 del Cod. di Procedura Penale per il dibattimento segreto, attesa la natura
del reato. Ma per il luogo, in cui venne commesso, in processo di causa la
pubblicità potrebbe farsi pericolosa alla morale; onde fin d'ora prego le
signore oneste a voler uscire.
Nessuna si vide
lasciare la Tribuna del pubblico. Quindi il presidente: ¾ Ed ora che le signore oneste sono
uscite, principiamo il dibattimento.
Allo squillo del
campanello Presidenziale il comm. Vispi erigendosi tra due carabinieri nella
gabbia degli imputati di fronte ai giurati sentì un tremito al cuore coriaceo,
come se avesse sentita la campanella del Santissimo.
Rispondendo
all'interrogatorio del Presidente, declinate le generalità, egli ammise,
confessò di avere uccisa sua figlia precisamente nelle circostanze delineate
nell'atto accusatorio. Perciò riteneva inutile la sfilata dei testi di accusa.
Testimoni a difesa non ne aveva voluto nessuno. I giurati sul loro onore e
sulla loro coscienza lo condannassero pure. La Corte applicasse la pena
contemplata dalla legge. Niuna pena gli si potrebbe infliggere più atroce di
quelle che gli fece soffrire la figlia maledetta, a cui confida la Misericordia
Divina vorrà perdonare insieme a lui.
La montagna del
Presidente manifestò una scossa di terremoto, precursore di eruzione vulcanica.
Frenandosi, si rivolse ai giurati, e lesse loro la formola di giuramento: «Voi
giurate, consapevoli dell'importanza morale del giuramento, e del vincolo
religioso che i credenti con esso contraggono dinnanzi a Dio; di esaminare con
la più scrupolosa attenzione le accuse fatte al signor Comm. Vispi Atanasio; di
non tradire i diritti dell'accusato, né quelli della Società che lo accusa»
con quel che segue.
I giurati giurarono
ad uno ad uno.
Indi il presidente si
rivolse al Commendatore della gabbia: ¾ Voi,
accusato, nel rispondere al precedente interrogatorio avete dimostrato di
conoscere assai bene il tenore dell'accusa. Cionondimeno a tenore di legge vi
avverto di stare attento a ciò che sarete per udire.
Il Cancelliere, che a
tenore di legge dovrebbe leggere almeno con voce baritonale la
sentenza di rinvio dell'accusato davante la Corte e l'atto di accusa, eseguisce
la lettura con quell'accento imbrogliato di masticafave, che si direbbe
specialità di tali funzionarii.
Il presidente, dopo
la succinta spiegazione dell'atto di accusa impostagli dalla legge, dice
all'accusato le parole sacramentali: ¾ Ecco di
che siete accusato; ora sentirete le prove, che si hanno contro di Voi.
L'accusato con una
bocca di pesce fuori d'acqua, stringendo le mani in atto di devozione, e
mostrando una prostrazione totale da figura d'ex voto: ¾ Ripeto,
che non occorre l'esame dei testimoni.
L'avvocato difensore,
oramai adusato, catafratto all'arringa forense, risentì uno strano, virgineo
effetto della toga frusta sopra i suoi muscoli e i suoi nervi. Gli parve di
sentire filtrare, piovere su essi una pioggia di focosa vigoria.
E disse
vigorosamente: ¾ Evitiamo
per l'educazione pubblica, che il postribolo compaia nel tempio della
giustizia. Prova fondamentale si è sempre considerata la confessione del reo,
per ottenere la quale una volta si ricorreva persino all'orrore della tortura.
Ora lungi da simile orrore, abbiamo la confessione spontanea, la quale non
perde, anzi acquista valore per la sua spontaneità. È la difesa stessa, che
rinuncia ai testimoni; è la difesa stessa, che ne implora l'allontanamento
nella fiducia di poter dimostrare l'innocenza dell'imputato anche dalla sua
abbondante confessione di colpa.
Il rappresentante del
Pubblico Ministero con la sua faccia dura e scialba dichiarò che si rimetteva
alla saviezza della Corte.
I due giudici
astanti, assillati dal lubrico interesse di appagare la curiosità di dame
procaci, stimolarono il montagnoso presidente, affinché almeno non
pretermettesse la rassegna delle testimonianze, tanto che Accusa e Difesa
potessero pronunziarsi più maturamente sulle ripulse particolari, non mai
generali, essendo la escussione dei testimoni, sia pure nei minimi termini,
impreteribile per l'ordine dei dibattimenti prescritto dal Codice di Procedura
Penale.
Si sentiva lo
scalpitio delle cortigiane nel deposito dei testi. Alla chiamata e alla guida
dell'usciere, che per la circostanza assunse una cera di ironia pastorale nella
sua dignità d'ufficiale giudiziario, esse irruppero dal chiuso come torme ad
insolita festa.
Ma la loro comparsa
fu una diffalta: diffalta dei loro volti, delle loro forme, delle loro carni
alla luce solare. Splende come neve intatta il seno di una giovane mamma, che
allatti il bambino, nell'incombere della notte, splende come luce bianca fra le
dense tenebre. Splendono le gemmee, seriche, merlettate nudità delle Dee e
delle Ninfe nei balli di Corte; gonfiano procaci le pompose nudità delle
cortigiane nelle loro esposizioni notturne, parodie dei balli di gala, come il
vizio è fratello del lusso. Qui invece le carni lussuriose e venali sono quasi
tutte coperte. Anche le mani sono inguantate. Le faccie appaiono infunghite
dalla cipria, rose, bruciate dalla luce del gas. Il costume e lo scostume
sociale, che consentono il trionfo scoperto delle carni femminili nel lusso e
nel vizio, fanno fallimento nel tempio della Giustizia, fanno cecca sulle bilancie
di Temi.
Quasi se ne rallegra
il feroce arido rappresentante del Pubblico Ministero.
Egli propone di
trattenere soltanto la portinaia del Casino di Madama Dell, la quale ha visto
entrare ed uscire il comm. Atanasio Vispi, e la cassiera dell'Istituto, a cui
egli ha pagato le dieci lire, prezzo di truce infamia; e ciò per assodare
l'identità personale del reo confesso. Le altre testi ponno essere licenziate.
Così si delibera e si
eseguisce.
Le testi prostitute
escono rumorosamente, polverosamente, come una squadra di innocenti scolare.
Si procede
all'interrogatorio della portinaia Violante Del Gozzo: una vecchia precoce e
maligna dagli occhi scerpellini, una curva trotterellante a mendicare o
sgraffignare mancie, labbra putide imprecanti ai soldi invalidi della Grecia e
dell'Argentina e alle lire di stagno.
Segue
l'interrogatorio della nobile cassiera Gentilina Maramei, una rotondità badiale
da foca, da orsa baffuta, che riempie tutto il cancello del suo ufficio, e che
qui ha uopo di due sedie per allogare la sua testimonianza.
Ambedue le testi
riconoscono perfettamente l'accusato comm. Vispi nel reo de cuius re agitur,
di cui si tratta. Esaurite così le testimonianze, il Presidente dà la parola al
Pubblico Ministero.
E il sost. Proc.
Generale cav. Simplicio Semplicisti si alza duro, lanternuto. Le sue parole
sono poche e stentate, ma freccie avvelenate, come se la madre sua nel periodo
di gestazione si fosse imbevuta di farmaci velenosi.
Egli disse in
sostanza: ¾ Non
un'arringa, ma una liquidazione sociale, che segue semplicemente
l'autoliquidazione dell'accusato. Signori giurati, signori giudici del fatto,
avete sentito da lui la piena confessione del reato, che gli si imputa. Il
padre ha ucciso la figlia. Questa orrenda novella vi do. E per togliere ogni
scrupolo dubitoso, che egli per inverosimile pazzia avesse voluto condannare la
propria innocenza, avete sentito le testimonianze irrefutabili della sua
identità criminosa. Che altro può richiedere di più la popolare coscienza per
l'esercizio dei suoi attributi di giustizia? Niente altro. Alla logica del
senso retto può mai presentarsi qualche scusante? Nessuna. Non mancheranno però
le parole alla addestrata, e certo, in questo caso, passionale eloquenza
dell'onor. difensore. Egli non mancherà di tirare a mano l'antica forza
irresistibile e la moderna infermità di mente, o la provocazione a
delinquere. Fandonie! Che provocazione d'Egitto! Se la defunta si fosse vista
fare atti osceni davanti la magione paterna, si comprenderebbe la discesa del
padre all'efferato castigo. Ma essa per il mercimonio del vizio si era
costituita in appropriata sede, in recesso legale. Fu il padre, che si mosse
senza invito fuorché del proprio pensiero criminoso, da casa sua, si diresse di
reo proposito ed entrò nel casino, donde devono rifuggire specialmente gli
onesti vegliardi, cui stiano a cuore i casti pensieri della tomba. Il padre
consumò risolutamente il parricidio; dico parricidio, perché la legge punitrice
avvolge nello stesso sacro orrore i figli, che uccidano i genitori, e i
genitori, che ammazzino la prole. Ma l'applicazione della pena è riservata alla
Sentenza della Corte. Voi, giudici del fatto, dovete segnare soltanto la piena
colpevolezza dell'accusato.
Non lasciatevi
smuovere dalla lustra, che l'uccisore abbia compito un atto di giustizia
paterna. Sarebbe un sommuovere del tutto le basi della Società, la quale ha
ragione di leggi ed ufficii soprattutto per togliere l'esercizio della
giustizia dall'arbitrio e dalla passione individuale, ed affidarlo a giudici
imparziali popolari o togati.
Gli è solo, perché in
Italia si perde facilmente questo direttivo punto di vista, gli è solo perciò
che gli italiani tengono l'ignominioso primato dei delitti di sangue, sia
nell'interno, sia all'estero. Farsi ragione da sé è la ragione del suddetto
primato poco giobertiano. Confrontate le statistiche del nostro Ministero e
quelle di Nuova York; e dovrete convenire che gli italiani indigeni od emigrati
sono quotati nella delinquenza sanguinaria più in alto che le altre
nazionalità. Per guadagnare nella stima del mondo, gli italiani devono fissarsi
in mente: ¾
L'omicidio non può essere giustificato, che dalla necessità della difesa. Lo
stesso boja, di reverenda memoria (nel pronunziarne il nome l'oratore della
Legge si sberrettò come Carlo V davanti alle forche), lo stesso boja poteva
considerarsi un difensore necessario della società. Fuori della necessaria
difesa, in ogni altro caso l'omicidio è una mostruosità. Alla mia immeritata
riputazione di ferocia consentirete questa nota umana: il primo segno della
civiltà di un popolo è il rispetto della vita altrui. Nessun uomo ha diritto
sulla vita di una creatura umana. L'onore proprio e quello della propria
famiglia non si tutelano con l'assassinio.
Atanasio Vispi è
indubbiamente assassino, perché ha voluto uccidere ed uccise una donna, la
parte più tenera dell'umanità, ha ucciso la propria figlia, ha sparso il sangue
del proprio sangue.
Più di Caino, sia
maledetto da Dio!
Voi delegati della
Società Umana, voi estratti dal popolo, la cui voce si paragona alla voce di
Dio, Voi colpitelo l'assassino con il vostro verdetto di piena inescusabile
colpabilità. Il vostro sì unanime lo colpisca come una freccia
sibilante. Così dal Tempio della Giustizia ritornerete alle vostre tranquille
ed oneste dimore con la coscienza onorata di avere piamente sacrificato alla
vindice reintegrazione della Patria Legge e della Società Umana».
Sedendosi il
rappresentante del Pubblico Ministero, parve lasciare con le sue parole
l'atmosfera nera, come nell'aula si fossero schizzati vapori di seppia con
puzza asfissiante di carbone cock appena acceso.
L'accusato lo
applaudì.
Il Presidente concede
facoltà di parlare all'egregio difensore.
L'avvocato Gioiazza si
alza, si tira sulle spalle la toga di refrigerio ricostituente; si sente ardere
la testa confusa; si passa una mano sulla fronte; ricaccia indietro l'immagine
di Capri, la memoria del suo peccato con la Contessa; ricaccia indietro il
rimorso e la dolcezza riconoscente di se stesso; ricaccia indietro la sua
personalità buffa e peccatrice, per assumere la serietà di un ufficio santo. Ed
esordisce ex abrupto: ¾ Ed io
accuso Voi, o accusatore, che vorreste fare della Giustizia lo sfogo di un odio
legale. Accuso Voi, rappresentante legale della Società. Imperocché
dell'uccisione di Nerina De Ritz- Vispi non fu colpevole il
padre sacrificatore, non fu colpevole la vittima sacrificata, ma fu colpevole
la Società che Voi rappresentate.
La dimostrazione
dell'asserto noi riportiamo sviluppata autenticamente dal compendio pubblicato
in appendice giudiziaria dall'abile pubblicista Curzio Bertone. Questi
però non poté accordarvi il consueto epigramma del Baratta, morto allora
all'Ospedale Mauriziano per la quercia degli abbattuti viali pubblici cadutagli
addosso, morto cantando:
Qual
tardo premio del mio lungo canto
Un
ramoscel d'allor sperai soltanto,
Ma
la città che il toro ha per bandiera
M'incoronò
con una quercia intera.
Ecco con la scorta
sincrona dell'appendicista giudiziario l'arringa dell'avv. Gioiazza: «La
Società è colpevole di produrre e ridurre due esseri antagonisti, di cui l'uno
richiede inesorabilmente la propria soppressione dall'altro. Con la pretesa scienza,
con gli esempi non meno autorevoli, che deleterii, la Società presente sottrae
all'umanità il sentimento religioso, il migliore vincolo, che legava gli esseri
verso un ideale sublime di amore e virtù. Vi sono giuristi che ammettono il
misticismo tutto al più, come coefficiente, circostanza attenuante, se non
discriminante del reato. Un cattivo Clero meccanizzato nella tradizione
intransigente di altri tempi, beffeggiando i più puri ideali moderni,
incrudelendo contra i morti benemeriti e specialmente contra i martiri della
Patria e della libertà, un cattivo Clero, per adoperare una frase di Gladstone,
è divenuto negazione di Dio. Unica maestra, unica dispensiera di religione
nella Società moderna è la madre, la divinità, che non conta atei. Se a Nerina
fanciulla fosse rimasta la bella mammina, ad insegnarle il Vi adoro con
le manine giunte, oh molto diversa e migliore sarebbe stata la sua trajettoria
sociale!
Invece sappiamo che
la sua splendida mammina si spense nel darla alla luce. Sappiamo pure che la
Maestra Genovieffa Garitti, prima di diventare signora Vispi, era un luminare
nel corpo insegnante di Torino, e che ad essa l'accusato consacrò gli unici
entusiasmi della sua giovinezza dedita per il resto al lavoro ed al commercio.
Pertanto Nerina fu la risultante di una bellezza magistrale e di un entusiasmo
sagace, nacque e crebbe con le maggiori potenze fisiologiche e psicologiche per
esercitare una tirannia capricciosa.
Quella fanciulla fu
una tiranna domestica per eccellenza. La relativa compressione subita nel buon
Educandato del Soccorso valse soltanto a temprarne e tenderne le forze per gli
scatti maggiori. Ritornata in casa del babbo, fece di questo robusto gigante un
debole pigmeo; e come aveva reso il babbo schiavo dei suoi capricci, così volle
esercitare assolutamente il dominio capriccioso nei varii ambienti sociali fino
all'abisso. La Società italiana, dopo le prime vittorie del Risorgimento dovuto
in massima parte ai sacrifizii, si era fatta presto materialista gaudente,
perdendo la spiritualità religiosa nei dissidii tra Chiesa e Stato. Perciò il
tipo dell'eroina patriottica non era più assorbente.
Non era ancora di
moda fra di noi la dottoressa anglosassone di frigidità e operosità neutra, da
terzo sesso di ape operaia. Tanto più lontano era il tipo ginnastico della
spartana americanizzata, Fluffy Ruffles, la girl che impera
graziosa ed onesta anche nello sport denudato della flirtation. Oh
almeno fosse stata viva per lei la galanteria sovrana dei madrigali! Essa
avrebbe costretto un poeta Voiture ad inneggiare alle sue calze, avrebbe
eccitato un altro poeta ad immaginare che due rosignoli morissero di fascino
per il canto, con cui essa accompagnava i suoi capricci per pianoforte.
Sarebbe stata
circuita in vita e cantata in morte da qualche vescovo di Arcadia. Al pari
delle religiose di Port Royal sarebbe venuta su orgogliosa come un demone, ma
pura come un angelo. Avrebbe serbato immacolate le nevi rosee del volto,
fintanto che si fossero fuse tra le rughe di una vecchiaia intemerata.
Ma i tempi non
consentivano tale nobiltà e purità di forza e gentilezza.
Nella preparazione
del nuovo asilo di Romolo, nella nuova conquista di Roma, si affrettarono
insieme con gli eroi ideali, non solo i ladri positivi, ma le Messaline
lucratrici senza Lucrezia, ed i Cornelii senza virtuose Cornelie madri dei
Gracchi.»
Con la frequenza dei
richiami letterarii l'avv. Gioiazza dimostrava di essersi addottorato in
lettere prima che in leggi.
Egli seguitava
divertendo e stupefacendo letterariamente la Corte, i Giurati, il pubblico,
l'ufficiale giudiziario e i carabinieri, e lasciando assorto, impassibile
l'accusato, che gremiva sogni, meditazioni e preghiere fatali sotto le ciglia
chiuse.
«Si potrebbe in
qualche parte applicare alla De Ritz ciò che Swimburne applica alla regina
Rosmunda, Clitennestra del Medio Evo, ricordante le imperatrici Romane, le
quali un dì resero regale la colpa: imperatrice ognuna e ognuna per diritto di
peccato prostituta.
Ma come l'Italia a
Roma per il dissidio religioso non poté trovare il suo perno morale, così la
contessa Nerina diede al suo imperialismo erotico la circolazione viatoria,
randagia.
Essa ebbe gli
attributi della Cavalleria errante di un Don Giovanni in gonnella, e di una
signora Casanova di Seingalt. Essa volle divenire la superdonna, la regina
zingara delle libertine. Come Don Giovanni giocava le donne alle carte, essa
giocò gli amanti. Come Don Giovanni si provò a compilare un catalogo delle
donne da lui sedotte e dei mariti da lui ingannati e riempitone un volumaccio in
folio, lo riscontrò incompleto, così, quando ella avesse divisato noverare
i suoi capricci amorosi e tessere l'elenco biografico dei suoi amanti per
ordine alfabetico, avrebbe dovuto superare le forze spiegate dall'inclito e
chiaro prof. Conte Angelo Degubernatis nei suoi copiosi dizionarii biografici
del mondo letterario, artistico, scientifico e politico contemporaneo.
Conscia della sua
potentissima bellezza, una vera beltà di sogno, pire que belle (alla
memoria tragicamente gioconda dell'oratore ritornavano forzosamente le dolcezze
di Capri), essa deve avere persino sognato di obbligare il Papa ad ammogliarsi
con lei.
Ed era pur troppo una
bellezza metuenda da tutti. Sul suo blasone poteva scrivere: Cave amantem,
guardati se essa ti ama. Poteva paragonarsi alla Venere d'Ille, che amava
consumare intera la sua preda.E ppure sì dolce risultava il prodigio della sua
bellezza consumata e consumatrice, che penso possa applicarsi a lei l'ardita
immagine del poeta Henri de Régnier, secondo cui Elena traghettante l'Acheronte
è attesa sull'altra sponda da quanti morirono per lei. Invece di maledirla, con
la bocca fioca la acclamano sempre bella.»
L'oratore si fermò
quasi sudato di quella referenza poetica. Dopo breve pausa proseguì:
«Ripigliamo freddamente,
dolorosamente il filo del discorso.
Io incolpo del vizio
viaggiante, raggiante di Nerina il riflesso centrale di Roma peccatrice. Se
Nerina attraversò la vita e il mondo, gettando fuoco di amore distruttivo nelle
anime, figurando l'estasi devastatrice senza posa, l'aquila carnivora senza
rimessione, essa corrisponde al focolare, capitale mondiale di cupidigie, della
Roma liberata, ma rimasta con le corruttele di due immense civiltà, onde ebbe
per degno organo la Cronaca bizantina del Sommaruga, né tutta la sua
barbarie corrotta passò sotto le forche Caudine dello sbarbaro in parte
tarlate dall'odioso errore.
Come la Corte
effeminata di Napoleone III preparò la debacle di Sedan, Dio voglia che
l'orgia sensuale della Roma nuova e rinvecchignita non prepari all'Italia un
nuovo rovescio nazionale. Eccone intanto un pernicioso singolare effetto in un
rovescio individuale di anime, in un rovescio di vite.
Nerina fu l'esponente
di un momento politico sociale. Senza risparmiarle l'abbominazione, che si meritò,
essa è preferibilmente maravigliosa per avere spinta la logica del vizio alle
ultime conseguenze. Oso dire che nella pubblica esecrazione essa è preferibile
alle illustri fellatrici da locanda e da camera mobiliata, che avvelenano coi
sospetti e con le calunnie ogni figura, ogni nome di fanciulla cresciuta pura
nel santuario domestico, per impedire ai drudi, agli amanti di maritarsi, e con
queste fellonie rimangono alte dame e nei loro alti palazzi si chiamano dame
d'onore...»
Nuova pausa sudata,
dopo la quale l'oratore riprese il filo con un visibile strappo.
«Lessi in un recente
storico che il carattere di Maria Antonietta veniva così giudicato dalla Madre
Maria Teresa: molta leggerezza, molta dissipazione e una grande ostinazione a
fare di sua volontà con una grande abilità ad eludere ogni rimostranza. Ciò
valse a condurla al patibolo.
Lo stesso intervenne
relativamente per Nerina.
Rimane a spiegare,
come giustiziero abbia dovuto essere socialmente suo padre.
Emergeva la più
assoluta incompatibilità, che coesistessero nel mondo vivente il comm. Atanasio
Vispi, e la sua nobile figlia prostituta.
Se la Società
presente autorizza la prostituzione pubblica d'altra parte essa lasciò intatti
tesori di moralità privata.
Il comm. Vispi
rappresenta cento generazioni di quel medio ceto, in cui la donna è santa, o
per lo meno onesta. Vi sono famiglie popolane borghesi, in cui i padri
ruberanno, i figli ruberanno, i fratelli ruberanno, trufferanno il prossimo o
si minchioneranno magari tra loro stessi con la scaltrezza della fortuna
commerciale, o per l'esercizio della proprietà immobiliare. Ma la donna vi
permane castamente onesta.
Ove in tale famiglia
si produca il fenomeno di una donna, che ha per unico programma la Vita
Sexualis, senza ritegno di capricci, e può intitolarsi Vita
sexualis, come il periodico tedesco di ginecologia, Zeitschrift zur
Erforschung der Geschlechtslebens, ciò riesce un fenomeno così
mostruoso che domanda di esser fatto scomparire dal circolo della vita più
presto di un bambino nato con una testa d'asino e una coda di serpente.
La moralità delle
fiabe si accorda con la moralità delle esistenze.
Eccellenze della
Corte, egregi signori giurati, mi direte che della pronta soppressione di
siffatto fenomeno si doveva lasciare il carico all'Autorità Sociale. Ma il
guaio si è che la prelodata autorità non se ne incarica punto di tale
soppressione, anzi favorisce il fenomeno.
Mi duole ripetermi
dopo le lezioni universitarie pubblicate. Ma non occorre una lunga ripetizione.
Voi, uomini, sapete l'esistenza legale delle così dette case di tolleranza,
ma che in realtà sono case privilegiate, licenziate al sequestro delle persone,
con i pubblici ufficiali costretti alla vergognosa connivenza.
Proteggendo con il
braccio regio i ginecei delle Veneri staggite e prezzolate per il servizio
automatico della libidine maschile, l'autorità sociale ha irremissibilmente
sanzionato in codeste schiave del piacere la inferiorità giuridica e morale del
sesso femminile.
È un marchio di
bassezza indelebile. Da quell'onta non si può estrarre persona viva. Nessun Buon
Pastore (uomo o ritiro) può rimettere in sesto una capricciosa Nerina
sviata fino a quell'ultimo bassofondo.
I medici risancioni
sogliono dire delle malattie sifilitiche: che solo dalla prima volta non si
guarisce più. Così una sifilide costituzionale irremediabile si attacca anche
dal lato morale, e più non si distacca dal primo approdo all'ultima Tule della
infamia femminile.
Immaginate che il
padre fosse riuscito a strappare la figlia fisicamente viva dal postribolo: ma
i cent'occhi, i mille occhi velenosi dell'Argo Sociale glie l'avrebbero
moralmente liquidata al suo fianco, dovunque l'avesse condotta, in città o in
campagna, sui monti o nei piani, sui laghi o sull'oceano. La Società glie l'aveva
ridotta moralmente perinde ac cadaver. Toccava a lui liberare veramente
dai ceppi mondani la disgraziata figlia già condannata irrevocabilmente a morte
civile. Potrete Voi condannare lui per ciò? Non lo potete. Quattro volte no.
Imperocché il Comm. Atanasio Vispi fu un sacrificatore, non un delinquente, un
sacrificatore giustificato da chiari esempi della Storia Sacra e della Storia
Profana, giustificato da ampie e strette norme del diritto antico e del diritto
attuale.
Alla vostra cultura
generale non farò torto allungandomi sui sacrifizii di Isacco, di Yefte, di
Ifigenia ecc., V. nell'Enciclopedia la rubrica Sacrifizii.
Quando si volle
risparmiare umano sangue, sostituendo una fanciulla con una cerva, l'umano
sangue ricadde più copioso da altre parti. L'innocenza pagò spesso la salvezza
della colpa.
Se un padre poté
condannare mortalmente il figlio per supina ubbidienza ad un crudele oracolo,
per l'immagine sovrana della Patria, o per la semplice umile trasgressione di
un articolo secondario del Regolamento Militare, a fortiori un padre
potrà sacrificare una figlia per una solenne riparazione morale. Il nostro
antico diritto, il diritto romano investiva di tale sacerdozio il padre di
famiglia. I figli erano chiamati liberi, ma viceversa il padre aveva realmente
su essi il diritto di vita e di morte, ius vitae et necis. E la patria
potestà spettava al padre di famiglia durante tutta la sua vita.
Sapevamolo, che le
tavole e le sanzioni del Diritto Romano più non figurano tra le vaglianti
leggi. Ma esse permangono tuttavia ampiamente nell'atmosfera giuridica che
abbiamo ereditato.
Lasciamo pure
quest'immanenza di ampiezza respirabile da parte, anche riducendoci nei vicoli
dello strictum ius, io posso, o signori giurati, provarvi, che un Codice
positivo preciso flagrante vi autorizza a prosciogliere l'accusato.
Non potendosi tutte
le norme di giustizia scrivere e tanto meno immobilizzare nelle leggi, il
diritto costituzionale diede ai poteri legislativi la facoltà perpetua di condere,
fabbricare e riformare leggi, tanto che del Parlamento Inglese si disse essere
capace di tutto, fuorché di mutare un uomo in una donna.
Di riscontro
nell'applicazione delle leggi penali, la Giustizia umana, ben sapendo, che non
poteva fossilizzare norme imperscrittibili per la generalità dei casi, ha colla
creazione della giuria fatto appello caso per caso alla sovrana cognizione del
sentimento popolare. Secondo la loro sacrosanta istituzione, i giurati non sono
periti giudiziarii, non sono verificatori metrici dei fatti. Perciò non si
richiede loro una speciale competenza. Anzi se ne affida la scelta
all'estrazione della sorte da qualsiasi parte del gran cuore dell'Umanità, sede
di quel sentimento popolare, che unito al buon senso dell'intelligenza
primitiva sa scorgere lume anche nelle profondità del vero imperscrutabili
dalle scienze più esatte.
Eccellenze della
Corte! Egregi signori giurati! Lungi da me la pretesa di una rivoluzione
catastrofica della giustizia. E voi, ferreo oratore della legge, di grazia non
paragonatemi ad un farmacopola da estancia argentina, con una pancetta
da calabrone pinzo di veleno, che sbottona la sua maldicenza contra le leggi,
reputandole fatte per i minchioni, emulo di un nostro tiranno parlamentare,
indegno del mandato legislativo, quando paragona le leggi a vergini, che per
essere feconde devono essere violate. Lungi da me il paragone con il nostro
tiranno parlamentare e col farmacopola da estancia argentina, i quali,
se un benefattore dell'Umanità, socratico, catoniano, osservante inculcatore
delle leggi, venga lodato da una gazzetta di provincia, crepano di invidia e
gli minacciano un irrisorio monumento di neve...
Io vi richiamo alla
pretta applicazione dell'art. 495 del Codice vigente di Procedura Penale. Esso
prescrive: La questione sul fatto principale è posta colla formola seguente:
l'imputato N.N. è egli colpevole di avere (si indicheranno il fatto o i fatti,
che formano il soggetto dell'accusa...) Dunque Voi, giurati, sarete
chiamati a rispondere, non se l'accusato ha compiuto un fatto incontrovertibile,
ma se egli è colpevole di averlo compiuto. E che il Codice esiga
precisamente da voi sul soggetto e sull'oggetto dell'accusa non una
constatazione materiale, ma un giudizio morale di colpa o di innocenza lo
chiarisce lo stesso articolo, riservando la convinzione mera sull'accaduto
soltanto ai fatti che escludono l'imputabilità.»
Il rappresentante del
Pubblico Ministero con un'obliqua occhiataccia mostrò che l'interpretazione del
Codice doveva essere diametralmente opposta.
Però il difensore
proseguì imperturbato:
«La legge, secondo
l'art. 498 del Codice precitato, propone ai signori giurati questa
sola domanda, che rinchiude tutta la misura dei loro doveri: avete voi l'intima
convinzione della reità od innocenza dell'accusato? Tale istruzione, stampata
in grandi caratteri ed in altrettanti esemplari, quanti voi siete,
voi troverete distesa sulla tavola, intorno a cui siederete nella
camera delle deliberazioni, parole del Codice, di cui Vi richiamo la
sacra osservanza. Con ciò Voi, signori giurati, siete i veri padroni della pena
e della perdonanza. A meglio precisare questa padronanza vostra, vi è un
movimento forense, scientifico, legislativo in Francia, nella Svizzera, in
Italia. Vi potrei citare le proposte dei deputati del Corpo legislativo di Francia
onorevoli Lagesse, Bounet, Corentin- Guyho, gli atti e i
voti della benemerita Societé Genéral des Prisons, la profonda memoria
del Gautier professore dell'Università di Ginevra e membro di quel Tribunale
Supremo, e i bei nomi italiani di Enrico Pessina, Luigi Lucchini ed Alessandro
Stoppato, tutti per assicurare a Voi, signori giurati, l'esercizio della vostra
funzione sociale nel senso più largo e pieno, non isolando mai dalla mente la
coscienza...
Ma già vedo, già
sento un baleno di luce celeste, che vi illumina le menti, e vi commuove i
cuori.
Nerina stessa vi
prega confessando del padre sacrificatore:
.....…………
A morir m'invita
Dolce
desio di rinnovar la vita.
Ricordate, che la
violenza individuale è un diritto dove la ragione sociale non arriva.
Il no tonante del
vostro verdetto seguìto da sentenza assolutoria sarà alla società presente ed
avvenire un documento, sarà un monumento di moralità popolare».
Il rappresentante del
Pubblico Ministero nella sua crudeltà professionale rifletté, che il
commendatore Vispi sarebbe maggiormente punito, se fosse rilasciato libero
all'offesa che non gli mancherebbe della licenza sociale, che non se fosse
ritenuto in carcere difeso, protetto, incolume dall'oltraggio della vita
pubblica; e rinunziò alla replica.
Il presidente stabilì
definitivamente la questione sulla colpevolezza dell'accusato, e vinto in
principio un visibile imbarazzo, procedè risolutamente al breve riassunto di
rito: «Avete udito (si riassume il riassunto). Non vi è controversia sul fatto
incontrovertibile, orribile. Vi è dissenso sul suo giudizio sociale (non dico
morale, perché ogni coscienza inorridisce al fatto d'un padre che uccida la
figlia). Il pubblico ministero vi invita a segnare tale padre col marchio della
colpa, senza scuse, perché niuno può farsi ragione da sé contro la legge, e
tanto meno dopo che si è abolita la pena di morte nella giustizia legale, si
può approvarne l'applicazione fattane arbitrariamente da un padre sopra la figlia.
Invece il difensore vi ha lumeggiato tutti gli stadii infernali d'infamia, per
cui è discesa la figlia fino alla profondissima voragine sociale, da cui il
padre non poteva più onestamente riscattarla, fuorché sulle braccia della
Morte. Voi pertanto, o signori giurati, siete chiamati a profferire sopra un
misfatto individuale un giudizio importante all'umanità per riconoscersi sul
cammino percorso dalla società civile. Vi auguro, che il vostro umano giudizio
non erri, e la vostra dirittura sia conforme ai disegni divini per il
miglioramento del consorzio umano».
Ciò detto, il
Presidente fa ritirare l'accusato dalla sala di udienza, legge ai giurati la
dichiarazione prescritta dal Codice di P.P.; quindi li spedisce alla loro
Camera di riflessione e deliberazione.
Essi ne ritornano
tosto con il verdetto a maggioranza negativo di colpevolezza; onde la Corte,
richiamato l'accusato, pronunzia la sentenza di assolutoria.
Infine il presidente,
mostrandosi più montagnoso della sua montagna corporea, così lo accomiata:
¾
Commendatore Vispi, Ella è libero per la giustizia del Popolo. Dalla libertà
materiale non avrà molta gioia. Avrà certo conforto dalla religione spirituale
purificatrice. Come magistrato Le do congedo. Come padre di famiglia Le auguro
salute eterna.
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