L'avv. Gioiazza
ricevette per la vittoria della sua difesa imprecazioni, che parevano saette
postali, ed applausi epistolari, che parevano baci frenetici. Per farne più
compiuto il trionfo, pervennero altri consigli al romanziere dalle lettrici
avide delle sue puntate nello Specchio della Vita.
Singolarissimo
quest'invito di una sedicente ammiratrice, inesauribile di ottimismo, e
trionfante anch'essa per l'assoluzione di Papà Vispi: «Romanziere, romanziere
del mio cuore, Vi supplico con il cuore in mano di fare rivivere
miracolosamente Nerina. Il mezzo, che Vi suggerisco, sarebbe molto semplice:
potreste narrare, che nel feretro attribuito a Nerina si misero sassi, affinché
essa potesse con altro nome, con altra veste, con altra personalità emigrare in
America, dove la raggiungerebbe il padre ed anche il marito, già divenuto
pazzamente irreperibile per lei, ed ora ritrovato, rinsavito pronto e maturo ad
una Vita Nuova nel nuovo mondo, che ha la potenza di rinverginare anche
le foreste. Fate così, scrivete, come Vi dico. E oltre il permesso di riportare
questa mia letterina Vi consento anche una conclusione di severità morale, ma
di felicità pari, che farà vendere molte copie del vostro racconto, quando sarà
raccolto in volume, perché il buon pubblico, che legge, ha mestieri di essere
felicitato da un lieto fine. Peccando di presunzione fino all'eccesso, ardisco
di suggerirvene io stessa i termini in istile quasi manzoniano: 'Sì! i miei
personaggi sono tutti vivi; se ne rallegri la scrittrice del pistolotto
soprariferito. Ma quale filatessa di guai scaturì dai capricci di Nerina!
Pazzie, coltellate, pistolettate che potevano riuscire micidiali, processi,
galere, che possono essere a vita anche libera, miserie innumerevoli ed
innominabili. E non sempre i pazzi rinsaviscono, i giurati assolvono, le
pistole fanno cecca e i coltelli risparmiano l'umanità, trincerandosi a
trinciare i polli. Se lo leghino al dito le otto damigelle e le quattro spose,
che leggeranno questo mio libricciattolo.'»
L'autore, non perché
poco lusingato di sentir chiamare libricciattolo una sua opera quasi
semisecolare, ma per omaggio alla verità deve ricusare anche questa versione
ottimista, e conchiudere ancora una volta con il pessimismo del verismo, senza
neppure aver paura dei finali in ismo.
La realtà mantenuta
della morte di Nerina non tardò a produrre altre conseguenze mortali.
L'avvocato Gioiazza
nell'accompagnare in vettura chiusa il prosciolto comm. Vispi alla costui casa,
si dolse di non avere una casa propria per ospitarlo. Ostinato celibe, egli si
era stancato di una successione di cuoche e domestici. Le giovani lo inducevano
in tentazione, lo tradivano ignominiosamente e facevano mormorare e ridere il
vicinato alle sue spalle. Le vecchie gli facevano schifo. Anche una settantenne
puzzona, tra la mummia e la megera osò tentarlo, tanto che una notte dovette
dormire barricato nella sua stanza. Un domestico, che egli aveva tolto a
sfamare da un tabaccaio, gli lasciò una camicia sola, rubandogli eziandio
lettere compromettenti di un'alta signora per venderle a un bardo della
democrazia, che però glie le restituì cavallerescamente.
Per tutte queste
peripezie egli spiantò la casa, eccetto lo studio, di cui affidava la pulizia e
la custodia al portinaio, e depositati gli altri mobili in un magazzino, per
riservarsi la libertà di un nuovo installamento avvenire, intanto si decise a
pigliare i suoi pasti e cucciare all'Albergo dei tre limoni, del cui
proprietario era stato felice patrono, in una causa di truffa; onde prima
d'ogni refezione poteva dire con ameno sussiego al grato cliente: ¾ Cosa
a l'as preparà d'bon ancheui per Sour avocat? Tratlo bin, sasto, sor avocat.
Desnò at fa pentete an person.
Così all'avvocato
prof. Ilarione Gioiazza pareva di mantenere indipendente la sua filosofia della
felicità sgombra e del sorriso tollerante vivendo sulla frasca di
un'osteria. Essendo sano, egli provava la dolcezza libera dei «senza famiglia»:
non la diarrea, la stitichezza, i vermi o il moccio di un marmocchio, non il
male dei denti o il puerperio di una moglie, non l'emicrania o la bigotteria di
una sorella, non la faccia torva di un fratello perdente al gioco, od
altrimenti carico di debiti, che pur col mal occhio raffredda la minestra e il
caffè e toglie il sapore ai più saporiti manicaretti. Invece un cinematografo
svariato alla table d'hôte, che lo incuriosisce, gli solletica lo
spirito, gli nutrisce l'umorismo senza commuoverlo mai seriamente o seccarlo.
Trova eziandio l'affetto professionale di un cameriere eccellente, come il
Fasano del De Amicis, il sorriso protettore della graziosa padrona, che allarga
alla clientela il circuito della famiglia, e la protezione lusingatrice e
sommessa del proprietario, che gli solleva la stima di se stesso sugli altri
avventori.
Intanto col suo
egoismo soddisfatto l'avv. Gioiazza non poté offrire al comm. Vispi
l'ospitalità in un albergo, che l'avrebbe maggiormente esposto alla vendetta
della pubblica curiosità. Né il comm. Vispi l'avrebbe punto accettata.
Il padre figlicida
sentiva il massimo bisogno di solitudine. Appena raccoltosi in casa propria,
egli pregò che si allontanassero dalla sua stanza le persone di servizio che
gli si mostravano sollecite ed attonite. Erano Carolina, la fante, che era
stata complice e ruffiana della giovinezza capricciosa di Tota Nerina, e Mario,
lo stalliere factotum che avrebbe anche fatto il boia di compagnia al
padrone, se questi fosse divenuto schiah di Persia.
Rimasero ad
orecchiare, mentre il commendatore serrava a chiave l'uscio della sua stanza.
Poi lo sentirono passeggiare, muovere sedie, forse salirvi sopra, poi
inginocchiarsi, e pregare e piangere...
Difatti, prima di
commettere l'orrendo reato, che lo costituiva in carcere, egli aveva velato di
garza bianca i ritratti della sua Nerina nubile, e di garza nera i ritratti di
Nerina maritata.
Ora egli ridona alla
luce dei candelabri le sembianze di sua figlia come redenta dal mortale castigo
del sacrificio paterno; e paragona quelle sembianze quasi lucenti, acute di
bellezza capricciosa e peccaminosa al profilo leggiadro e severo, alle linee
maestose e impeccabili della madre... Si inginocchia a domandare perdono ad entrambe...
Sì egli pure, senza volerlo, ha peccato tremendamente per la svisceratezza
paterna. Mortagli la consorte divina, egli avrebbe falsato moneta, per
conservare e crescere nella bambagia quel tesoro, quella reliquia vivente di
bambina... Per procurarle un cospicuo patrimonio, la sua anima commerciale era
sempre pronta a rispondere felicemente al gioco di società: È arrivato un
bastimento carico di...
Quante volate
aquiline al porto di Genova per ghermirne carichi superbi di zuccaro, spezie ed
altri generi coloniali, che gli fruttarono il milione, e la dote
principesca a Nerina!... Credendo far bene egli ha fatto molto male,
allevandola a pasticcini, anziché a croste di pane, rendendosi zimbello di lei,
anziché correggerla nell'educarla... Ora quel che è fatto, è fatto, e non gli
resta più altro in questa vita che l'espiazione... Apre lo stipo e rifà il
testamento...
Quindi si rimette in
ginocchioni a pregare. La stanza era linda, asciutta e illuminata. Cionondimeno
egli si sente come un camminante perseguitato dal diluvio, smarrito nel buio
tra pozzanghere profonde, nebbia folta e penetrante, e moscerini di neve,
raggiunto, flagellato e sommerso da un'ondata plumbea di maremoto. Unico
rifugio, unico scampo la morte. Egli sa, egli sente, egli crede nella sua anima
di cristiano che non è lecito, e sarebbe perdizione eterna darsi da sé la
morte. Ma la Misericordia di Dio, che è dispensiera di Vita, è pure prodiga di
morte. Dunque si preghi la buona Morte... E il Commendatore Vispi pregò
indefesso fino all'alba.
Appena le strade
furono rischiarate dalla luce del mattino, egli soletto si condusse alla Chiesa
della Consolata, prima che se ne aprissero i battenti. Dando uno scudo al
sacrestano, mentre la Chiesa era tuttavia vuota, egli ottenne di inginocchiarsi
sulla predella dell'altare maggiore. Egli sospira, implora una morte biblica,
quietamente e solennemente drammatica. La invoca, la impetra dal Signore, come
il vecchio Simeone davanti all'altare. La Madonna Consolatrice gli sia soperna
avvocata. E lo suffraghino lì dapresso le Sante Regine scolpite dal Vela.
Nunc dimitte
servum tuum, Domine... Nunc dimitte me, Domine, supplica indefesso il nuovo vecchio
Simeone, non per la appagante venuta dell'aspettato Messia, ma per l'indegnità
di vivere sulla Terra...
Nella vita terrena
egli più che la faccia del prossimo, egli teme lo specchio della propria
coscienza... A chius'occhi la sua psiche si sdoppia... Egli vede passare con la
sua immagine deturpata dal rimorso un padre figlicida... Aborrisce da quello
spettacolo, ne inorridisce, con una scossa, che riesce a dominare ricurvandosi
nella più profonda preghiera... Miracolo!... Miracolo!... Egli si sente
alleggerire la vita terrena... Egli sospira in più elevato silenzio:
«Ritrovarsi al di là immenso, dove padre e figlia, suocero e nuora si
perdonano, attesa la piccolezza del lasciato mondo micidiale...»
Sancta Maria,
sancta Mater, consolatrix afflictorum, ora pro nobis... Egli sente la Regina dei Celi
che prega per lui... Le è dapresso, aiutante di preghiere, dama di corte
celeste, raccoglitrice di suppliche terrene, la Regina Maria Adelaide, vaporosa
e benefica, come un'Apsara indiana, imponente nella sua bellezza delicata e
dignitosa, inspirante rispetto pieno di affettuosa fiducia, come la Vergine
della Scala del Correggio, come la Clemenza di Raffaello...
Oh dolcezza del
rapimento... in alto, in paradiso. Il miracolo è compiuto...
Il Commendatore Vispi
si sente morire... Oh suprema dolcezza... Transit.
* * *
Si recò la notizia
all'avvocato Gioiazza, che era stato nominato esecutore testamentario del fu
commendatore. Egli spremette in secreto, affinché non paresse istrionica a se
stesso, una lacrima per quella, che gli appariva la più grossa vittima dei Capricci
di Nerina.
Erede era instituito
il laboratorio delle Suore Preziosine; e se esso non fosse costituito in
ente morale per la capacità giuridica di ereditare, veniva chiamato erede lo
stesso avvocato professore Gioiazza, con la sicura fidanza, che egli
consacrerebbe l'eredità a scopo analogo, giusta l'aforismo, che il testatore
lasciava a motivazione delle sue disposizioni testamentarie: la donna, che
lavora, è mezza salvata.
Questo aforismo
servirà di testo all'avv. prof. Gioiazza per meditazioni copiose ed anche
originali sul femminismo. Intanto egli pensò: ¾ I
laboratorii confessionali delle suore corrispondono alle Scuole Professionali
femminili areligiose della Massoneria. Oh! si mettessero d'accordo per fare del
bene!
Per le sue mansioni
di erede fiduciario prevalenti a quelle di esecutore testamentario egli dovette
recarsi presto a San Gerolamo, dove viveva volontariamente confinato il suo
antico amico e confratello letterario Adriano Meraldi.
Gioiazza non si era
mai risolto a visitarlo espressamente, per rispettarne la solitudine. Egli
ragionava: ¾ A una
certa età, come la nostra, si muore, o si vive rispettivamente come morti. Per
coloro che vogliono vivere come morti, relativamente a determinate persone,
giova non solo dimenticare, ma piace pure l'essere dimenticati.
Però trovandosi egli
a S. Gerolamo, gli era umanamente impossibile non fare ricerca dell'antico suo
compagnone, che gli si disse vivere ristrettamente coi suoi genitori, e non
voler assolutamente vedere altre persone.
Pur Gioiazza si fece
coraggio e si presentò al geometra Meraldi e alla sua signora. Gli parvero due
ombre di padre e di madre, che si guardavano negli occhi sconfortati senza
speranza... Il figlio loro non sapeva più dir altro fuorché egli era cassé e
opponevasi risolutamente e pietosamente a qualsiasi visita...
Gioiazza si sentì
risorgere la sua invadenza amicale; e appreso che Adriano si era recluso in una
stanza di sopra, volle violare la consegna, prese d'assalto la scala, con
impeto sforzò la serratura dell'uscio; ma non riuscì a gettarsi con le braccia
al collo dell'amico. Il quale, pure florido e grassoccio come un cadavere
estratto dall'acqua, lo trattenne con un lontano cenno da apata premendosi la
mano sul cuore sfinito...
¾ Adriano!
Adriano! Non rispondi al tuo vecchio amico?... Corpo di mille bombe!...
Unica risposta lo
stesso cenno di allontanamento fatto dalla mano destra protesa, mentre la mano
sinistra premeva il cuore sfinito...
* * *
Gioiazza si ritirò
mortificato; e non avendo più potuto ricuperare il vecchio amico, per converso
trovò una nuova amica.
All'albergo dei Tre
Merli, nell'allacciarsi i calzoni, si punse a sangue un dito tra le morse del
fermaglio. Accorse la servotta a medicarglielo con filaccie e burro, non
essendo ancora giunta colà la cura antisettica con i cotoni fenicati e
sterilizzati.
Mentre essa gli
legava la piccola fasciatura con un filo bianco, di cui teneva un capo in
bocca, egli sentì da quelle guancie porporine alitare sulla sua faccia un calorico
irresistibile...
Le domandò come si
chiamava.
¾ Viviana
Gioconda.
¾ E il
cognome?
¾
Abbondanza.
Anche il cognome gli
parve bene appropriato, perché egli ammirando le protuberanze pettorali della
sua prosperosa infermiera, ebbe un'immagine da poeta erotico rusticano inedito,
che le bocce del seno di quella ninfa potagera dovevano essere fresche,
come cavoli dissepolti dalla neve. Per di più quella servotta godeva il
soprannome di quagliastra. Essa doveva essere un buon gibier per
lui.
A farlo apposta il
signor Amodeo Amodei proprietario dei Tre limoni d'oro, essendosi assai
arricchito, aveva deliberato di rimettere l'esercizio dell'Albergo, e ritirarsi
con la fresca consorte improle a rifare vita arcadica, giovanile sui
paterni colli di Dolcevino, fabbricando eccellente dolcetto da guadagnare le
più brillanti medaglie alle Mostre Enologiche.
Il successore aveva
pure cambiato tutto il personale dei Tre limoni; e l'avvocato Gioiazza,
non volendo adattarsi a ghigne nuove, diede l'addio all'Albergo; comperò
una villetta, che gli veniva a puntino in un giudizio di espropriazione, una
villetta nell'alta Val Salice, a bacìo verso Torino, a solatìo verso
l'Astigiana.
* * *
Sono trascorsi
parecchi anni.
All'avvocato prof.
Ilarione Gioiazza, dopo le fatiche forensi e cattedratiche del giorno
cittadino, pareva di pigliarsela consolata, riducendosi alla sera nella sua
villetta, dove l'amore curoso di Viviana Gioconda Abbondanza detta Quagliastra
lo intepidiva, qualche volta lo ardeva, e poi sempre lo refrigerava.
In onta alle teorie e
alle pretese odierne del femminismo, egli, d'accordo con il letterato rusticano
Macedonio Poponi delle Verbanine, avrebbe voluto ristabilire l'istituto
giuridico romano del concubinato, siccome quello che provvedeva legalmente e
razionalmente agli istinti e agli affetti umani, senza offendere le dignità
sociali.
Una sera di agosto,
fumando scamiciato la pipa al balcone verso la città accanto, leggeva in un
libriccino di Roberto Bracco «Nel mondo della donna» questo credo di
femminista: «Unico scopo di vita nella donna è ottenere ciò che la Società le
nega. Ed ecco la menzogna, la seduzione, l'ipocrisia e l'atrofia della
meravigliosa facoltà gemmifera diventano la sua vendetta e la sua carriera: la
sua carriera specialmente, la quale tocca l'apogeo nella rispettabilità
artificiale del matrimonio codificato, e scende al suo livello infimo nella
evanescente processione delle fallofore moderne, celebranti feste bieche, in
onore di un nume, che pare plasmato da Mefistofele col fango delle vie».
¾ Palle!
(Fandonie!) Bale, balasse, balasse d'fra Marc! SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ prorompeva a commentare Gioiazza
scamiciato, deponendo la pipa spenta, da cui aveva tirato cenere in gola.
Sputacchia, poi
prosegue mentalmente: ¾
Exempli- gratia, par exemple. SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ Che si è mai negato a Nerina?
¾ Chi si è
mai sognato di negar nulla ai suoi capricci infiniti? Anzi questa fu appunto la
sua rovina, e la rovina di quanti caddero come bolidi nella sua orbita
capricciosa... Fu proprio il concedere tutto ai suoi capricci, l'origine dei
suoi guai e dei guai del prossimo e quanti!... Sì questa e non altra si è la
chiave del femminismo naturale... Proprio così! Lo stesso femminismo
artificiale che si agita per emancipare la donna, alla fin dei conti serve a
frenarne i capricci, ottenendole un maggior diritto al lavoro ossia un maggior
diritto a doveri insoliti faticosi, fino a produrre dal sesso gentile un terzo
sesso, neutro, come le api operaie e sterilizzato come il cotone medicinale. È
il sesso ora detto ingombrante dai lavoratori maschi, che si vedono
muovere una concorrenza terribile dalla moda delle donne lavoratrici, il cui
krumiraggio si estende oramai senza eccezioni: professoresse, avvocatesse,
medichesse, banchiere, impiegate postelegrafiche, telefoniste, ferroviere,
tramviere, cocchiere, ed anche ciabattine ed anche lustrascarpe di piazza... e
grandi elettrici...
Prima del femminismo
artificiale la donna aveva soltanto la condanna biblica di partorire con
dolore, mentre l'uomo lavorava sudando per il sostentamento di lei e dei
marmocchi. Oltre le incombenze domestiche delle massaie, le donne erano già
bifolche in campagna, specialmente zappatrici e restrellatrici in pianura,
somiere in montagna.
C'era bensì qui a
Torino il gaietto sciame delle modiste, sartine e crestaine, caccia prelibata
di noi studenti universitarii, e a Parigi le bellezze statuarie ed articolate
già servivano da manichini e provini di abbigliamenti nei grandi magazzini di
moda.
Quando non c'era
ancora il femminismo artificiale, c'era pure il patriottismo a convergere
l'erotismo, la pedagogia sessuale nell'amore della patria, a servizio del
risorgimento nazionale. Splendido modello la Belgioioso, principessa
rivoluzionaria, la teatrale principessa errante, inseguì sempre attraverso il
mondo nel bene e nel male un ideale di grandezza e di bellezza, ma con la mira
alla liberazione dell'Italia nostra. Essa mise il fascino della sua bellezza a
vantaggio del più caldo ed evoluto patriottismo. Essa non adottò i ricevimenti
della corruttela napoleonica, dell'alto e del basso impero, in cui era nata e
cresciuta: i ricevimenti in costume di Adamo ed Eva; ma il suo salotto a Parigi
era tappezzato di velluto scuro con stelle d'argento, come una camera ardente
per la bara della madre patria, di cui si fomentava, si invocava, si aspettava
la risurrezione. Diafana, spetrale, acquistava, come la Sanseverina dello
Stendhal, una vigorezza di Diana cacciatrice con la voluttà di Venere.
Ed essa invischiava,
corbellava, cacciava gli amanti per il bene inseparabile della libertà e della
Patria.
Ciò aveva senza
dubbio i suoi inconvenienti. Si notò che la Principessa, durante l'assedio di
Roma, curando amorosamente negli ospedali i feriti, dava loro la recrudescenza
della febbre.
Uno dei maggiori
inconvenienti verificatisi nel sistema erotico patriottico della mirabile
principessa è stato quello di dimenticare nella foga di una fuga politica un
medico ammiratore chiuso in una guardaroba della villa, dove si scoperse lo
scheletro rannicchiato, circa vent'anni dopo.
Ma infinitamente più
gravi e più deplorevoli appaiono gli inconvenienti della voluttà capricciosa,
sbrigliata, senza amore di patria e di umanità, senza consacrazione
intellettuale, apostolica, laboriosa...
Cotesta voluttà
incriminata crea vittime più numerose e più compassionevoli senza paragone...»
* * *
A questo punto della
meditazione sul femminismo naturale e sul femminismo artificiale, la serva
padrona venne a vedere, che cosa il suo avvocato faceva sul balcone, dove non
poteva più leggere: e si accorse per lui, che a rimanere così in manica di
camicia alla serena c'era da pigliarsi un raffreddore anche nel forte
del ferragosto.
Inforcatagli la
giacca dalla serva padrona, e ricaricata e riaccesa la pipa col fiammifero da
lei offertole, egli la allontanò mandandola ad inaffiare i peperoni e il
prezzemolo nell'orto; e si attardò sul balcone per proseguire le meditazioni
nella contemplazione del cielo, che gli offriva un magnifico stellato; uno
sparpaglio, un seminio, qua un gremio, là una racchetta, più in là un trapezio,
ed altre geometrie di scintille (che rappresentavano globi immensi) sopra un
velluto di azzurro carico profondo ancora qua e là garzato di nubi
bianchiccie... e trasparenti... A un tratto una stella cadente come un razzo
gli raffigurò la carriera di Nerina, la filza dei suoi capricci, che filava giù
a perdersi nell'abisso... Ed egli con l'acredine misogina, antifemminista del
Nevizzano giureconsulto castigato e del Nietzsche filosofo impazzito si pose a
sgranare quel rosario pungente.
Dalla contemplazione
del cielo il suo sguardo si abbassava a scrutare l'illuminazione di Torino, su
cui era filata la stella cadente di Nerina. Ed in ogni lume egli vedeva
dantescamente bruciare un capriccio di lei.
Due fanali elettrici,
che parevano riverberarsi i loro raggi ostilmente, erano per lui le anime delle
due maggiori vittime di Nerina, dopo il padre: ¾ Adriano Meraldi e Federico De
Ritz.
De Ritz e Meraldi si
erano bastonati orribilmente sulle teste al Cancello del Santo Oblio; e non si
erano punto dimenticati. Rottasi mutuamente la cappadocia per i capricci di
Nerina, staccati, destinati a distinte lontane agonie, l'uno al Castello di
Ripafratta, l'altro al borgo natio di S. Gerolamo... Pure per la bramosia della
loro invidiata Nerina, quelle teste ancora si beccavano lontanamente, come due
dannati nella gelatina dell'inferno dantesco.
«Come due becchi
cozzan insieme» novelli Alessandro e Napoleone conti di Manzona. Si era
rinnovata la pugna mentale fino all'estinzione delle loro vite... Tanto era
inestinguibile la sete dell'amore di Nerina. E nella loro pugna pindarica «e
forti nervi e nel pugnar crescenti» in mutua orrenda strage psicologica...
Ed ora che sono da
gran tempo spirati entrambi, ecco in quei due fari elettrici l'immagine della
loro pira di nuovi Eteocle e Polinice, in cui le fiamme cigolando si
spartiscono in segno d'una pretesa d'odio immortale, che Domine Dio faccia
cessare...
L'avvocato Gioiazza
ricapitola le morti di Federico De Ritz e di Adriano Meraldi.
Federico De Ritz
aveva potuto evadere dal suo castello di Ripafratta.
Adriano Meraldi non
lo si poté smuovere da S. Gerolamo.
I suoi genitori erano
finiti di crepacuore, a forza di sentirlo esclamare, che egli era cassé.
La maldicenza villana
sospettò, che egli si fosse finto perdutamente ammalato per goderne più presto
la eredità. Invece egli sentì l'orrore della solitudine aggravato dal rimorso
di avere, sia pure involontariamente, amareggiata la fine di papà e mamma, che
avrebbero volontieri sacrificato cento delle loro vite per allietargli e
prolungargli la sua.
Lo strofanto più non
giovava a rianimargli l'attività del cuore.
Egli si sentiva
irremissibilmente deperire, senza velleità di rimediarvi... Piuttosto avrebbe voluto
raccorciare violentamente quell'agonia... Ma lo spauriva il pensiero del
suicidio nel luogo natio, dando di sé vista afrosa ai suoi compaesani,
che lo avevano visto nascere e crescere bellin e suscitando commenti di
previsione raccapricciante.
Avrebbe preferito
essere assassinato di notte in una foresta africana, e sepolto di nascosto nel
seno vivente di una grande pianta di baobab, a cui avrebbe dato succhi e
foglie... O gettarsi dalla alta prora di una nave nel mare profondo nutrimento
dei pesci... Ma non si sentiva la forza di viaggiare neppure sino a Genova...
Lo tratteneva la mania carceriera cellulare, l'orrore dello spazio viatorio.
Meglio meglio ancora,
se fosse rapito in cielo come un profeta della Bibbia!
Intanto sulla terra
di S. Gerolamo gli rimaneva unica custode la vecchia Cecchina, la fantesca, che
lo aveva portato in braccio da bambino... Ed ora si provasse a portare quel
cadavere grasso annacquato... Ma la vecchia Cecchina non accettava più lo
scherzo, neppure macabro. Essa era divenuta asciutta, di poche parole, come se
l'innata bontà e l'antica devozione familiare fossero state corrose, slavate
dalle teorie invadenti del socialismo dissocievole.
Migliore compagnia
tenevano al volontario coatto un gattino ed un verdone. Egli si credette un
Mazzini, quando riuscì ad ottenere che verdone e gattino mangiassero insieme
fraternamente nello stesso piattello.
Omne tulit punctum, gli pare di toccare il cielo
con il dito, allorché si crogiola, si appisola dentro il seggiolone, lasciando
il gatto assiso come una sfinge sulle ginocchia di lui, e sentendo il rantolio
delle sue fusa lusinghiere, mentre il verdone appollajatosi sopra una spalla di
lui gli manda al vicino orecchio un sentore di vigilanza geniale, protettrice.
Ma una trista notte
di febbraio, il gatto divenuto gattone, andando lontano in gattogna,
venne ghermito in un laccio malandrino, e finito a mazzate, nonostante le più
rabbiose e lamentose ed alte proteste dei suoi gnaulati, quindi venne macerato
in una roggia, infine mangiato come lepre in un baccanale di lurida osteria.
Senza il micio, anche
il verdone gli pareva spaesato, distratto, smarrito. Inutilmente Meraldi gli
rivolgeva la parola:
¾ Verdone,
o verdone, cugino primo dei canarini e cugino secondo dei cardellini, quando io
era studente a Torino, vidi, ammirai un tuo collega, un antenato della tua
specie in piazza Castello, addomesticato a tirare l'oroscopo, il pianeta della
sorte dalla gabbia sotto il comando di un vecchio leggendario bagattelliere,
che si diceva essere stato il misterioso uccisore del filosofo Rosmini a
Stresa... Verdone, o verdone, quale prossima sorte mi è riservata, mi attende?
Ora quasi lo
crucciava smaniosamente la voluta dimenticanza del mondo. Questa dimenticanza
pare maravigliosa e non è punto maravigliosa né anche per chi abbia goduto di
una celebrità europea. Le centurie dei malevoli e specialmente degli invidiosi
e più specialmente dei giovani anelanti ad usurpare il posto dei ritirati dalla
scena, aiutano a perfezione di riuscita l'impresa della volontaria
dimenticanza. Riescono sempre prodigiosamente codeste congiure dell'avido
rapace silenzio, salvo il soprassalto di un risveglio, quando si sente che un
uomo già celebre è spirato definitivamente. Allora è un esclamare compunto
unanime: «Credevamo che da un pezzo egli fosse nel Pantheon dei trapassati!»
Ma più che
l'isolamento dagli altri, più che il non ricevere visita o lettera veruna,
tormentava Meraldi la coscienza della sua cresciuta impotenza cerebrale. La
grafofobia non gli consentiva più di scrivere due righe. Pazienza! Egli si
comandava pazienza, asciugandosi la fronte. Ma quando accintosi a leggere mezza
pagina dei Miei tempi di Brofferio, così allegramente limpidi, e
facilmente scorrevoli ed a lui familiari fin dai banchi della scuola, si
accorse che non ne capiva buccicata, egli diede in un rovescio di pianto amaro,
disperato.
Nulla rende
maggiormente spaurito, fuggiasco il letterato, che il leggere due righe e non
riuscire più a comprenderle.
Allora Adriano Meraldi
deliberò di finirla senza più. Andò a togliere dal secreto armadio della sua
camera da letto un pistolone, già di suo padre, un pistolone, che da tempo egli
aveva accuratamente caricato; ne alzò il cane, esaminò la capsula pronta
lucente.
Rientrò sprangato
nello studio, e per un istante posò l'arma sul vocabolario già inutilmente
aperto per ricominciare una vita studiosa. Ora egli ha stabilito che lo studio
sia il teatro della sua tragica fine. Ma prima volle ancora salutare la stanza,
dove erano morti per lui i suoi ottimi genitori. Quivi si inginocchiò, pregò,
pianse le sue lacrime più calde e rimordenti. Quindi, come se compisse in sé
una vendetta di Nerina, ritornò risolutamente nel suo ufficio con gli occhi
luminosi e ciechi. Brandì il pistolone, fece scattare replicatamente il
grilletto, che ripetutamente gli rispose cecca.
Egli si ostinava,
senza esame, nella risoluzione dello sparo, quando alla nuova cilecca del
colpo, sentì rispondere di fuori un gorgheggio, quasi un risolino festante
trionfale. Si affacciò alla veranda e vide sulla banderuola del pinacolo il
verdone che accompagnava ad ali larghe il suo canto. Esso come sapesse di
salvare il suo scosso amico dalla grossa bestialità di un suicidio,
saltabeccando incolume aveva svelta la capsula dal cane della pistola, ed era
volato con la formidabile preda, che gli luccicava nel becco, ad una gronda,
aveva lasciato cadere il fulminante micidiale in una tinozza quasi trasparente
di lisciva innocua. Quindi era volato sulla banderuola del pinacolo a cantare
giustamente vittoria. Quel gorgheggio suonava un incoraggiamento, un saluto
alla vita di Adriano.
Il salvato Meraldi
guardò con occhio di commozione tra il rimprovero e la riconoscenza il suo
piccolo salvatore. Ed il verdone gli rivolava amichevolmente sulla spalla
destra, beccandogli dolcemente il lobo dell'orecchio, come per trasfondergli
un'elettricità di vita nuova.
Disavvedutamente tre
giorni dopo, Adriano Meraldi, chiudendo dietro sé l'uscio dello studio,
schiacciava il suo piccolo salvatore. L'ultimo gemito dello schiacciato parve
gelargli tutto il sangue nelle vene. Raccolse tra le palme trepide quel
cadaverino caldo, allungato, dagli occhietti pungenti, a cui avrebbe voluto
ridare l'anelito con tutto il soffio della propria residua vita.
Lo seppellì in un
vaso di fiori. Dopo allora il mondo vivente cessò assolutamente dall'avere
qualsiasi attrattiva per lui. Inutilmente per lui alle bieche giornate del
rigido inverno succedeva il sole... Egli più non sentiva la beneficenza dei
raggi solari sulle guancie, mentre l'erba bianca cristallina dei prati pareva
luccicare festosamente al sole rinato. Inutilmente la luna suscitava nelle
brine il scintillio vivace delle gemme...
Egli pensò, ripensò,
aspirò unico rimedio, l'alta nebulosa ogiva del vecchio ponte sulla Gerolamia.
Ed egli che vent'anni prima era accorso ad impedire il tonfo di Spirito Losati
precipite nel rapido fiume, egli che ora smaniava di sfuggire ad una
esposizione mortuaria, fu rinvenuto nel torrente gelato, cadavere in vetrina.
* * *
L'avv. Gioiazza
riandò più brevemente la fine di Federico De Ritz, attesa la incertezza delle
sue straordinarie finali vicende. Si disse nientemeno, che il biondo
garibaldino italiano oriundo tedesco annerisse guerreggiando fra le fila degli
Zulu, e fosse desso lo scagliatore della zagaglia, che trafisse il principe
Eugenio Napoleone cantato dal Carducci.
Alla sua volta egli
procombeva eroicamente difendendo la libertà dei Boeri contra gli stessi
Inglesi, mentre, se non fosse stato il vituperio di Nerina, avrebbe potuto
perdurare e finire eroe della virtù italiana.
Naturalmente il padre
di Federico, barone... e la madre signora Ninfa nata Amasole morirono di morte
accelerata dallo accoramento per la scomparsa di quel tesoro unico di figlio.
Gioiazza crede di
vederne i lumi... penosamente agitati.
Altri lumi gli
rischiarano la certezza di altre vittime direttamente o indirettamente causate
da Nerina.
Riffola, uno dei
primi amanti di frodo della tota e della contessa, finì giustiziato con
la sedia elettrica nel Colorado degli Stati Uniti d'America.
Il marchese
Stefanina, nelle cui sale Federico De Ritz era stato presentato a Tota Nerina,
andò a Terracina, ossia in bolletta.
Si direbbe che il
contatto di Nerina abbia portato a tutti la iettatura... Così narrano quei lumi
alla contemplazione di Gioiazza...
Ecco il Santo lume di
Suora Crocifissa, strappata per il subbuglio della Contessa alla Provvidenza
del Santo Oblio... Eccola spenta carbonizzata nell'incendio di un cinematografo
di Parigi, dove aiutata da un cuoco eroe aveva salvate parecchie vite da certa
morte, mentre giovani visconti eredi delle Crociate calpestavano donne cadute,
le calpestavano per salvare la propria pelle. Come guizza ora il lume di Suor
Crocifissa spenta eroicamente!
Il reverendo socio di
Suor Crocifissa nelle fondazioni caritatevoli, canonico Giunipero, detto anche
Puerperio, a detta dell'avvocato Gioiazza, morì di parto, dopo che il Tribunale
Civile in sede commerciale dichiarava il fallimento della sua appena sbocciata
Società Alimentare delle misere lattanti.
¾ Questo è
un lume ben grosso! ¾ continuava
nelle sue osservazioni l'avvocato Gioiazza additandolo a se stesso: ¾ Sono
certo di non errare attribuendolo a Monsignor Pettorali arcidiacono della
Basilica Metropolitana di Trentacelle, quegli che dichiarava apertamente
preferire a un cardinale papabile una badessa palpabile... Ebbene si dice, che
anch'egli per una saggiatura di Nerina spinta all'indigestione, sia rimasto
soffocato nella sua obesità rosea pallida.
Invece Evasio Frappa,
il caustico bozzettista dell'Eco di Trentacelle, dopo essersi
scapriccito con Nerina vuolsi strozzato, bruciato da una congestione nera. Che
schizzi satirici dà il suo lume!
Persino la perla
degli amici del Mezzogiorno, Cristiano della Monaca, già studioso ingenuo, poi
professore, in cui la grande scienza si combinava colla grande modestia, dopo
avere conosciuto biblicamente Nerina, cambiò carattere e connotati. Da chiaro
alienista diventò poco per volta un oscuro alienato. Vantavasi di aver curato
il nervosismo delle più cospicue signore d'Italia e d'Europa e d'America, e
proclamava superiore alle presidentesse, alle regine e alle imperatrici,
proclamava la Contessa De Ritz. Ed egli era l'uomo superiore, il superuomo più
sprezzante di questo mondo. Non riconosceva supremazia altrui in nessun genere.
Non parliamo della sua scienza. Ma se egli avesse voluto fare il letterato,
l'artista e l'uomo politico, sarebbe stato il primo letterato, il primo
artista, il primo statista dell'orbe terracqueo e della Storia universale.
Cadde pedestremente
ammalato. Avrebbe avuto bisogno di un servo infermiere, che gli fosse familiare
sostegno. Non trovò Carlino il domestico toccasana romantizzato da Giovanni
Ruffini. Inciampò in una portinaia, rassomigliante fisicamente e moralmente a
una scimmia, una forca di scimmia come la donna satirizzata da Simonide. La
fece sua e ne divenne schiavo da catena. Avviso al lettore ed anche
all'osservatore dell'illuminazione.
Una vera scimmia
chimpanzè dal balcone di un vicino lo scherniva con lazzi petulanti e sforacchianti.
Egli la uccise con una schioppettata, dicendole: «Prega per me!» Venne
dichiarato pazzo. Così l'alienista alienato terminò con il peggiore morbo in
una casa cosidetta di salute.
L'avvocato Gioiazza
non si stancava di applicare nomi di persone vissute e defunte a quei filari di
luci, a quei viali di lumi, a quello zodiaco di fiammelle, che componevano
l'illuminazione notturna di Torino. Quel formicaio di faville sono le vittime
disperse del Santo Oblio, sono le schiave bianche costrette alla prostituzione
dai Regolamenti dei paesi liberi e civili. Qua e là in quei lumicini Gioiazza
scorge un monaco greco strangolato, un papuasso turco impalato, una Suora
Levantina morta naufraga con Suora Ermellina Diotamo, e con Padre Equoreo e con
Franco Massi, parecchi cantori dalla voce squarciata e varii pittori dalla
tavolozza infranta, un hidalgo piegato a ciabattino, un vegetariano
scarnificato, un principe russo annichilito... In quel lanternone veggo la fu
squarquoia pretoressa Frusoli svolazzante come falena, evanescente come festuca
da fuoco di paglia!... Tutte conoscenze di Nerina...
Quanti lumi! Tante
vittime! Che visibilio di perduta gente. E nessun lanternino si salva in questo
naufragio di lanterna magica?
Unici salvi dal
naufragio dei Capricci di Nerina le coppie dei Losati e degli Svolazzini, che
credettero una cosa seria l'amore e affermarono la loro fede con il matrimonio.
Unici rimasti ritti nel generale abbattimento Svembaldo e Gilda perché avevano
tenuto fede al proprio amore; Spirito e Lorenzina, perché questa imperterrita
aveva perdonato ad un amore alieno del marito ed aveva ricondotto lui alla fede
coniugale.
Di vero il barone
ing.re Svembaldo Svolazzini ha la più alta e meritata fortuna con la
costruzione delle locomotive a vapore e dei vagoni ferroviarii, rendendone
l'industria nazionale quasi sovrana, mentre prima era tributaria omninamente
all'estero. Il barone Svembaldo figlio è già succeduto al barone Rollone padre
nel Senato del Regno. La giovine baronessa, leggendo una gentile novella di Nino
Pettinati, concepì il gentile pensiero, che suo marito designasse e facesse
costruire per la vecchia baronessa madre emiplegica un vagone appositamente
imbottito e adobbato... quasi su misura. Ora la austera semiparalitica ancora
desiosa di mobilitazione se ne serve quasi a delizia, facendosi trasportare
dalla villa di San Gerolamo alle Officine di San Pier d'Arena, e a Roma per i
ricevimenti Vaticani e per le Sedute Reali del Parlamento e dei Lincei. Onde la
vecchia già orgogliosa ed inesorabile ora benedice teneramente al figlio e alla
nuora.
Il professore Spirito
Losati già vide celebrarsi il proprio giubileo cattedratico con targa,
medaglione, medaglietta, pergamena, album di autografi illustri e di
sottoscrizioni popolari, banchetto e marcia musicale espressamente per lui
composta dal compositore Maestro organista Massimo Bonario. Si dice pure
prossima la sua chiamata all'alto ed augusto consesso dei Senatori. La consorte
del cattedratico, anziché ampliarsi come una cattedrale, si rimpiccolisce e si
mostra umile in tanta gloria ed accarezza con un profumo di santa massaia
operosa il marito, i figli, non che il vecchio papaloto, macellaio
emerito.
Quindi conclusione
indeclinabile: principale, se non unica, felicità sulla terra è l'amore reso
divino ossia congiunto ai doveri e senza capricci.
Ed egli Gioiazza?
Egli, che predica così bene, razzola forse male? Facendo uno spregiudicato
esame di coscienza, egli crede di avere adottato questo programma, questa
filosofia della vita: essere sempre tollerante, e possibilmente irreprensibile,
tenendo fermi i seguenti capisaldi: onore, dovere, riconoscenza,
proporzionalità, e sopratutto amore; per la proporzionalità trattare le pie
monache come pie monache e non come dissolute sgualdrine; trattare le dissolute
sgualdrine come dissolute sgualdrine e non come pie monache, e così nel termini
medi restare equanimi; per l'amore massimamente del prossimo, fare tutto il
bene che si può, non fare mai del male a nessuno, non fare mai ingiustamente
soffrire alcuna creatura...
¾ Ma,
dico, padre Zappata, che predica così bene, praticamente come razzola...?
L'avvocato Ilarione
Gioiazza, nel difendere la sua condotta davanti se stesso, ha l'ilare coraggio
di paragonarsi al Padre della Patria. Sì per giustificare il suo faux menage,
la sua vita domestica more uxorio con Quagliastra, ha l'ardimento di
riferirsi all'esempio del Gran Re Liberatore, che nell'amore relativamente
libero, predilesse come raggio della Natura, figlia o nipote divina, la forma e
la psiche popolare. Gli è vero che Vittorione, dopo aver sposata
morganaticamente una piacentissima tamburina, sentendo che l'Altezza Reale di
un suo augusto cugino faceva lo stesso con una ballerina, sentenziò in un
eccesso di autocritica scherzosa, fino a tradurre dialettalmente un verbo
plebeo di Dante: Casa d'le Crossade a l'è ampus...asse pa' mal! Ma è pur
verissimo che papà Vittorio, il Gran Re finì vittorioso a Roma, mentre il
piccolo Napoleone, imperatore curvo al lecchezzo delle superbe dame, venne
abbattuto, spazzato via da una delle più sonore batoste storiche...
¾ Ma, ¾ ripiglia
¾ padre
Zappata, hai forse seguito, per quanto ti fosse possibile, l'esempio
morganatico del Gran Re?
¾
Comprendo, ¾
rispondeva a se stesso, sdoppiandosi psicologicamente l'avvocato ¾
comprendo ed apprezzo il tuo sospetto, comprendo e sento la tua gelosia quasi
lancinante per le testarde premure della tua serva padrona verso il giovane
ortolano, benché Miclìn si mostri teco estremamente servizievole con un'aria da
santificetur e con un profilo di San Luigi Gonzaga.
¾ Insomma
chi conterà la fine di un capriccio di Gioiazza? Lo conterà la sua serva
padrona ed ereditiera? Per ora l'avvocato Gioiazza, constatando che non è
possibile restaurare il concubinato nella presente civiltà giuridica,
presagisce, che egli finirà con lo sposare Quagliastra almeno con il rito
religioso, magari licenziando il giovine ortolano, ed assumendo all'irrigazione
e alla coltivazione dell'orto un giardiniere stravecchio, o meglio un veterano
reduce d'Africa, a cui gli abissini abbiano fatto l'estremo oltraggio, dando
gli onori dei cantori della cappella Sistina.
Nell'ultimo sguardo
alla illuminazione della sottostante Torino, l'avvocato Gioiazza già si vede,
come in uno specchio: salire alla villa, portando la sporta alla cuoca elevata a
mogliera, ed aggiungendole cordiali, stimolanti e rispettose facezie per
ingraziarsi lei ingrugnata, per feje chitè 'l grugn.
Il purgato spirito di
Nerina folgore caduta in un pozzo, risorgerà in alto, in alto, e sorriderà da
una stella invisibile al critico contatore dei Capricci per pianoforte.
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