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Giovanni Faldella
Donna Folgore

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      • 10 - Gioiazza termina di contare i capricci di Nerina
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10 - Gioiazza termina di contare i capricci di Nerina

 

L'avv. Gioiazza ricevette per la vittoria della sua difesa imprecazioni, che parevano saette postali, ed applausi epistolari, che parevano baci frenetici. Per farne più compiuto il trionfo, pervennero altri consigli al romanziere dalle lettrici avide delle sue puntate nello Specchio della Vita.

Singolarissimo quest'invito di una sedicente ammiratrice, inesauribile di ottimismo, e trionfante anch'essa per l'assoluzione di Papà Vispi: «Romanziere, romanziere del mio cuore, Vi supplico con il cuore in mano di fare rivivere miracolosamente Nerina. Il mezzo, che Vi suggerisco, sarebbe molto semplice: potreste narrare, che nel feretro attribuito a Nerina si misero sassi, affinché essa potesse con altro nome, con altra veste, con altra personalità emigrare in America, dove la raggiungerebbe il padre ed anche il marito, già divenuto pazzamente irreperibile per lei, ed ora ritrovato, rinsavito pronto e maturo ad una Vita Nuova nel nuovo mondo, che ha la potenza di rinverginare anche le foreste. Fate così, scrivete, come Vi dico. E oltre il permesso di riportare questa mia letterina Vi consento anche una conclusione di severità morale, ma di felicità pari, che farà vendere molte copie del vostro racconto, quando sarà raccolto in volume, perché il buon pubblico, che legge, ha mestieri di essere felicitato da un lieto fine. Peccando di presunzione fino all'eccesso, ardisco di suggerirvene io stessa i termini in istile quasi manzoniano: 'Sì! i miei personaggi sono tutti vivi; se ne rallegri la scrittrice del pistolotto soprariferito. Ma quale filatessa di guai scaturì dai capricci di Nerina! Pazzie, coltellate, pistolettate che potevano riuscire micidiali, processi, galere, che possono essere a vita anche libera, miserie innumerevoli ed innominabili. E non sempre i pazzi rinsaviscono, i giurati assolvono, le pistole fanno cecca e i coltelli risparmiano l'umanità, trincerandosi a trinciare i polli. Se lo leghino al dito le otto damigelle e le quattro spose, che leggeranno questo mio libricciattolo.'»

L'autore, non perché poco lusingato di sentir chiamare libricciattolo una sua opera quasi semisecolare, ma per omaggio alla verità deve ricusare anche questa versione ottimista, e conchiudere ancora una volta con il pessimismo del verismo, senza neppure aver paura dei finali in ismo.

La realtà mantenuta della morte di Nerina non tardò a produrre altre conseguenze mortali.

L'avvocato Gioiazza nell'accompagnare in vettura chiusa il prosciolto comm. Vispi alla costui casa, si dolse di non avere una casa propria per ospitarlo. Ostinato celibe, egli si era stancato di una successione di cuoche e domestici. Le giovani lo inducevano in tentazione, lo tradivano ignominiosamente e facevano mormorare e ridere il vicinato alle sue spalle. Le vecchie gli facevano schifo. Anche una settantenne puzzona, tra la mummia e la megera osò tentarlo, tanto che una notte dovette dormire barricato nella sua stanza. Un domestico, che egli aveva tolto a sfamare da un tabaccaio, gli lasciò una camicia sola, rubandogli eziandio lettere compromettenti di un'alta signora per venderle a un bardo della democrazia, che però glie le restituì cavallerescamente.

Per tutte queste peripezie egli spiantò la casa, eccetto lo studio, di cui affidava la pulizia e la custodia al portinaio, e depositati gli altri mobili in un magazzino, per riservarsi la libertà di un nuovo installamento avvenire, intanto si decise a pigliare i suoi pasti e cucciare all'Albergo dei tre limoni, del cui proprietario era stato felice patrono, in una causa di truffa; onde prima d'ogni refezione poteva dire con ameno sussiego al grato cliente: ¾ Cosa a l'as preparà d'bon ancheui per Sour avocat? Tratlo bin, sasto, sor avocat. Desnò at fa pentete an person.

Così all'avvocato prof. Ilarione Gioiazza pareva di mantenere indipendente la sua filosofia della felicità sgombra e del sorriso tollerante vivendo sulla frasca di un'osteria. Essendo sano, egli provava la dolcezza libera dei «senza famiglia»: non la diarrea, la stitichezza, i vermi o il moccio di un marmocchio, non il male dei denti o il puerperio di una moglie, non l'emicrania o la bigotteria di una sorella, non la faccia torva di un fratello perdente al gioco, od altrimenti carico di debiti, che pur col mal occhio raffredda la minestra e il caffè e toglie il sapore ai più saporiti manicaretti. Invece un cinematografo svariato alla table d'hôte, che lo incuriosisce, gli solletica lo spirito, gli nutrisce l'umorismo senza commuoverlo mai seriamente o seccarlo. Trova eziandio l'affetto professionale di un cameriere eccellente, come il Fasano del De Amicis, il sorriso protettore della graziosa padrona, che allarga alla clientela il circuito della famiglia, e la protezione lusingatrice e sommessa del proprietario, che gli solleva la stima di se stesso sugli altri avventori.

Intanto col suo egoismo soddisfatto l'avv. Gioiazza non poté offrire al comm. Vispi l'ospitalità in un albergo, che l'avrebbe maggiormente esposto alla vendetta della pubblica curiosità. Né il comm. Vispi l'avrebbe punto accettata.

Il padre figlicida sentiva il massimo bisogno di solitudine. Appena raccoltosi in casa propria, egli pregò che si allontanassero dalla sua stanza le persone di servizio che gli si mostravano sollecite ed attonite. Erano Carolina, la fante, che era stata complice e ruffiana della giovinezza capricciosa di Tota Nerina, e Mario, lo stalliere factotum che avrebbe anche fatto il boia di compagnia al padrone, se questi fosse divenuto schiah di Persia.

Rimasero ad orecchiare, mentre il commendatore serrava a chiave l'uscio della sua stanza. Poi lo sentirono passeggiare, muovere sedie, forse salirvi sopra, poi inginocchiarsi, e pregare e piangere...

Difatti, prima di commettere l'orrendo reato, che lo costituiva in carcere, egli aveva velato di garza bianca i ritratti della sua Nerina nubile, e di garza nera i ritratti di Nerina maritata.

Ora egli ridona alla luce dei candelabri le sembianze di sua figlia come redenta dal mortale castigo del sacrificio paterno; e paragona quelle sembianze quasi lucenti, acute di bellezza capricciosa e peccaminosa al profilo leggiadro e severo, alle linee maestose e impeccabili della madre... Si inginocchia a domandare perdono ad entrambe... Sì egli pure, senza volerlo, ha peccato tremendamente per la svisceratezza paterna. Mortagli la consorte divina, egli avrebbe falsato moneta, per conservare e crescere nella bambagia quel tesoro, quella reliquia vivente di bambina... Per procurarle un cospicuo patrimonio, la sua anima commerciale era sempre pronta a rispondere felicemente al gioco di società: È arrivato un bastimento carico di...

Quante volate aquiline al porto di Genova per ghermirne carichi superbi di zuccaro, spezie ed altri generi coloniali, che gli fruttarono il milione, e la dote principesca a Nerina!... Credendo far bene egli ha fatto molto male, allevandola a pasticcini, anziché a croste di pane, rendendosi zimbello di lei, anziché correggerla nell'educarla... Ora quel che è fatto, è fatto, e non gli resta più altro in questa vita che l'espiazione... Apre lo stipo e rifà il testamento...

Quindi si rimette in ginocchioni a pregare. La stanza era linda, asciutta e illuminata. Cionondimeno egli si sente come un camminante perseguitato dal diluvio, smarrito nel buio tra pozzanghere profonde, nebbia folta e penetrante, e moscerini di neve, raggiunto, flagellato e sommerso da un'ondata plumbea di maremoto. Unico rifugio, unico scampo la morte. Egli sa, egli sente, egli crede nella sua anima di cristiano che non è lecito, e sarebbe perdizione eterna darsi da sé la morte. Ma la Misericordia di Dio, che è dispensiera di Vita, è pure prodiga di morte. Dunque si preghi la buona Morte... E il Commendatore Vispi pregò indefesso fino all'alba.

Appena le strade furono rischiarate dalla luce del mattino, egli soletto si condusse alla Chiesa della Consolata, prima che se ne aprissero i battenti. Dando uno scudo al sacrestano, mentre la Chiesa era tuttavia vuota, egli ottenne di inginocchiarsi sulla predella dell'altare maggiore. Egli sospira, implora una morte biblica, quietamente e solennemente drammatica. La invoca, la impetra dal Signore, come il vecchio Simeone davanti all'altare. La Madonna Consolatrice gli sia soperna avvocata. E lo suffraghino dapresso le Sante Regine scolpite dal Vela.

Nunc dimitte servum tuum, Domine... Nunc dimitte me, Domine, supplica indefesso il nuovo vecchio Simeone, non per la appagante venuta dell'aspettato Messia, ma per l'indegnità di vivere sulla Terra...

Nella vita terrena egli più che la faccia del prossimo, egli teme lo specchio della propria coscienza... A chius'occhi la sua psiche si sdoppia... Egli vede passare con la sua immagine deturpata dal rimorso un padre figlicida... Aborrisce da quello spettacolo, ne inorridisce, con una scossa, che riesce a dominare ricurvandosi nella più profonda preghiera... Miracolo!... Miracolo!... Egli si sente alleggerire la vita terrena... Egli sospira in più elevato silenzio: «Ritrovarsi al di immenso, dove padre e figlia, suocero e nuora si perdonano, attesa la piccolezza del lasciato mondo micidiale...»

Sancta Maria, sancta Mater, consolatrix afflictorum, ora pro nobis... Egli sente la Regina dei Celi che prega per lui... Le è dapresso, aiutante di preghiere, dama di corte celeste, raccoglitrice di suppliche terrene, la Regina Maria Adelaide, vaporosa e benefica, come un'Apsara indiana, imponente nella sua bellezza delicata e dignitosa, inspirante rispetto pieno di affettuosa fiducia, come la Vergine della Scala del Correggio, come la Clemenza di Raffaello...

Oh dolcezza del rapimento... in alto, in paradiso. Il miracolo è compiuto...

Il Commendatore Vispi si sente morire... Oh suprema dolcezza... Transit.

 

* * *

 

Si recò la notizia all'avvocato Gioiazza, che era stato nominato esecutore testamentario del fu commendatore. Egli spremette in secreto, affinché non paresse istrionica a se stesso, una lacrima per quella, che gli appariva la più grossa vittima dei Capricci di Nerina.

Erede era instituito il laboratorio delle Suore Preziosine; e se esso non fosse costituito in ente morale per la capacità giuridica di ereditare, veniva chiamato erede lo stesso avvocato professore Gioiazza, con la sicura fidanza, che egli consacrerebbe l'eredità a scopo analogo, giusta l'aforismo, che il testatore lasciava a motivazione delle sue disposizioni testamentarie: la donna, che lavora, è mezza salvata.

Questo aforismo servirà di testo all'avv. prof. Gioiazza per meditazioni copiose ed anche originali sul femminismo. Intanto egli pensò: ¾ I laboratorii confessionali delle suore corrispondono alle Scuole Professionali femminili areligiose della Massoneria. Oh! si mettessero d'accordo per fare del bene!

Per le sue mansioni di erede fiduciario prevalenti a quelle di esecutore testamentario egli dovette recarsi presto a San Gerolamo, dove viveva volontariamente confinato il suo antico amico e confratello letterario Adriano Meraldi.

Gioiazza non si era mai risolto a visitarlo espressamente, per rispettarne la solitudine. Egli ragionava: ¾ A una certa età, come la nostra, si muore, o si vive rispettivamente come morti. Per coloro che vogliono vivere come morti, relativamente a determinate persone, giova non solo dimenticare, ma piace pure l'essere dimenticati.

Però trovandosi egli a S. Gerolamo, gli era umanamente impossibile non fare ricerca dell'antico suo compagnone, che gli si disse vivere ristrettamente coi suoi genitori, e non voler assolutamente vedere altre persone.

Pur Gioiazza si fece coraggio e si presentò al geometra Meraldi e alla sua signora. Gli parvero due ombre di padre e di madre, che si guardavano negli occhi sconfortati senza speranza... Il figlio loro non sapeva più dir altro fuorché egli era cassé e opponevasi risolutamente e pietosamente a qualsiasi visita...

Gioiazza si sentì risorgere la sua invadenza amicale; e appreso che Adriano si era recluso in una stanza di sopra, volle violare la consegna, prese d'assalto la scala, con impeto sforzò la serratura dell'uscio; ma non riuscì a gettarsi con le braccia al collo dell'amico. Il quale, pure florido e grassoccio come un cadavere estratto dall'acqua, lo trattenne con un lontano cenno da apata premendosi la mano sul cuore sfinito...

¾ Adriano! Adriano! Non rispondi al tuo vecchio amico?... Corpo di mille bombe!...

Unica risposta lo stesso cenno di allontanamento fatto dalla mano destra protesa, mentre la mano sinistra premeva il cuore sfinito...

 

* * *

 

Gioiazza si ritirò mortificato; e non avendo più potuto ricuperare il vecchio amico, per converso trovò una nuova amica.

All'albergo dei Tre Merli, nell'allacciarsi i calzoni, si punse a sangue un dito tra le morse del fermaglio. Accorse la servotta a medicarglielo con filaccie e burro, non essendo ancora giunta colà la cura antisettica con i cotoni fenicati e sterilizzati.

Mentre essa gli legava la piccola fasciatura con un filo bianco, di cui teneva un capo in bocca, egli sentì da quelle guancie porporine alitare sulla sua faccia un calorico irresistibile...

Le domandò come si chiamava.

¾ Viviana Gioconda.

¾ E il cognome?

¾ Abbondanza.

Anche il cognome gli parve bene appropriato, perché egli ammirando le protuberanze pettorali della sua prosperosa infermiera, ebbe un'immagine da poeta erotico rusticano inedito, che le bocce del seno di quella ninfa potagera dovevano essere fresche, come cavoli dissepolti dalla neve. Per di più quella servotta godeva il soprannome di quagliastra. Essa doveva essere un buon gibier per lui.

A farlo apposta il signor Amodeo Amodei proprietario dei Tre limoni d'oro, essendosi assai arricchito, aveva deliberato di rimettere l'esercizio dell'Albergo, e ritirarsi con la fresca consorte improle a rifare vita arcadica, giovanile sui paterni colli di Dolcevino, fabbricando eccellente dolcetto da guadagnare le più brillanti medaglie alle Mostre Enologiche.

Il successore aveva pure cambiato tutto il personale dei Tre limoni; e l'avvocato Gioiazza, non volendo adattarsi a ghigne nuove, diede l'addio all'Albergo; comperò una villetta, che gli veniva a puntino in un giudizio di espropriazione, una villetta nell'alta Val Salice, a bacìo verso Torino, a solatìo verso l'Astigiana.

 

* * *

 

Sono trascorsi parecchi anni.

All'avvocato prof. Ilarione Gioiazza, dopo le fatiche forensi e cattedratiche del giorno cittadino, pareva di pigliarsela consolata, riducendosi alla sera nella sua villetta, dove l'amore curoso di Viviana Gioconda Abbondanza detta Quagliastra lo intepidiva, qualche volta lo ardeva, e poi sempre lo refrigerava.

In onta alle teorie e alle pretese odierne del femminismo, egli, d'accordo con il letterato rusticano Macedonio Poponi delle Verbanine, avrebbe voluto ristabilire l'istituto giuridico romano del concubinato, siccome quello che provvedeva legalmente e razionalmente agli istinti e agli affetti umani, senza offendere le dignità sociali.

Una sera di agosto, fumando scamiciato la pipa al balcone verso la città accanto, leggeva in un libriccino di Roberto Bracco «Nel mondo della donna» questo credo di femminista: «Unico scopo di vita nella donna è ottenere ciò che la Società le nega. Ed ecco la menzogna, la seduzione, l'ipocrisia e l'atrofia della meravigliosa facoltà gemmifera diventano la sua vendetta e la sua carriera: la sua carriera specialmente, la quale tocca l'apogeo nella rispettabilità artificiale del matrimonio codificato, e scende al suo livello infimo nella evanescente processione delle fallofore moderne, celebranti feste bieche, in onore di un nume, che pare plasmato da Mefistofele col fango delle vie».

¾ Palle! (Fandonie!) Bale, balasse, balasse d'fra Marc! SYMBOL 190 \f "Symbol" \s 12¾ prorompeva a commentare Gioiazza scamiciato, deponendo la pipa spenta, da cui aveva tirato cenere in gola.

Sputacchia, poi prosegue mentalmente: ¾ Exempli- gratia, par exemple. SYMBOL 190 \f "Symbol" \s 12¾ Che si è mai negato a Nerina? ¾ Chi si è mai sognato di negar nulla ai suoi capricci infiniti? Anzi questa fu appunto la sua rovina, e la rovina di quanti caddero come bolidi nella sua orbita capricciosa... Fu proprio il concedere tutto ai suoi capricci, l'origine dei suoi guai e dei guai del prossimo e quanti!... Sì questa e non altra si è la chiave del femminismo naturale... Proprio così! Lo stesso femminismo artificiale che si agita per emancipare la donna, alla fin dei conti serve a frenarne i capricci, ottenendole un maggior diritto al lavoro ossia un maggior diritto a doveri insoliti faticosi, fino a produrre dal sesso gentile un terzo sesso, neutro, come le api operaie e sterilizzato come il cotone medicinale. È il sesso ora detto ingombrante dai lavoratori maschi, che si vedono muovere una concorrenza terribile dalla moda delle donne lavoratrici, il cui krumiraggio si estende oramai senza eccezioni: professoresse, avvocatesse, medichesse, banchiere, impiegate postelegrafiche, telefoniste, ferroviere, tramviere, cocchiere, ed anche ciabattine ed anche lustrascarpe di piazza... e grandi elettrici...

Prima del femminismo artificiale la donna aveva soltanto la condanna biblica di partorire con dolore, mentre l'uomo lavorava sudando per il sostentamento di lei e dei marmocchi. Oltre le incombenze domestiche delle massaie, le donne erano già bifolche in campagna, specialmente zappatrici e restrellatrici in pianura, somiere in montagna.

C'era bensì qui a Torino il gaietto sciame delle modiste, sartine e crestaine, caccia prelibata di noi studenti universitarii, e a Parigi le bellezze statuarie ed articolate già servivano da manichini e provini di abbigliamenti nei grandi magazzini di moda.

Quando non c'era ancora il femminismo artificiale, c'era pure il patriottismo a convergere l'erotismo, la pedagogia sessuale nell'amore della patria, a servizio del risorgimento nazionale. Splendido modello la Belgioioso, principessa rivoluzionaria, la teatrale principessa errante, inseguì sempre attraverso il mondo nel bene e nel male un ideale di grandezza e di bellezza, ma con la mira alla liberazione dell'Italia nostra. Essa mise il fascino della sua bellezza a vantaggio del più caldo ed evoluto patriottismo. Essa non adottò i ricevimenti della corruttela napoleonica, dell'alto e del basso impero, in cui era nata e cresciuta: i ricevimenti in costume di Adamo ed Eva; ma il suo salotto a Parigi era tappezzato di velluto scuro con stelle d'argento, come una camera ardente per la bara della madre patria, di cui si fomentava, si invocava, si aspettava la risurrezione. Diafana, spetrale, acquistava, come la Sanseverina dello Stendhal, una vigorezza di Diana cacciatrice con la voluttà di Venere.

Ed essa invischiava, corbellava, cacciava gli amanti per il bene inseparabile della libertà e della Patria.

Ciò aveva senza dubbio i suoi inconvenienti. Si notò che la Principessa, durante l'assedio di Roma, curando amorosamente negli ospedali i feriti, dava loro la recrudescenza della febbre.

Uno dei maggiori inconvenienti verificatisi nel sistema erotico patriottico della mirabile principessa è stato quello di dimenticare nella foga di una fuga politica un medico ammiratore chiuso in una guardaroba della villa, dove si scoperse lo scheletro rannicchiato, circa vent'anni dopo.

Ma infinitamente più gravi e più deplorevoli appaiono gli inconvenienti della voluttà capricciosa, sbrigliata, senza amore di patria e di umanità, senza consacrazione intellettuale, apostolica, laboriosa...

Cotesta voluttà incriminata crea vittime più numerose e più compassionevoli senza paragone...»

 

* * *

 

A questo punto della meditazione sul femminismo naturale e sul femminismo artificiale, la serva padrona venne a vedere, che cosa il suo avvocato faceva sul balcone, dove non poteva più leggere: e si accorse per lui, che a rimanere così in manica di camicia alla serena c'era da pigliarsi un raffreddore anche nel forte del ferragosto.

Inforcatagli la giacca dalla serva padrona, e ricaricata e riaccesa la pipa col fiammifero da lei offertole, egli la allontanò mandandola ad inaffiare i peperoni e il prezzemolo nell'orto; e si attardò sul balcone per proseguire le meditazioni nella contemplazione del cielo, che gli offriva un magnifico stellato; uno sparpaglio, un seminio, qua un gremio, una racchetta, più in un trapezio, ed altre geometrie di scintille (che rappresentavano globi immensi) sopra un velluto di azzurro carico profondo ancora qua e garzato di nubi bianchiccie... e trasparenti... A un tratto una stella cadente come un razzo gli raffigurò la carriera di Nerina, la filza dei suoi capricci, che filava giù a perdersi nell'abisso... Ed egli con l'acredine misogina, antifemminista del Nevizzano giureconsulto castigato e del Nietzsche filosofo impazzito si pose a sgranare quel rosario pungente.

Dalla contemplazione del cielo il suo sguardo si abbassava a scrutare l'illuminazione di Torino, su cui era filata la stella cadente di Nerina. Ed in ogni lume egli vedeva dantescamente bruciare un capriccio di lei.

Due fanali elettrici, che parevano riverberarsi i loro raggi ostilmente, erano per lui le anime delle due maggiori vittime di Nerina, dopo il padre: ¾ Adriano Meraldi e Federico De Ritz.

De Ritz e Meraldi si erano bastonati orribilmente sulle teste al Cancello del Santo Oblio; e non si erano punto dimenticati. Rottasi mutuamente la cappadocia per i capricci di Nerina, staccati, destinati a distinte lontane agonie, l'uno al Castello di Ripafratta, l'altro al borgo natio di S. Gerolamo... Pure per la bramosia della loro invidiata Nerina, quelle teste ancora si beccavano lontanamente, come due dannati nella gelatina dell'inferno dantesco.

«Come due becchi cozzan insieme» novelli Alessandro e Napoleone conti di Manzona. Si era rinnovata la pugna mentale fino all'estinzione delle loro vite... Tanto era inestinguibile la sete dell'amore di Nerina. E nella loro pugna pindarica «e forti nervi e nel pugnar crescenti» in mutua orrenda strage psicologica...

Ed ora che sono da gran tempo spirati entrambi, ecco in quei due fari elettrici l'immagine della loro pira di nuovi Eteocle e Polinice, in cui le fiamme cigolando si spartiscono in segno d'una pretesa d'odio immortale, che Domine Dio faccia cessare...

L'avvocato Gioiazza ricapitola le morti di Federico De Ritz e di Adriano Meraldi.

Federico De Ritz aveva potuto evadere dal suo castello di Ripafratta.

Adriano Meraldi non lo si poté smuovere da S. Gerolamo.

I suoi genitori erano finiti di crepacuore, a forza di sentirlo esclamare, che egli era cassé.

La maldicenza villana sospettò, che egli si fosse finto perdutamente ammalato per goderne più presto la eredità. Invece egli sentì l'orrore della solitudine aggravato dal rimorso di avere, sia pure involontariamente, amareggiata la fine di papà e mamma, che avrebbero volontieri sacrificato cento delle loro vite per allietargli e prolungargli la sua.

Lo strofanto più non giovava a rianimargli l'attività del cuore.

Egli si sentiva irremissibilmente deperire, senza velleità di rimediarvi... Piuttosto avrebbe voluto raccorciare violentamente quell'agonia... Ma lo spauriva il pensiero del suicidio nel luogo natio, dando di sé vista afrosa ai suoi compaesani, che lo avevano visto nascere e crescere bellin e suscitando commenti di previsione raccapricciante.

Avrebbe preferito essere assassinato di notte in una foresta africana, e sepolto di nascosto nel seno vivente di una grande pianta di baobab, a cui avrebbe dato succhi e foglie... O gettarsi dalla alta prora di una nave nel mare profondo nutrimento dei pesci... Ma non si sentiva la forza di viaggiare neppure sino a Genova... Lo tratteneva la mania carceriera cellulare, l'orrore dello spazio viatorio.

Meglio meglio ancora, se fosse rapito in cielo come un profeta della Bibbia!

Intanto sulla terra di S. Gerolamo gli rimaneva unica custode la vecchia Cecchina, la fantesca, che lo aveva portato in braccio da bambino... Ed ora si provasse a portare quel cadavere grasso annacquato... Ma la vecchia Cecchina non accettava più lo scherzo, neppure macabro. Essa era divenuta asciutta, di poche parole, come se l'innata bontà e l'antica devozione familiare fossero state corrose, slavate dalle teorie invadenti del socialismo dissocievole.

Migliore compagnia tenevano al volontario coatto un gattino ed un verdone. Egli si credette un Mazzini, quando riuscì ad ottenere che verdone e gattino mangiassero insieme fraternamente nello stesso piattello.

Omne tulit punctum, gli pare di toccare il cielo con il dito, allorché si crogiola, si appisola dentro il seggiolone, lasciando il gatto assiso come una sfinge sulle ginocchia di lui, e sentendo il rantolio delle sue fusa lusinghiere, mentre il verdone appollajatosi sopra una spalla di lui gli manda al vicino orecchio un sentore di vigilanza geniale, protettrice.

Ma una trista notte di febbraio, il gatto divenuto gattone, andando lontano in gattogna, venne ghermito in un laccio malandrino, e finito a mazzate, nonostante le più rabbiose e lamentose ed alte proteste dei suoi gnaulati, quindi venne macerato in una roggia, infine mangiato come lepre in un baccanale di lurida osteria.

Senza il micio, anche il verdone gli pareva spaesato, distratto, smarrito. Inutilmente Meraldi gli rivolgeva la parola:

¾ Verdone, o verdone, cugino primo dei canarini e cugino secondo dei cardellini, quando io era studente a Torino, vidi, ammirai un tuo collega, un antenato della tua specie in piazza Castello, addomesticato a tirare l'oroscopo, il pianeta della sorte dalla gabbia sotto il comando di un vecchio leggendario bagattelliere, che si diceva essere stato il misterioso uccisore del filosofo Rosmini a Stresa... Verdone, o verdone, quale prossima sorte mi è riservata, mi attende?

Ora quasi lo crucciava smaniosamente la voluta dimenticanza del mondo. Questa dimenticanza pare maravigliosa e non è punto maravigliosa né anche per chi abbia goduto di una celebrità europea. Le centurie dei malevoli e specialmente degli invidiosi e più specialmente dei giovani anelanti ad usurpare il posto dei ritirati dalla scena, aiutano a perfezione di riuscita l'impresa della volontaria dimenticanza. Riescono sempre prodigiosamente codeste congiure dell'avido rapace silenzio, salvo il soprassalto di un risveglio, quando si sente che un uomo già celebre è spirato definitivamente. Allora è un esclamare compunto unanime: «Credevamo che da un pezzo egli fosse nel Pantheon dei trapassati

Ma più che l'isolamento dagli altri, più che il non ricevere visita o lettera veruna, tormentava Meraldi la coscienza della sua cresciuta impotenza cerebrale. La grafofobia non gli consentiva più di scrivere due righe. Pazienza! Egli si comandava pazienza, asciugandosi la fronte. Ma quando accintosi a leggere mezza pagina dei Miei tempi di Brofferio, così allegramente limpidi, e facilmente scorrevoli ed a lui familiari fin dai banchi della scuola, si accorse che non ne capiva buccicata, egli diede in un rovescio di pianto amaro, disperato.

Nulla rende maggiormente spaurito, fuggiasco il letterato, che il leggere due righe e non riuscire più a comprenderle.

Allora Adriano Meraldi deliberò di finirla senza più. Andò a togliere dal secreto armadio della sua camera da letto un pistolone, già di suo padre, un pistolone, che da tempo egli aveva accuratamente caricato; ne alzò il cane, esaminò la capsula pronta lucente.

Rientrò sprangato nello studio, e per un istante posò l'arma sul vocabolario già inutilmente aperto per ricominciare una vita studiosa. Ora egli ha stabilito che lo studio sia il teatro della sua tragica fine. Ma prima volle ancora salutare la stanza, dove erano morti per lui i suoi ottimi genitori. Quivi si inginocchiò, pregò, pianse le sue lacrime più calde e rimordenti. Quindi, come se compisse in sé una vendetta di Nerina, ritornò risolutamente nel suo ufficio con gli occhi luminosi e ciechi. Brandì il pistolone, fece scattare replicatamente il grilletto, che ripetutamente gli rispose cecca.

Egli si ostinava, senza esame, nella risoluzione dello sparo, quando alla nuova cilecca del colpo, sentì rispondere di fuori un gorgheggio, quasi un risolino festante trionfale. Si affacciò alla veranda e vide sulla banderuola del pinacolo il verdone che accompagnava ad ali larghe il suo canto. Esso come sapesse di salvare il suo scosso amico dalla grossa bestialità di un suicidio, saltabeccando incolume aveva svelta la capsula dal cane della pistola, ed era volato con la formidabile preda, che gli luccicava nel becco, ad una gronda, aveva lasciato cadere il fulminante micidiale in una tinozza quasi trasparente di lisciva innocua. Quindi era volato sulla banderuola del pinacolo a cantare giustamente vittoria. Quel gorgheggio suonava un incoraggiamento, un saluto alla vita di Adriano.

Il salvato Meraldi guardò con occhio di commozione tra il rimprovero e la riconoscenza il suo piccolo salvatore. Ed il verdone gli rivolava amichevolmente sulla spalla destra, beccandogli dolcemente il lobo dell'orecchio, come per trasfondergli un'elettricità di vita nuova.

Disavvedutamente tre giorni dopo, Adriano Meraldi, chiudendo dietro sé l'uscio dello studio, schiacciava il suo piccolo salvatore. L'ultimo gemito dello schiacciato parve gelargli tutto il sangue nelle vene. Raccolse tra le palme trepide quel cadaverino caldo, allungato, dagli occhietti pungenti, a cui avrebbe voluto ridare l'anelito con tutto il soffio della propria residua vita.

Lo seppellì in un vaso di fiori. Dopo allora il mondo vivente cessò assolutamente dall'avere qualsiasi attrattiva per lui. Inutilmente per lui alle bieche giornate del rigido inverno succedeva il sole... Egli più non sentiva la beneficenza dei raggi solari sulle guancie, mentre l'erba bianca cristallina dei prati pareva luccicare festosamente al sole rinato. Inutilmente la luna suscitava nelle brine il scintillio vivace delle gemme...

Egli pensò, ripensò, aspirò unico rimedio, l'alta nebulosa ogiva del vecchio ponte sulla Gerolamia. Ed egli che vent'anni prima era accorso ad impedire il tonfo di Spirito Losati precipite nel rapido fiume, egli che ora smaniava di sfuggire ad una esposizione mortuaria, fu rinvenuto nel torrente gelato, cadavere in vetrina.

 

* * *

 

L'avv. Gioiazza riandò più brevemente la fine di Federico De Ritz, attesa la incertezza delle sue straordinarie finali vicende. Si disse nientemeno, che il biondo garibaldino italiano oriundo tedesco annerisse guerreggiando fra le fila degli Zulu, e fosse desso lo scagliatore della zagaglia, che trafisse il principe Eugenio Napoleone cantato dal Carducci.

Alla sua volta egli procombeva eroicamente difendendo la libertà dei Boeri contra gli stessi Inglesi, mentre, se non fosse stato il vituperio di Nerina, avrebbe potuto perdurare e finire eroe della virtù italiana.

Naturalmente il padre di Federico, barone... e la madre signora Ninfa nata Amasole morirono di morte accelerata dallo accoramento per la scomparsa di quel tesoro unico di figlio.

Gioiazza crede di vederne i lumi... penosamente agitati.

Altri lumi gli rischiarano la certezza di altre vittime direttamente o indirettamente causate da Nerina.

Riffola, uno dei primi amanti di frodo della tota e della contessa, finì giustiziato con la sedia elettrica nel Colorado degli Stati Uniti d'America.

Il marchese Stefanina, nelle cui sale Federico De Ritz era stato presentato a Tota Nerina, andò a Terracina, ossia in bolletta.

Si direbbe che il contatto di Nerina abbia portato a tutti la iettatura... Così narrano quei lumi alla contemplazione di Gioiazza...

Ecco il Santo lume di Suora Crocifissa, strappata per il subbuglio della Contessa alla Provvidenza del Santo Oblio... Eccola spenta carbonizzata nell'incendio di un cinematografo di Parigi, dove aiutata da un cuoco eroe aveva salvate parecchie vite da certa morte, mentre giovani visconti eredi delle Crociate calpestavano donne cadute, le calpestavano per salvare la propria pelle. Come guizza ora il lume di Suor Crocifissa spenta eroicamente!

Il reverendo socio di Suor Crocifissa nelle fondazioni caritatevoli, canonico Giunipero, detto anche Puerperio, a detta dell'avvocato Gioiazza, morì di parto, dopo che il Tribunale Civile in sede commerciale dichiarava il fallimento della sua appena sbocciata Società Alimentare delle misere lattanti.

¾ Questo è un lume ben grosso! ¾ continuava nelle sue osservazioni l'avvocato Gioiazza additandolo a se stesso: ¾ Sono certo di non errare attribuendolo a Monsignor Pettorali arcidiacono della Basilica Metropolitana di Trentacelle, quegli che dichiarava apertamente preferire a un cardinale papabile una badessa palpabile... Ebbene si dice, che anch'egli per una saggiatura di Nerina spinta all'indigestione, sia rimasto soffocato nella sua obesità rosea pallida.

Invece Evasio Frappa, il caustico bozzettista dell'Eco di Trentacelle, dopo essersi scapriccito con Nerina vuolsi strozzato, bruciato da una congestione nera. Che schizzi satirici il suo lume!

Persino la perla degli amici del Mezzogiorno, Cristiano della Monaca, già studioso ingenuo, poi professore, in cui la grande scienza si combinava colla grande modestia, dopo avere conosciuto biblicamente Nerina, cambiò carattere e connotati. Da chiaro alienista diventò poco per volta un oscuro alienato. Vantavasi di aver curato il nervosismo delle più cospicue signore d'Italia e d'Europa e d'America, e proclamava superiore alle presidentesse, alle regine e alle imperatrici, proclamava la Contessa De Ritz. Ed egli era l'uomo superiore, il superuomo più sprezzante di questo mondo. Non riconosceva supremazia altrui in nessun genere. Non parliamo della sua scienza. Ma se egli avesse voluto fare il letterato, l'artista e l'uomo politico, sarebbe stato il primo letterato, il primo artista, il primo statista dell'orbe terracqueo e della Storia universale.

Cadde pedestremente ammalato. Avrebbe avuto bisogno di un servo infermiere, che gli fosse familiare sostegno. Non trovò Carlino il domestico toccasana romantizzato da Giovanni Ruffini. Inciampò in una portinaia, rassomigliante fisicamente e moralmente a una scimmia, una forca di scimmia come la donna satirizzata da Simonide. La fece sua e ne divenne schiavo da catena. Avviso al lettore ed anche all'osservatore dell'illuminazione.

Una vera scimmia chimpanzè dal balcone di un vicino lo scherniva con lazzi petulanti e sforacchianti. Egli la uccise con una schioppettata, dicendole: «Prega per me!» Venne dichiarato pazzo. Così l'alienista alienato terminò con il peggiore morbo in una casa cosidetta di salute.

L'avvocato Gioiazza non si stancava di applicare nomi di persone vissute e defunte a quei filari di luci, a quei viali di lumi, a quello zodiaco di fiammelle, che componevano l'illuminazione notturna di Torino. Quel formicaio di faville sono le vittime disperse del Santo Oblio, sono le schiave bianche costrette alla prostituzione dai Regolamenti dei paesi liberi e civili. Qua e in quei lumicini Gioiazza scorge un monaco greco strangolato, un papuasso turco impalato, una Suora Levantina morta naufraga con Suora Ermellina Diotamo, e con Padre Equoreo e con Franco Massi, parecchi cantori dalla voce squarciata e varii pittori dalla tavolozza infranta, un hidalgo piegato a ciabattino, un vegetariano scarnificato, un principe russo annichilito... In quel lanternone veggo la fu squarquoia pretoressa Frusoli svolazzante come falena, evanescente come festuca da fuoco di paglia!... Tutte conoscenze di Nerina...

Quanti lumi! Tante vittime! Che visibilio di perduta gente. E nessun lanternino si salva in questo naufragio di lanterna magica?

Unici salvi dal naufragio dei Capricci di Nerina le coppie dei Losati e degli Svolazzini, che credettero una cosa seria l'amore e affermarono la loro fede con il matrimonio. Unici rimasti ritti nel generale abbattimento Svembaldo e Gilda perché avevano tenuto fede al proprio amore; Spirito e Lorenzina, perché questa imperterrita aveva perdonato ad un amore alieno del marito ed aveva ricondotto lui alla fede coniugale.

Di vero il barone ing.re Svembaldo Svolazzini ha la più alta e meritata fortuna con la costruzione delle locomotive a vapore e dei vagoni ferroviarii, rendendone l'industria nazionale quasi sovrana, mentre prima era tributaria omninamente all'estero. Il barone Svembaldo figlio è già succeduto al barone Rollone padre nel Senato del Regno. La giovine baronessa, leggendo una gentile novella di Nino Pettinati, concepì il gentile pensiero, che suo marito designasse e facesse costruire per la vecchia baronessa madre emiplegica un vagone appositamente imbottito e adobbato... quasi su misura. Ora la austera semiparalitica ancora desiosa di mobilitazione se ne serve quasi a delizia, facendosi trasportare dalla villa di San Gerolamo alle Officine di San Pier d'Arena, e a Roma per i ricevimenti Vaticani e per le Sedute Reali del Parlamento e dei Lincei. Onde la vecchia già orgogliosa ed inesorabile ora benedice teneramente al figlio e alla nuora.

Il professore Spirito Losati già vide celebrarsi il proprio giubileo cattedratico con targa, medaglione, medaglietta, pergamena, album di autografi illustri e di sottoscrizioni popolari, banchetto e marcia musicale espressamente per lui composta dal compositore Maestro organista Massimo Bonario. Si dice pure prossima la sua chiamata all'alto ed augusto consesso dei Senatori. La consorte del cattedratico, anziché ampliarsi come una cattedrale, si rimpiccolisce e si mostra umile in tanta gloria ed accarezza con un profumo di santa massaia operosa il marito, i figli, non che il vecchio papaloto, macellaio emerito.

Quindi conclusione indeclinabile: principale, se non unica, felicità sulla terra è l'amore reso divino ossia congiunto ai doveri e senza capricci.

Ed egli Gioiazza? Egli, che predica così bene, razzola forse male? Facendo uno spregiudicato esame di coscienza, egli crede di avere adottato questo programma, questa filosofia della vita: essere sempre tollerante, e possibilmente irreprensibile, tenendo fermi i seguenti capisaldi: onore, dovere, riconoscenza, proporzionalità, e sopratutto amore; per la proporzionalità trattare le pie monache come pie monache e non come dissolute sgualdrine; trattare le dissolute sgualdrine come dissolute sgualdrine e non come pie monache, e così nel termini medi restare equanimi; per l'amore massimamente del prossimo, fare tutto il bene che si può, non fare mai del male a nessuno, non fare mai ingiustamente soffrire alcuna creatura...

¾ Ma, dico, padre Zappata, che predica così bene, praticamente come razzola...?

L'avvocato Ilarione Gioiazza, nel difendere la sua condotta davanti se stesso, ha l'ilare coraggio di paragonarsi al Padre della Patria. Sì per giustificare il suo faux menage, la sua vita domestica more uxorio con Quagliastra, ha l'ardimento di riferirsi all'esempio del Gran Re Liberatore, che nell'amore relativamente libero, predilesse come raggio della Natura, figlia o nipote divina, la forma e la psiche popolare. Gli è vero che Vittorione, dopo aver sposata morganaticamente una piacentissima tamburina, sentendo che l'Altezza Reale di un suo augusto cugino faceva lo stesso con una ballerina, sentenziò in un eccesso di autocritica scherzosa, fino a tradurre dialettalmente un verbo plebeo di Dante: Casa d'le Crossade a l'è ampus...asse pa' mal! Ma è pur verissimo che papà Vittorio, il Gran Re finì vittorioso a Roma, mentre il piccolo Napoleone, imperatore curvo al lecchezzo delle superbe dame, venne abbattuto, spazzato via da una delle più sonore batoste storiche...

¾ Ma, ¾ ripiglia ¾ padre Zappata, hai forse seguito, per quanto ti fosse possibile, l'esempio morganatico del Gran Re?

¾ Comprendo, ¾ rispondeva a se stesso, sdoppiandosi psicologicamente l'avvocato ¾ comprendo ed apprezzo il tuo sospetto, comprendo e sento la tua gelosia quasi lancinante per le testarde premure della tua serva padrona verso il giovane ortolano, benché Miclìn si mostri teco estremamente servizievole con un'aria da santificetur e con un profilo di San Luigi Gonzaga.

¾ Insomma chi conterà la fine di un capriccio di Gioiazza? Lo conterà la sua serva padrona ed ereditiera? Per ora l'avvocato Gioiazza, constatando che non è possibile restaurare il concubinato nella presente civiltà giuridica, presagisce, che egli finirà con lo sposare Quagliastra almeno con il rito religioso, magari licenziando il giovine ortolano, ed assumendo all'irrigazione e alla coltivazione dell'orto un giardiniere stravecchio, o meglio un veterano reduce d'Africa, a cui gli abissini abbiano fatto l'estremo oltraggio, dando gli onori dei cantori della cappella Sistina.

Nell'ultimo sguardo alla illuminazione della sottostante Torino, l'avvocato Gioiazza già si vede, come in uno specchio: salire alla villa, portando la sporta alla cuoca elevata a mogliera, ed aggiungendole cordiali, stimolanti e rispettose facezie per ingraziarsi lei ingrugnata, per feje chitè 'l grugn.

Il purgato spirito di Nerina folgore caduta in un pozzo, risorgerà in alto, in alto, e sorriderà da una stella invisibile al critico contatore dei Capricci per pianoforte.




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