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Giovanni Faldella Donna Folgore IntraText CT - Lettura del testo |
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9 - Alla corte di Assisie
Giunta a questo punto la pubblicazione del presente romanzo a puntate nella Rivista «Lo specchio della vita « il romanziere ricevette parecchie lettere di specchiate e pietose lettrici, che domandavano la grazia della vita per Nerina. «O nostro simpatico scrittore! A Voi non costa niente farla guarire. Risparmiate il più grave rimorso e chi sa quale condanna al padre giustiziere, ed a noi i relativi brividi nell'insonnia». Non mancò al romanziere una visione calmante per le sue gentili lettrici. Se la pistola del Commendatore Vispi fosse stata carica soltanto a polvere, che non avesse fatto palla con lo stoppaccio! Se la detonazione innocua avesse pure avuta la virtù di liberare completamente Nerina dai suoi capricci! O se i capricci le fossero rimasti sovrani, ma indirizzati ad utilità propria o dei suoi cari, per esempio messi a servizio del corpo elettorale di suo marito...! Se l'eroico di lei marito reduce dalla gloria delle patrie battaglie si fosse riconciliato con lei reduce dalle bottiglie di Sciampagna di Mistriss Dell, ed avesse ricuperato in lei il più prezioso sostegno per la saldezza del suo trono politico ed amministrativo!... Se essa inchiodando al suo carro vittorioso i più influenti elettori, ne fosse divenuta la sacerdotessa e la divinità mitologica. Eccola dessa intronizzata per un banchetto elettorale... Come un ladrone emerito il Barbarò del Rovetta si congelava ed erigeva un monumento cristallino con le lacrime del prossimo, così la nostra Nerina, Barbarò in gonnella, con tutta la possa delle sue atmosfere amorose si calcherà un monumento adamantino delle lacrime squisite di amanti. Ecco: si cerca una sala ampia e storica per il banchetto del trionfo elettorale; e si giudica abbastanza ampio e storico il teatro filodrammatico, insediandovisi nell'unico palco la signora Barbarò, pardon Contessa De Ritz Ecatomfila. La si adora come un idolo. Non conta, telum imbelle, sine ictu, dirà Spirito Losati, l'orrendo bisticcio degli avversarii politici ed amministrativi, che la raffigurano giovenca ingrassata dal latte bevuto ai più influenti elettori, membri insigni di Corpi deliberativi... Ogni malignità scompare nell'incenso dei turiboli. Massimo incensatore è il Cancelliere vecchio ruffiano, che leggendo il discorso intacca nei numeri scritti in cifra, e irresoluto a pronunciarli in Italiano, li dice in dialetto: ¾ Così il Consiglio Comunale nella memorabile tornata del diset novembre milaotsentstantaset dichiarava, proclamava l'inclita patrona contessa Nerina De Ritz, cittadina onoraria di Ripafratta e benemerita della Salute Pubblica. Alla Salute della nostra Madonna della Salute! Il Cancelliere dell'eroico brindisi sarà meritamente promosso dalla quarta alla terza categoria. Si potrebbe imitare il finale zoliano dell'emerita tenente casini, che termina venerata in una pieve di provincia, invitando il pievano a pranzo, e fornendogli piviali e baldacchini broccati e frangiati d'oro. Che magnifico titolo per l'ultimo capitolo del romanzo: La nostra Augusta Signora di Ripafratta. Ma oltre Ripafratta la Contessa divenuta vedova (di quanti?) e principalmente del suo legittimo marito, potrebbe riscattare dal nuovo acquisitore Israelita il Convento del Sant'Oblio. Essa eroina, principale beneficiata della pubblica dimenticanza voluta o naturale essa lo restituirà benefica e grata al pubblico benefattore canonico Puerperio, ossia Giunipero, che rivalendosi dell'opera angelica di Suor Crocifissa rediviva fonderà un nuovo sanatorio morale con annessa cura dell'uva. Sul poggio più alto e brullo sovrastante alla valle del Sant'Oblio Nerina farà fabbricare una villa sontuosa munita di osservatorio astronomico e cappella eremitica. Un licenziato ginnasiale, lattonzolo ammiratore dell'ottuagenaria bellezza di questa nuova Ninon de Lenclos fornirà l'iscrizione:
Su questo colle vergine di cultura umana la Canuta Contessa De Ritz- Vispi innalzò questa villa nomandola del suo nome Nerina ma votandola al verde della speranza alla fiamma degli affetti nell'azzurro dei Cieli.
Il canonico Puerperio, cioè Giunipero, aggiungerà: Pie viator SYMBOL 190 \f "Symbol" \s 12¾ Tibi omnia candida eveniant: non senza mormorare intimamente: Titulum publicae hilaritatis testem! Un archeologo arricchirà la nuova villa di un ricordo storico, facendola sorgere sui ruderi di una supposta villa dell'imperatore Elvio Pertinace qui otio senectutis SYMBOL 190 \f "Symbol" \s 12¾ recessum non procul a patria SYMBOL 190 \f "Symbol" \s 12¾ parabat SYMBOL 190 \f "Symbol" \s 12¾ Fortitudine et celsitudine. Un romantico farà graffire sopra un sasso un motto inglese da Lord Byron, che rintracciava nel passaggio di Orlando innamorato la maggiore potenzialità di amore: All that of love can be... Una spelonca viscida come una boula (stagno monferrino) imiterà la miracolosa grotta di Lourdes. Salendo alla villa Nerina, l'ex- tota omonima, godrà ancora il reame del paesaggio. Sia quando, Dea moderna, si serve dell'automobile tra una nube di polvere, che avanza più celere e fragorosa dell'uragano, sia quando procede lemme lemme come una divinità della mitologia rustica sulla barrozza tirata da buoi inghirlandati, vettura cornuta, a lei inoltrata nel secolo XX parrà di assidersi arbitra tra due secoli. Alla prima domenica di Maggio saliranno ogni anno innocenti fanciulle ad offrire uno spettacolo ricreatore per la venerata squarquoia. Presenteranno un ramo di pino sempreverde carico di fronzoli e di fantocci. Dapprima le maggioline confuse e pretendenti agitando l'albero fiorito di figure simboliche ed additandole, canterelleranno con voci frettolose di raganelle scompagne a cominciare dal ritornello:
O ben, o ben, o magg ch'a tourna el meis d'magg! Guardè sì coull'oimo vestì d'rouss La sua menigheta Lo spetta al fond del pouss O ben, o ben ecc.
Guardè sì coull'oimo vestì d'gris La sua menigheta Lo speta an Paradis O ben ecc.
Guardè sì coull'oimo vestì d'bleu La sua menigheta Lo speta fin d'ancheu O ben ecc.
La squarquoia mediterà che i suoi amanti furono più numerosi dei fantocci tricolori; e si allieterà, sentendo dalle birichine (filosofia rudimentale) che l'amorosa è unica ed è sospetta per ironiche interrogazioni sulla provenienza dei donativi ricevuti.
Guardè sì la nostra sposa Se a l'a l'anel 'n t'el dì!... Chi l'avrà donailo? Saralo so marì? O ben ecc.
Guardè sì la nostra sposa Se a l'a l'or al col!... Chi l'avrà donailo? Sarà so confor? O ben ecc.
Qui le voci delle maggioline si faranno più serrate e petulanti nella richiesta zingaresca...
Vi dico, voi, padrona Padrona del polè, Donene j'euvi freschi E j chueuss lasseje ste!
Vi dico, voi, padrona Padrona del Castel, De' man la ciav del cofo E dene un bel bindel.
L'opima contessa farà distribuire copiose strenne; ed allora le maggioline monfrinote inuzzolite come gallinelle d'India, canteranno il finale vieppiù accelerato:
E adess ch'a n'ei pagà Pregouma la Madona C'av mantena sanità: Ma se an dasija gnent Pregavo San Defendent C'av feissa caschè tucc i dent.
La venerabile matrona si rallegrerà per la sicurezza dei suoi denti finti. E quando la vetusta centenaria, ancora venusta, cederà finalmente alla Natura Mortale, il canonico Puerperio, cioè Giunipero, come se essa fosse vissuta sine jurgio con sì numerosi amanti e mariti, le applicherà un altro verso epigrafico del Boucheron strappato alle giuste inferie di un santo arcivescovo: in altissima tranquillitate, pari veneratione decessit. E la sua immagine ringiovanita su pala d'altare ritornerà venerabile nel pubblico, come quella di Cunizza dai multipli maritaggi ed amori imparadisata da Dante nel Cielo di Venere, se il romanziere svolgerà l'ipotesi accarezzata dalle gentili lettrici di appendice, che Nerina non sia perita per il colpo paterno.
* * *
Ma per quanto il romanziere sia deferente alle specchiate e pietose lettrici, la verità inesorabile è questa: Nerina morì sul colpo, deponendo speriamo, in grembo all'Infinita Misericordia di Dio, col sacrifizio obbligato e volontario della sua vita, l'ultimo dei suoi innumerevoli Capricci per pianoforte. Il padre, che per la sacra orribilità del suo delitto niuno pensò di arrestare, si costituì da se stesso in carcere; e contro a lui venne iniziato e condotto a termine un facile e breve processo. Difensore fu l'avv. prof. Gioiazza. Presidente della Corte d'Assisie il conte Carlo Dounon. Egli adunava con raro connubio la maestà all'arguzia; si radicava sul seggiolone presidenziale come una montagna. Il Pubblico Ministero era rappresentato dal Sost. Proc. Gener. cav. Simplicio Semplicisti, il quale rappresentava principalmente la scarsità dell'eloquenza nelle procure del Re, dove l'eloquenza figura oramai come una fonte disseccata, tanto che per farvene rifluire qualche rivo si reclutarono procuratori del Re anche fra i tribuni degli scioperi di cocchieri. Due giudici astanti, autorizzati dalla consuetudine a dormire, a fabbricare oche di carta, o sporcare di fanciulleschi disegni il banco, erano un nobile napolitano di famiglia borbonica e già lui stesso magistrato borbonico, il barone Gennaro Lo Iodice, e il marchese Chablery, uno schietto discendente della feudalità subalpina, i cui campioni trattavano pregiando la spada e disdegnavano la penna, fino a crocesignarsi illetterati perché nobili. A farlo apposta quei due giudici si erano trovati il giorno innanzi insieme nel Tribunale Correzionale a giudicare una querela di ingiurie e diffamazione grave data da un deputato a un giornalista, perché questi aveva messo in dubbio la sua coerenza politica e la sua originalità letteraria. Nel ruolo delle Assisie il processo De Ritz era stato preceduto da un processo di duello mortale, in cui un mascalzone spadaccino, veterano delle patrie bottiglie, abusando della sua bravura nel tirare di spada, per far onta ad un suo avversario, veterano sciancato delle patrie battaglie, gli aveva fatto rubare da un servo infedele lettere compromettenti di una signora, e per ristoro nella sua fierezza di cavalleria leggiera gli aveva accordata una partita d'armi, non d'onore. Lo spadaccino bravaccio infilzando il sofferente sciancato, aveva ammazzato un uomo morto quasi come fece Maramaldo col Ferruccio. Pertanto la Giustizia Umana a forza di attenuanti e discriminanti trovò modo di saldare la partita con un po' di onorato confine al birbante. Il pubblico, specialmente femminile, che aveva molto gustato il processo del duello, si riprometteva una variante di emozioni squisite dal processo di parricidio, o meglio figlicidio De Ritz. Poco mancò che la varietà dello spettacolo si riducesse al cambiamento della difesa e della giuria nella quale ultima il cambiamento era più di persone, che di classi sociali, predominando sempre i geometri e maestri elementari cittadini e foresi! Benedetti i cittadini che non erano costretti a dormire e a sfamarsi all'albergo per 4 lire al giorno! Il resto dello spettacolo si minacciò di sottrarre al pubblico. L'avv. Ilarione Gioiazza, che nonostante il suo temperamento di Democritus ridens, si sentiva investito da pudibonda malinconia, aveva fatto osservare al Pubblico Ministero, che era il caso richiedesse il dibattimento a porte chiuse. L'avv. fiscale Semplicisti ne fece la richiesta con uno sbadiglio. Ma i due giudici della Corte, che avevano promesso a due curiosissime signore la pubblicità, premettero sulla volontà del Presidente. Il quale si rivalse con una bottata: ¾ La Corte, a maggioranza, non ha rilevato a priori gli estremi indicati dall'art. 268 del Cod. di Procedura Penale per il dibattimento segreto, attesa la natura del reato. Ma per il luogo, in cui venne commesso, in processo di causa la pubblicità potrebbe farsi pericolosa alla morale; onde fin d'ora prego le signore oneste a voler uscire. Nessuna si vide lasciare la Tribuna del pubblico. Quindi il presidente: ¾ Ed ora che le signore oneste sono uscite, principiamo il dibattimento. Allo squillo del campanello Presidenziale il comm. Vispi erigendosi tra due carabinieri nella gabbia degli imputati di fronte ai giurati sentì un tremito al cuore coriaceo, come se avesse sentita la campanella del Santissimo. Rispondendo all'interrogatorio del Presidente, declinate le generalità, egli ammise, confessò di avere uccisa sua figlia precisamente nelle circostanze delineate nell'atto accusatorio. Perciò riteneva inutile la sfilata dei testi di accusa. Testimoni a difesa non ne aveva voluto nessuno. I giurati sul loro onore e sulla loro coscienza lo condannassero pure. La Corte applicasse la pena contemplata dalla legge. Niuna pena gli si potrebbe infliggere più atroce di quelle che gli fece soffrire la figlia maledetta, a cui confida la Misericordia Divina vorrà perdonare insieme a lui. La montagna del Presidente manifestò una scossa di terremoto, precursore di eruzione vulcanica. Frenandosi, si rivolse ai giurati, e lesse loro la formola di giuramento: «Voi giurate, consapevoli dell'importanza morale del giuramento, e del vincolo religioso che i credenti con esso contraggono dinnanzi a Dio; di esaminare con la più scrupolosa attenzione le accuse fatte al signor Comm. Vispi Atanasio; di non tradire i diritti dell'accusato, né quelli della Società che lo accusa» con quel che segue. I giurati giurarono ad uno ad uno. Indi il presidente si rivolse al Commendatore della gabbia: ¾ Voi, accusato, nel rispondere al precedente interrogatorio avete dimostrato di conoscere assai bene il tenore dell'accusa. Cionondimeno a tenore di legge vi avverto di stare attento a ciò che sarete per udire. Il Cancelliere, che a tenore di legge dovrebbe leggere almeno con voce baritonale la sentenza di rinvio dell'accusato davante la Corte e l'atto di accusa, eseguisce la lettura con quell'accento imbrogliato di masticafave, che si direbbe specialità di tali funzionarii. Il presidente, dopo la succinta spiegazione dell'atto di accusa impostagli dalla legge, dice all'accusato le parole sacramentali: ¾ Ecco di che siete accusato; ora sentirete le prove, che si hanno contro di Voi. L'accusato con una bocca di pesce fuori d'acqua, stringendo le mani in atto di devozione, e mostrando una prostrazione totale da figura d'ex voto: ¾ Ripeto, che non occorre l'esame dei testimoni. L'avvocato difensore, oramai adusato, catafratto all'arringa forense, risentì uno strano, virgineo effetto della toga frusta sopra i suoi muscoli e i suoi nervi. Gli parve di sentire filtrare, piovere su essi una pioggia di focosa vigoria. E disse vigorosamente: ¾ Evitiamo per l'educazione pubblica, che il postribolo compaia nel tempio della giustizia. Prova fondamentale si è sempre considerata la confessione del reo, per ottenere la quale una volta si ricorreva persino all'orrore della tortura. Ora lungi da simile orrore, abbiamo la confessione spontanea, la quale non perde, anzi acquista valore per la sua spontaneità. È la difesa stessa, che rinuncia ai testimoni; è la difesa stessa, che ne implora l'allontanamento nella fiducia di poter dimostrare l'innocenza dell'imputato anche dalla sua abbondante confessione di colpa. Il rappresentante del Pubblico Ministero con la sua faccia dura e scialba dichiarò che si rimetteva alla saviezza della Corte. I due giudici astanti, assillati dal lubrico interesse di appagare la curiosità di dame procaci, stimolarono il montagnoso presidente, affinché almeno non pretermettesse la rassegna delle testimonianze, tanto che Accusa e Difesa potessero pronunziarsi più maturamente sulle ripulse particolari, non mai generali, essendo la escussione dei testimoni, sia pure nei minimi termini, impreteribile per l'ordine dei dibattimenti prescritto dal Codice di Procedura Penale. Si sentiva lo scalpitio delle cortigiane nel deposito dei testi. Alla chiamata e alla guida dell'usciere, che per la circostanza assunse una cera di ironia pastorale nella sua dignità d'ufficiale giudiziario, esse irruppero dal chiuso come torme ad insolita festa. Ma la loro comparsa fu una diffalta: diffalta dei loro volti, delle loro forme, delle loro carni alla luce solare. Splende come neve intatta il seno di una giovane mamma, che allatti il bambino, nell'incombere della notte, splende come luce bianca fra le dense tenebre. Splendono le gemmee, seriche, merlettate nudità delle Dee e delle Ninfe nei balli di Corte; gonfiano procaci le pompose nudità delle cortigiane nelle loro esposizioni notturne, parodie dei balli di gala, come il vizio è fratello del lusso. Qui invece le carni lussuriose e venali sono quasi tutte coperte. Anche le mani sono inguantate. Le faccie appaiono infunghite dalla cipria, rose, bruciate dalla luce del gas. Il costume e lo scostume sociale, che consentono il trionfo scoperto delle carni femminili nel lusso e nel vizio, fanno fallimento nel tempio della Giustizia, fanno cecca sulle bilancie di Temi. Quasi se ne rallegra il feroce arido rappresentante del Pubblico Ministero. Egli propone di trattenere soltanto la portinaia del Casino di Madama Dell, la quale ha visto entrare ed uscire il comm. Atanasio Vispi, e la cassiera dell'Istituto, a cui egli ha pagato le dieci lire, prezzo di truce infamia; e ciò per assodare l'identità personale del reo confesso. Le altre testi ponno essere licenziate. Così si delibera e si eseguisce. Le testi prostitute escono rumorosamente, polverosamente, come una squadra di innocenti scolare. Si procede all'interrogatorio della portinaia Violante Del Gozzo: una vecchia precoce e maligna dagli occhi scerpellini, una curva trotterellante a mendicare o sgraffignare mancie, labbra putide imprecanti ai soldi invalidi della Grecia e dell'Argentina e alle lire di stagno. Segue l'interrogatorio della nobile cassiera Gentilina Maramei, una rotondità badiale da foca, da orsa baffuta, che riempie tutto il cancello del suo ufficio, e che qui ha uopo di due sedie per allogare la sua testimonianza. Ambedue le testi riconoscono perfettamente l'accusato comm. Vispi nel reo de cuius re agitur, di cui si tratta. Esaurite così le testimonianze, il Presidente dà la parola al Pubblico Ministero. E il sost. Proc. Generale cav. Simplicio Semplicisti si alza duro, lanternuto. Le sue parole sono poche e stentate, ma freccie avvelenate, come se la madre sua nel periodo di gestazione si fosse imbevuta di farmaci velenosi. Egli disse in sostanza: ¾ Non un'arringa, ma una liquidazione sociale, che segue semplicemente l'autoliquidazione dell'accusato. Signori giurati, signori giudici del fatto, avete sentito da lui la piena confessione del reato, che gli si imputa. Il padre ha ucciso la figlia. Questa orrenda novella vi do. E per togliere ogni scrupolo dubitoso, che egli per inverosimile pazzia avesse voluto condannare la propria innocenza, avete sentito le testimonianze irrefutabili della sua identità criminosa. Che altro può richiedere di più la popolare coscienza per l'esercizio dei suoi attributi di giustizia? Niente altro. Alla logica del senso retto può mai presentarsi qualche scusante? Nessuna. Non mancheranno però le parole alla addestrata, e certo, in questo caso, passionale eloquenza dell'onor. difensore. Egli non mancherà di tirare a mano l'antica forza irresistibile e la moderna infermità di mente, o la provocazione a delinquere. Fandonie! Che provocazione d'Egitto! Se la defunta si fosse vista fare atti osceni davanti la magione paterna, si comprenderebbe la discesa del padre all'efferato castigo. Ma essa per il mercimonio del vizio si era costituita in appropriata sede, in recesso legale. Fu il padre, che si mosse senza invito fuorché del proprio pensiero criminoso, da casa sua, si diresse di reo proposito ed entrò nel casino, donde devono rifuggire specialmente gli onesti vegliardi, cui stiano a cuore i casti pensieri della tomba. Il padre consumò risolutamente il parricidio; dico parricidio, perché la legge punitrice avvolge nello stesso sacro orrore i figli, che uccidano i genitori, e i genitori, che ammazzino la prole. Ma l'applicazione della pena è riservata alla Sentenza della Corte. Voi, giudici del fatto, dovete segnare soltanto la piena colpevolezza dell'accusato. Non lasciatevi smuovere dalla lustra, che l'uccisore abbia compito un atto di giustizia paterna. Sarebbe un sommuovere del tutto le basi della Società, la quale ha ragione di leggi ed ufficii soprattutto per togliere l'esercizio della giustizia dall'arbitrio e dalla passione individuale, ed affidarlo a giudici imparziali popolari o togati. Gli è solo, perché in Italia si perde facilmente questo direttivo punto di vista, gli è solo perciò che gli italiani tengono l'ignominioso primato dei delitti di sangue, sia nell'interno, sia all'estero. Farsi ragione da sé è la ragione del suddetto primato poco giobertiano. Confrontate le statistiche del nostro Ministero e quelle di Nuova York; e dovrete convenire che gli italiani indigeni od emigrati sono quotati nella delinquenza sanguinaria più in alto che le altre nazionalità. Per guadagnare nella stima del mondo, gli italiani devono fissarsi in mente: ¾ L'omicidio non può essere giustificato, che dalla necessità della difesa. Lo stesso boja, di reverenda memoria (nel pronunziarne il nome l'oratore della Legge si sberrettò come Carlo V davanti alle forche), lo stesso boja poteva considerarsi un difensore necessario della società. Fuori della necessaria difesa, in ogni altro caso l'omicidio è una mostruosità. Alla mia immeritata riputazione di ferocia consentirete questa nota umana: il primo segno della civiltà di un popolo è il rispetto della vita altrui. Nessun uomo ha diritto sulla vita di una creatura umana. L'onore proprio e quello della propria famiglia non si tutelano con l'assassinio. Atanasio Vispi è indubbiamente assassino, perché ha voluto uccidere ed uccise una donna, la parte più tenera dell'umanità, ha ucciso la propria figlia, ha sparso il sangue del proprio sangue. Più di Caino, sia maledetto da Dio! Voi delegati della Società Umana, voi estratti dal popolo, la cui voce si paragona alla voce di Dio, Voi colpitelo l'assassino con il vostro verdetto di piena inescusabile colpabilità. Il vostro sì unanime lo colpisca come una freccia sibilante. Così dal Tempio della Giustizia ritornerete alle vostre tranquille ed oneste dimore con la coscienza onorata di avere piamente sacrificato alla vindice reintegrazione della Patria Legge e della Società Umana». Sedendosi il rappresentante del Pubblico Ministero, parve lasciare con le sue parole l'atmosfera nera, come nell'aula si fossero schizzati vapori di seppia con puzza asfissiante di carbone cock appena acceso. L'accusato lo applaudì. Il Presidente concede facoltà di parlare all'egregio difensore. L'avvocato Gioiazza si alza, si tira sulle spalle la toga di refrigerio ricostituente; si sente ardere la testa confusa; si passa una mano sulla fronte; ricaccia indietro l'immagine di Capri, la memoria del suo peccato con la Contessa; ricaccia indietro il rimorso e la dolcezza riconoscente di se stesso; ricaccia indietro la sua personalità buffa e peccatrice, per assumere la serietà di un ufficio santo. Ed esordisce ex abrupto: ¾ Ed io accuso Voi, o accusatore, che vorreste fare della Giustizia lo sfogo di un odio legale. Accuso Voi, rappresentante legale della Società. Imperocché dell'uccisione di Nerina De Ritz- Vispi non fu colpevole il padre sacrificatore, non fu colpevole la vittima sacrificata, ma fu colpevole la Società che Voi rappresentate. La dimostrazione dell'asserto noi riportiamo sviluppata autenticamente dal compendio pubblicato in appendice giudiziaria dall'abile pubblicista Curzio Bertone. Questi però non poté accordarvi il consueto epigramma del Baratta, morto allora all'Ospedale Mauriziano per la quercia degli abbattuti viali pubblici cadutagli addosso, morto cantando:
Qual tardo premio del mio lungo canto Un ramoscel d'allor sperai soltanto, Ma la città che il toro ha per bandiera M'incoronò con una quercia intera.
Ecco con la scorta sincrona dell'appendicista giudiziario l'arringa dell'avv. Gioiazza: «La Società è colpevole di produrre e ridurre due esseri antagonisti, di cui l'uno richiede inesorabilmente la propria soppressione dall'altro. Con la pretesa scienza, con gli esempi non meno autorevoli, che deleterii, la Società presente sottrae all'umanità il sentimento religioso, il migliore vincolo, che legava gli esseri verso un ideale sublime di amore e virtù. Vi sono giuristi che ammettono il misticismo tutto al più, come coefficiente, circostanza attenuante, se non discriminante del reato. Un cattivo Clero meccanizzato nella tradizione intransigente di altri tempi, beffeggiando i più puri ideali moderni, incrudelendo contra i morti benemeriti e specialmente contra i martiri della Patria e della libertà, un cattivo Clero, per adoperare una frase di Gladstone, è divenuto negazione di Dio. Unica maestra, unica dispensiera di religione nella Società moderna è la madre, la divinità, che non conta atei. Se a Nerina fanciulla fosse rimasta la bella mammina, ad insegnarle il Vi adoro con le manine giunte, oh molto diversa e migliore sarebbe stata la sua trajettoria sociale! Invece sappiamo che la sua splendida mammina si spense nel darla alla luce. Sappiamo pure che la Maestra Genovieffa Garitti, prima di diventare signora Vispi, era un luminare nel corpo insegnante di Torino, e che ad essa l'accusato consacrò gli unici entusiasmi della sua giovinezza dedita per il resto al lavoro ed al commercio. Pertanto Nerina fu la risultante di una bellezza magistrale e di un entusiasmo sagace, nacque e crebbe con le maggiori potenze fisiologiche e psicologiche per esercitare una tirannia capricciosa. Quella fanciulla fu una tiranna domestica per eccellenza. La relativa compressione subita nel buon Educandato del Soccorso valse soltanto a temprarne e tenderne le forze per gli scatti maggiori. Ritornata in casa del babbo, fece di questo robusto gigante un debole pigmeo; e come aveva reso il babbo schiavo dei suoi capricci, così volle esercitare assolutamente il dominio capriccioso nei varii ambienti sociali fino all'abisso. La Società italiana, dopo le prime vittorie del Risorgimento dovuto in massima parte ai sacrifizii, si era fatta presto materialista gaudente, perdendo la spiritualità religiosa nei dissidii tra Chiesa e Stato. Perciò il tipo dell'eroina patriottica non era più assorbente. Non era ancora di moda fra di noi la dottoressa anglosassone di frigidità e operosità neutra, da terzo sesso di ape operaia. Tanto più lontano era il tipo ginnastico della spartana americanizzata, Fluffy Ruffles, la girl che impera graziosa ed onesta anche nello sport denudato della flirtation. Oh almeno fosse stata viva per lei la galanteria sovrana dei madrigali! Essa avrebbe costretto un poeta Voiture ad inneggiare alle sue calze, avrebbe eccitato un altro poeta ad immaginare che due rosignoli morissero di fascino per il canto, con cui essa accompagnava i suoi capricci per pianoforte. Sarebbe stata circuita in vita e cantata in morte da qualche vescovo di Arcadia. Al pari delle religiose di Port Royal sarebbe venuta su orgogliosa come un demone, ma pura come un angelo. Avrebbe serbato immacolate le nevi rosee del volto, fintanto che si fossero fuse tra le rughe di una vecchiaia intemerata. Ma i tempi non consentivano tale nobiltà e purità di forza e gentilezza. Nella preparazione del nuovo asilo di Romolo, nella nuova conquista di Roma, si affrettarono insieme con gli eroi ideali, non solo i ladri positivi, ma le Messaline lucratrici senza Lucrezia, ed i Cornelii senza virtuose Cornelie madri dei Gracchi.» Con la frequenza dei richiami letterarii l'avv. Gioiazza dimostrava di essersi addottorato in lettere prima che in leggi. Egli seguitava divertendo e stupefacendo letterariamente la Corte, i Giurati, il pubblico, l'ufficiale giudiziario e i carabinieri, e lasciando assorto, impassibile l'accusato, che gremiva sogni, meditazioni e preghiere fatali sotto le ciglia chiuse. «Si potrebbe in qualche parte applicare alla De Ritz ciò che Swimburne applica alla regina Rosmunda, Clitennestra del Medio Evo, ricordante le imperatrici Romane, le quali un dì resero regale la colpa: imperatrice ognuna e ognuna per diritto di peccato prostituta. Ma come l'Italia a Roma per il dissidio religioso non poté trovare il suo perno morale, così la contessa Nerina diede al suo imperialismo erotico la circolazione viatoria, randagia. Essa ebbe gli attributi della Cavalleria errante di un Don Giovanni in gonnella, e di una signora Casanova di Seingalt. Essa volle divenire la superdonna, la regina zingara delle libertine. Come Don Giovanni giocava le donne alle carte, essa giocò gli amanti. Come Don Giovanni si provò a compilare un catalogo delle donne da lui sedotte e dei mariti da lui ingannati e riempitone un volumaccio in folio, lo riscontrò incompleto, così, quando ella avesse divisato noverare i suoi capricci amorosi e tessere l'elenco biografico dei suoi amanti per ordine alfabetico, avrebbe dovuto superare le forze spiegate dall'inclito e chiaro prof. Conte Angelo Degubernatis nei suoi copiosi dizionarii biografici del mondo letterario, artistico, scientifico e politico contemporaneo. Conscia della sua potentissima bellezza, una vera beltà di sogno, pire que belle (alla memoria tragicamente gioconda dell'oratore ritornavano forzosamente le dolcezze di Capri), essa deve avere persino sognato di obbligare il Papa ad ammogliarsi con lei. Ed era pur troppo una bellezza metuenda da tutti. Sul suo blasone poteva scrivere: Cave amantem, guardati se essa ti ama. Poteva paragonarsi alla Venere d'Ille, che amava consumare intera la sua preda.E ppure sì dolce risultava il prodigio della sua bellezza consumata e consumatrice, che penso possa applicarsi a lei l'ardita immagine del poeta Henri de Régnier, secondo cui Elena traghettante l'Acheronte è attesa sull'altra sponda da quanti morirono per lei. Invece di maledirla, con la bocca fioca la acclamano sempre bella.» L'oratore si fermò quasi sudato di quella referenza poetica. Dopo breve pausa proseguì: «Ripigliamo freddamente, dolorosamente il filo del discorso. Io incolpo del vizio viaggiante, raggiante di Nerina il riflesso centrale di Roma peccatrice. Se Nerina attraversò la vita e il mondo, gettando fuoco di amore distruttivo nelle anime, figurando l'estasi devastatrice senza posa, l'aquila carnivora senza rimessione, essa corrisponde al focolare, capitale mondiale di cupidigie, della Roma liberata, ma rimasta con le corruttele di due immense civiltà, onde ebbe per degno organo la Cronaca bizantina del Sommaruga, né tutta la sua barbarie corrotta passò sotto le forche Caudine dello sbarbaro in parte tarlate dall'odioso errore. Come la Corte effeminata di Napoleone III preparò la debacle di Sedan, Dio voglia che l'orgia sensuale della Roma nuova e rinvecchignita non prepari all'Italia un nuovo rovescio nazionale. Eccone intanto un pernicioso singolare effetto in un rovescio individuale di anime, in un rovescio di vite. Nerina fu l'esponente di un momento politico sociale. Senza risparmiarle l'abbominazione, che si meritò, essa è preferibilmente maravigliosa per avere spinta la logica del vizio alle ultime conseguenze. Oso dire che nella pubblica esecrazione essa è preferibile alle illustri fellatrici da locanda e da camera mobiliata, che avvelenano coi sospetti e con le calunnie ogni figura, ogni nome di fanciulla cresciuta pura nel santuario domestico, per impedire ai drudi, agli amanti di maritarsi, e con queste fellonie rimangono alte dame e nei loro alti palazzi si chiamano dame d'onore...» Nuova pausa sudata, dopo la quale l'oratore riprese il filo con un visibile strappo. «Lessi in un recente storico che il carattere di Maria Antonietta veniva così giudicato dalla Madre Maria Teresa: molta leggerezza, molta dissipazione e una grande ostinazione a fare di sua volontà con una grande abilità ad eludere ogni rimostranza. Ciò valse a condurla al patibolo. Lo stesso intervenne relativamente per Nerina. Rimane a spiegare, come giustiziero abbia dovuto essere socialmente suo padre. Emergeva la più assoluta incompatibilità, che coesistessero nel mondo vivente il comm. Atanasio Vispi, e la sua nobile figlia prostituta. Se la Società presente autorizza la prostituzione pubblica d'altra parte essa lasciò intatti tesori di moralità privata. Il comm. Vispi rappresenta cento generazioni di quel medio ceto, in cui la donna è santa, o per lo meno onesta. Vi sono famiglie popolane borghesi, in cui i padri ruberanno, i figli ruberanno, i fratelli ruberanno, trufferanno il prossimo o si minchioneranno magari tra loro stessi con la scaltrezza della fortuna commerciale, o per l'esercizio della proprietà immobiliare. Ma la donna vi permane castamente onesta. Ove in tale famiglia si produca il fenomeno di una donna, che ha per unico programma la Vita Sexualis, senza ritegno di capricci, e può intitolarsi Vita sexualis, come il periodico tedesco di ginecologia, Zeitschrift zur Erforschung der Geschlechtslebens, ciò riesce un fenomeno così mostruoso che domanda di esser fatto scomparire dal circolo della vita più presto di un bambino nato con una testa d'asino e una coda di serpente. La moralità delle fiabe si accorda con la moralità delle esistenze. Eccellenze della Corte, egregi signori giurati, mi direte che della pronta soppressione di siffatto fenomeno si doveva lasciare il carico all'Autorità Sociale. Ma il guaio si è che la prelodata autorità non se ne incarica punto di tale soppressione, anzi favorisce il fenomeno. Mi duole ripetermi dopo le lezioni universitarie pubblicate. Ma non occorre una lunga ripetizione. Voi, uomini, sapete l'esistenza legale delle così dette case di tolleranza, ma che in realtà sono case privilegiate, licenziate al sequestro delle persone, con i pubblici ufficiali costretti alla vergognosa connivenza. Proteggendo con il braccio regio i ginecei delle Veneri staggite e prezzolate per il servizio automatico della libidine maschile, l'autorità sociale ha irremissibilmente sanzionato in codeste schiave del piacere la inferiorità giuridica e morale del sesso femminile. È un marchio di bassezza indelebile. Da quell'onta non si può estrarre persona viva. Nessun Buon Pastore (uomo o ritiro) può rimettere in sesto una capricciosa Nerina sviata fino a quell'ultimo bassofondo. I medici risancioni sogliono dire delle malattie sifilitiche: che solo dalla prima volta non si guarisce più. Così una sifilide costituzionale irremediabile si attacca anche dal lato morale, e più non si distacca dal primo approdo all'ultima Tule della infamia femminile. Immaginate che il padre fosse riuscito a strappare la figlia fisicamente viva dal postribolo: ma i cent'occhi, i mille occhi velenosi dell'Argo Sociale glie l'avrebbero moralmente liquidata al suo fianco, dovunque l'avesse condotta, in città o in campagna, sui monti o nei piani, sui laghi o sull'oceano. La Società glie l'aveva ridotta moralmente perinde ac cadaver. Toccava a lui liberare veramente dai ceppi mondani la disgraziata figlia già condannata irrevocabilmente a morte civile. Potrete Voi condannare lui per ciò? Non lo potete. Quattro volte no. Imperocché il Comm. Atanasio Vispi fu un sacrificatore, non un delinquente, un sacrificatore giustificato da chiari esempi della Storia Sacra e della Storia Profana, giustificato da ampie e strette norme del diritto antico e del diritto attuale. Alla vostra cultura generale non farò torto allungandomi sui sacrifizii di Isacco, di Yefte, di Ifigenia ecc., V. nell'Enciclopedia la rubrica Sacrifizii. Quando si volle risparmiare umano sangue, sostituendo una fanciulla con una cerva, l'umano sangue ricadde più copioso da altre parti. L'innocenza pagò spesso la salvezza della colpa. Se un padre poté condannare mortalmente il figlio per supina ubbidienza ad un crudele oracolo, per l'immagine sovrana della Patria, o per la semplice umile trasgressione di un articolo secondario del Regolamento Militare, a fortiori un padre potrà sacrificare una figlia per una solenne riparazione morale. Il nostro antico diritto, il diritto romano investiva di tale sacerdozio il padre di famiglia. I figli erano chiamati liberi, ma viceversa il padre aveva realmente su essi il diritto di vita e di morte, ius vitae et necis. E la patria potestà spettava al padre di famiglia durante tutta la sua vita. Sapevamolo, che le tavole e le sanzioni del Diritto Romano più non figurano tra le vaglianti leggi. Ma esse permangono tuttavia ampiamente nell'atmosfera giuridica che abbiamo ereditato. Lasciamo pure quest'immanenza di ampiezza respirabile da parte, anche riducendoci nei vicoli dello strictum ius, io posso, o signori giurati, provarvi, che un Codice positivo preciso flagrante vi autorizza a prosciogliere l'accusato. Non potendosi tutte le norme di giustizia scrivere e tanto meno immobilizzare nelle leggi, il diritto costituzionale diede ai poteri legislativi la facoltà perpetua di condere, fabbricare e riformare leggi, tanto che del Parlamento Inglese si disse essere capace di tutto, fuorché di mutare un uomo in una donna. Di riscontro nell'applicazione delle leggi penali, la Giustizia umana, ben sapendo, che non poteva fossilizzare norme imperscrittibili per la generalità dei casi, ha colla creazione della giuria fatto appello caso per caso alla sovrana cognizione del sentimento popolare. Secondo la loro sacrosanta istituzione, i giurati non sono periti giudiziarii, non sono verificatori metrici dei fatti. Perciò non si richiede loro una speciale competenza. Anzi se ne affida la scelta all'estrazione della sorte da qualsiasi parte del gran cuore dell'Umanità, sede di quel sentimento popolare, che unito al buon senso dell'intelligenza primitiva sa scorgere lume anche nelle profondità del vero imperscrutabili dalle scienze più esatte. Eccellenze della Corte! Egregi signori giurati! Lungi da me la pretesa di una rivoluzione catastrofica della giustizia. E voi, ferreo oratore della legge, di grazia non paragonatemi ad un farmacopola da estancia argentina, con una pancetta da calabrone pinzo di veleno, che sbottona la sua maldicenza contra le leggi, reputandole fatte per i minchioni, emulo di un nostro tiranno parlamentare, indegno del mandato legislativo, quando paragona le leggi a vergini, che per essere feconde devono essere violate. Lungi da me il paragone con il nostro tiranno parlamentare e col farmacopola da estancia argentina, i quali, se un benefattore dell'Umanità, socratico, catoniano, osservante inculcatore delle leggi, venga lodato da una gazzetta di provincia, crepano di invidia e gli minacciano un irrisorio monumento di neve... Io vi richiamo alla pretta applicazione dell'art. 495 del Codice vigente di Procedura Penale. Esso prescrive: La questione sul fatto principale è posta colla formola seguente: l'imputato N.N. è egli colpevole di avere (si indicheranno il fatto o i fatti, che formano il soggetto dell'accusa...) Dunque Voi, giurati, sarete chiamati a rispondere, non se l'accusato ha compiuto un fatto incontrovertibile, ma se egli è colpevole di averlo compiuto. E che il Codice esiga precisamente da voi sul soggetto e sull'oggetto dell'accusa non una constatazione materiale, ma un giudizio morale di colpa o di innocenza lo chiarisce lo stesso articolo, riservando la convinzione mera sull'accaduto soltanto ai fatti che escludono l'imputabilità.» Il rappresentante del Pubblico Ministero con un'obliqua occhiataccia mostrò che l'interpretazione del Codice doveva essere diametralmente opposta. Però il difensore proseguì imperturbato: «La legge, secondo l'art. 498 del Codice precitato, propone ai signori giurati questa sola domanda, che rinchiude tutta la misura dei loro doveri: avete voi l'intima convinzione della reità od innocenza dell'accusato? Tale istruzione, stampata in grandi caratteri ed in altrettanti esemplari, quanti voi siete, voi troverete distesa sulla tavola, intorno a cui siederete nella camera delle deliberazioni, parole del Codice, di cui Vi richiamo la sacra osservanza. Con ciò Voi, signori giurati, siete i veri padroni della pena e della perdonanza. A meglio precisare questa padronanza vostra, vi è un movimento forense, scientifico, legislativo in Francia, nella Svizzera, in Italia. Vi potrei citare le proposte dei deputati del Corpo legislativo di Francia onorevoli Lagesse, Bounet, Corentin- Guyho, gli atti e i voti della benemerita Societé Genéral des Prisons, la profonda memoria del Gautier professore dell'Università di Ginevra e membro di quel Tribunale Supremo, e i bei nomi italiani di Enrico Pessina, Luigi Lucchini ed Alessandro Stoppato, tutti per assicurare a Voi, signori giurati, l'esercizio della vostra funzione sociale nel senso più largo e pieno, non isolando mai dalla mente la coscienza... Ma già vedo, già sento un baleno di luce celeste, che vi illumina le menti, e vi commuove i cuori. Nerina stessa vi prega confessando del padre sacrificatore:
.....………… A morir m'invita Dolce desio di rinnovar la vita.
Ricordate, che la violenza individuale è un diritto dove la ragione sociale non arriva. Il no tonante del vostro verdetto seguìto da sentenza assolutoria sarà alla società presente ed avvenire un documento, sarà un monumento di moralità popolare». Il rappresentante del Pubblico Ministero nella sua crudeltà professionale rifletté, che il commendatore Vispi sarebbe maggiormente punito, se fosse rilasciato libero all'offesa che non gli mancherebbe della licenza sociale, che non se fosse ritenuto in carcere difeso, protetto, incolume dall'oltraggio della vita pubblica; e rinunziò alla replica. Il presidente stabilì definitivamente la questione sulla colpevolezza dell'accusato, e vinto in principio un visibile imbarazzo, procedè risolutamente al breve riassunto di rito: «Avete udito (si riassume il riassunto). Non vi è controversia sul fatto incontrovertibile, orribile. Vi è dissenso sul suo giudizio sociale (non dico morale, perché ogni coscienza inorridisce al fatto d'un padre che uccida la figlia). Il pubblico ministero vi invita a segnare tale padre col marchio della colpa, senza scuse, perché niuno può farsi ragione da sé contro la legge, e tanto meno dopo che si è abolita la pena di morte nella giustizia legale, si può approvarne l'applicazione fattane arbitrariamente da un padre sopra la figlia. Invece il difensore vi ha lumeggiato tutti gli stadii infernali d'infamia, per cui è discesa la figlia fino alla profondissima voragine sociale, da cui il padre non poteva più onestamente riscattarla, fuorché sulle braccia della Morte. Voi pertanto, o signori giurati, siete chiamati a profferire sopra un misfatto individuale un giudizio importante all'umanità per riconoscersi sul cammino percorso dalla società civile. Vi auguro, che il vostro umano giudizio non erri, e la vostra dirittura sia conforme ai disegni divini per il miglioramento del consorzio umano». Ciò detto, il Presidente fa ritirare l'accusato dalla sala di udienza, legge ai giurati la dichiarazione prescritta dal Codice di P.P.; quindi li spedisce alla loro Camera di riflessione e deliberazione. Essi ne ritornano tosto con il verdetto a maggioranza negativo di colpevolezza; onde la Corte, richiamato l'accusato, pronunzia la sentenza di assolutoria. Infine il presidente, mostrandosi più montagnoso della sua montagna corporea, così lo accomiata: ¾ Commendatore Vispi, Ella è libero per la giustizia del Popolo. Dalla libertà materiale non avrà molta gioia. Avrà certo conforto dalla religione spirituale purificatrice. Come magistrato Le do congedo. Come padre di famiglia Le auguro salute eterna.
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