Un verde da
vetriolo ammutolisce nei prati, le camere da pranzo sentono l'autunnale tanfo
delle castagne lessate, e le cortine delle finestre prospicienti all'orto
putono come una malora alla caduta delle pulverolente cimici selvatiche. Ridiventa
buono l'interno dell'osteria.
Le partite a
tarocchi e a bazzica, cui l'estate avea disperse o confinate in un angolo del
pergolato per poche ore del vespro, si riuniscono di nuovo gagliardamente
dietro la ghisa della cucina, e si protraggono fino a notte tarda.
L'osteria di
Borgo Grezzo non ha titolo speciale, perché è unica; e le basta l'insegna della
frasca; e la rinomanza dell'ostessa Ghitona. Un cacciatore, dopo averla
assaggiata l'aveva dichiarata «non bella ma pulita».
Si intende che
questa definizione riguardava la persona di lei, e non gli arnesi delle sue
tavole e della sua cucina. Imperocché le tovaglie ne sono stomachevoli e
nascondono nelle pieghe ditate di azzurro e barbigiate di giallo e di terreo;
stagna sulle posate un unto indelebile; i bicchieri hanno il fondo non solo
ruvido, ma nerastro e gli orli avvinati; la piatteria è, per costante elezione
dell'ostessa, nerissima a fine di nascondere gli imbratti restati dalla
rigovernatura; e nella saliera cenere di pipe, gocce di aceto, spruzzi di vino
violaceo, soffi di pepe e pane trito, e lunette di rosso d'ovo lasciatevi dalle
punte dei coltelli formano nel sale pastorizio iniezioni e stratificazioni
pittoresche.
Un tumulto di
cose disarmoniche circonda l'osteria e le sovrasta, come se l'anti-estetica
fosse la legge, la divinità del luogo. Le fascine della chiudenda sono di varia
età e pendono in direzioni diverse; hanno buchi pel passaggio delle galline e
dei conigli, e dei monelli. Fra i loro stecchi nudi tengono imprigionati gusci
d'ovo, stracci abbandonati che fanno un singolare contrasto con i piantoni di
salici, che sputano tuttavia umori e foglioline.
Il pergolato è un
rovescio di travicelli tarlati, un penzolio di foglie fracide da una stuoia di
ontani morti, è uno scarduffiarsi di pampini di una vite irrugginita, mentre
serpeggia e verdeggia la zucca, tuttavia vigorosa, e mostra qua e là le punte
dei suoi fiori luminosi. Uno zuccone rubicondo rotola giù dal tetto come un
deretano fustigato; i fagiuoli rampicanti gittano a diverse altezze uno
zampillo di capettini viperei, curvantisi come impugnature di violino e punti
di interrogazione esilissimi come una filigrana vegetale.
Il ballatoio
della casa non ha sponda; quindi nella desidia campagnuola per evitare le cadute
ai ragazzi, piuttosto che principiare il gran lavoro di una balaustra, si tiene
per anni ed anni inchiodato il balcone, e buio il magazzino e camerino da
letto, dove in un angolo talliscono le patate e le cipolle.
Eppure,
nonostante questo fastello di sgarbo, disordine e cascaggine che la circonda,
l'osteria della Ghita è l'unica nota confortante e ricreativa nella vita
selvaggia di Borgo Grezzo. Quivi convengono come ad un'oasi il cacciatore, il
viaggiatore di commercio, il viandante uscito di prigione, e quello ricercato
dalla giustizia e i maggiorenti del paese. Il giovane medico condotto, famoso
pel suo gaio umore, qui sfrottola tutte le sere le sue satire e le sue
caricature acclamato dalle più cordiali risate degli astanti, a cui egli unisce
il proprio cachinno fragoroso. Egli nel muovere verso il villaggio si era fatto
il più saldo proposito di intraprendere e compirvi studi botanici, fisici,
antropologici e scrivervi delle memorie scientifiche, ed ora da più di un anno,
non toglie più nemmeno la fascia ai fascicoli di Riviste Mediche che
riceve; egli che forse sarebbe riuscito felice umorista anche nella
letteratura; ravvolto dall'ambiente è diventato una vera ricchezza di
giocondità per l'osteria, cosicché molti ne sono assidui solo per lui, che si è
ridotto a trattenimento periodico serale, tanto che potrebbe farsi pagare
dall'ostessa il proprio spettacolo.
Rivale del
dottorino si è il signor Ambrogione, detto per antonomasia il Cottimista;
perché è lui che da parecchi anni ha l'appalto dei canali demaniali e la
manutenzione delle strade provinciali. Alto e membruto come un camallo
genovese, porta sulle spalle prominenti incassato un collo corto che sostiene
una testa piccina come di testuggine; veste una giacca e i calzoni di velluto
di cotone rigato e qualche volta la blusina azzurra del carrettiere.
È veemente in
tutto e specialmente nel bere. Entra con furioso affanno nell'osteria, gridando
a squarciagola: ‑ Ghita, un litro! ‑ quando se l'è ingollato, dice
invariabilmente, elevando un sospiro di consolazione: ‑ Ho ancora sete.
Allorché viaggia
in ferrovia, egli è lo spasso del vagone di terza classe, su cui sale. Sternuta
come un terremoto, e ad ogni stazione si protende fuori dello sportello,
chiamando col suo allegro francese di Biella un bisciuar.
Nell'ultima festa
del paese egli si avvinazzò tanto, ballonzolò tanto, si arrovellò tanto di vino
e di movimento che ritornando a casa voleva costringere tutti coloro, cui
incontrava per la strada, a ballare con lui: preti, vecchie, ragazze, padri
coscritti. O sia che una villanella riluttante, puntandogli contro il
ginocchio, gli abbia dato il gambetto, o sia che lo abbia rovinato, come
l'impero romano, la propria mole, fatto sta ed è, che stramazzò per terra e si
slogò una coscia. Non se ne adontò per nulla e ricusò di essere portato a casa
per la fasciatura; volle che il medico venisse a mettergli la gamba a posto
nello stesso tratto di strada, in cui egli era ruzzolato. Sdraiatosi nella
polvere rizzò la testa e si addossò ad un paracarro per aspettare comodamente
il dottore, e intanto per rendere vieppiù comoda l'aspettazione si fece recare
dall'osteria un altro doppio litro con bicchieri. Beveva e costringeva a bere
la moglie e le figliuole accorse e gli altri assistenti, e offriva da bere a
tutti i passanti, dicendo che voleva da buon cottimista fare gli onori dello
stradone provinciale.
Venuto il medico,
non si lasciò toccare da lui, se prima questi non aveva toccato con esso il
bicchiere, e quando finalmente gli permise di accingersi alla operazione,
pretese a forza che gli applicasse alla gamba slogata alcune doghe di un barile
sfasciato, che egli aveva comandato gli recassero da casa.
Guarì
completamente, ma la cordiale riconoscenza per la bella cura fattagli dal
medico non gli tolse dall'animo un'inconscia invidia che gli era trapelata
addosso; un'invidia che si potrebbe chiamare del mestiere, se fosse mestiere
quello di dire buffonate.
Non c'era caso
che egli ridesse alle spiritose barzellette del medico; questi per sua parte, pur
avendo un'indole così risanciona, diventava serio, quando Ambrogione sferrava i
suoi lazzi, e nella superiorità della propria educazione ostentava di non
avvertirli neppure. Questi rapporti tesi erano gravidi di una sfida, come li
giudicò un uomo politico, il farmacista. Infatti nell'osteria e poi nel paese
intiero erano nati quasi due partiti pei due contafavole.
La parte più
intelligente e la società più fine del paese, le signore, il segretario
comunale e il farmacista tenevano pel dottore.
Erane specialmente
devoto ammiratore il panattiere Gregorio, il più indefesso, mansueto e
silenzioso bevitore del Borgo, quegli che senza giuocare accettava di far parte
di qualsiasi partita, in cui vi fosse per posta qualche bibita; tantoché
chicchessia entrando nell'osteria, e disagiato a bersi una bottiglia intiera,
ne proponeva sicuro la società a Gregorio, e questi non diceva mai di no; onde
gli capitava magari di avere carature in quattro o cinque tavolini; qua per la
gazosa, là per la birra, o per il caffè, o pel vino del bottale, o per il
nebiolo imbottigliato; ed egli beveva e pagava da per tutto con una flemma e
una soddisfazione ammiranda.
Anche i mugnai
parteggiavano pel dottore; insomma erano con lui quasi tutti quelli di arte
bianca. Invece quelli di arte nera, come il Gran Tommaso carbonaio, Pietro il
fuligginoso fabbro ferraio, il maestro cappellano, ecc. erano partigiani del
forte Ambrogione. Dicevano le vecchie dell'Opera Pia che anche il diavolo
teneva per lui.
Però nella sua
banda egli prediligeva l'organista Protaso e il bel Rolando, che formavano con
lui un terzetto musicale. In effetto egli, famoso lavoratore ed ubbriacone, era
anche a tempo avanzato vigoroso suonatore di fisarmonica, e si faceva
accompagnare appunto dal vecchio organista che conosceva abbastanza bene il
flauto, il violino e il contrabasso, e dal giovinetto Rolando che grattava la
chitarra con un'aria ispirata. Anzi quest'ultimo pareva il Ganimede di quel
Giove.
Il bel Rolando
era stato definito dal parroco con proprietà di linguaggio quale scioperato; ma
il più mite neologismo degli altri borghigiani lo riteneva per un semplice disimpiegato.
Figlio di un particolare (contadino proprietario), aveva fatte le scuole
tecniche; ma non si era spinto più in là, tra per la poca voglia che egli aveva
di studiare, e per il desiderio della mamma di averlo attaccato ognora alla
gonnella e per la stufaggine, che aveva suo padre, di sprecare i denari a fine
di mantenergli i vizi in città.
Nel villaggio,
alieno dai lavori di campagna, senza mestiere, egli consumava il tempo
bruciando pipate di tabacco da tre soldi, perseguitando e corrompendo le più
belle ragazze del villaggio. Molti matrimoni andarono rotti per cagion sua.
Esercitava una languidezza imperiosa, irresistibile da gatta morbida e da tenore
brigante, teneva sulla testa due ditate spesse di capelli biondi come l'oro,
spartiti in metà come li spartiscono le donne: possedeva un mostaccino rotondo,
come nelle maschere da fanciulle, e nelle Sirene da giostra o nelle
ballerine per pipe di schiuma: aveva gli occhi grossi, azzurri, di cobalto; la
camicia di flanella senza solino gli lasciava libero il collo alto e ben
tornito: portava un'elegante cacciatora con bottoni bianchi, orlata di refe
rosso. Era un bel vizioso. Persino la nominata Erzegovina, e poscia
ribattezzata Krumira, la cortigiana celebre del Borgo, che faceva il servizio
di tutte le caserme dei Carabinieri del circuito, sentiva delle debolezze
gratuite per lui; ed una volta per amore di lui aveva lasciato bussare invano
alla sua porta il deputato capitato in vacanze, quantunque fosse già stato due
volte segretario generale del Ministero di Agricoltura e ministro in predicato.
Quando, per usare una frase
tecnica del paese, qualche ragazza alzava il grembiule prima del tempo, lo si
attribuiva al bel Rolando e si attribuivano a lui i gettatelli che si trovavano
sulla porta della chiesa. Onde una volta il feroce cottimista gli disse: ‑
Mio caro! tu pel bilancio degli esposti costi alla provincia più che l'avv.
Denticis, che noi cottimisti non possiamo andare a trovare, senza mostrargli il
gruzzolo dietro la schiena.
Quel satanico
fanciullo piaceva, si appoggiava e quasi si maritava al Satana adulto, come la
grazia alla forza, l'edera all'olmo.
Ambrogione se ne
serviva qualche volta per farsi fare i conti del negozio dei bozzoli, su cui
speculava e versavasi come un maroso nei mesi di giugno e di luglio, o per
l'affitto delle trebbiatrici, nel cui acquisto si era gettato come un veltro
ferito, e per fargli conteggiare i mucchi di ghiaia su cui frodava, e lo
retribuiva con gite di piacere e merende. Questa era l'unica occupazione
lucrosa, cui attendesse il bel Rolando nel suo ozio geniale. Qualche volta
d'inverno coltivava ed enunciava l'idea di raccomandarsi poi al deputato, già
segretario generale, e futuro ministro dell'Agricoltura, e domandargli qualche
impiego. Ma, sopraggiunto l'autunno, egli si sentiva così bene, si gatteggiava
così tiepidamente nel suo dolce far niente, che non pensava neppure per sogno
di andare ad umiliarsi all'on. ex Segretario Generale e promesso Ministro, e
preferiva fargli prendere il fresco di fuori, quando questi col portabiglietti
pinzo si degnava di bussare all'uscio della Erzegovina poscia Krumira, e nei
pochi casi in cui lo lasciava entrare, si divertiva poi a fumare i sigari
d'Avana da 24 soldi.
L'organista
Protaso, un vecchio sbarbato, vestito di un giubbino nero, corto, lucido,
sfuggente, lieve come la fodera di un violino, era servitor devoto di tutti
quanti, ma si inchinava premurosamente alla generosità e alla potenza di
Ambrogione, ed in una sola parte si riservava ad essere lui stesso intransigente,
cioè nel non ammettere ballabili moderni, e nel mantenere, come Vangelo del
terzetto, un vecchio cartolaro di danzeria del maestro Caronti, che
egli aveva portato da un paesello di montagna, dove aveva fatte le sue prime
armi musicali. Quindi né Sangue Viennese, né Labbra di fuoco,
né Fiotto di mussola poterono aver mai l'onore d'entrare nel
repertorio musicale di Borgo Grezzo, dove trionfavano continuamente le vispe
cantilene dell'antico cartolaro, intitolate: Iride ‑ Cuor contento ‑
La priora di San Sebastiano ‑ Pietrina Michisso, ecc., scritte da
quel genio ignoto del maestro Caronti certamente per qualche figliuola di castellano;
imperocché ad ogni unto fondo di pagina c'era l'avvertenza: L'illustrissima
signora damigella è pregata, oppure degnisi di voltare il foglio. Per
somma grazia erano state accettate dall'organista alcune canzoni popolari che
Ambrogione aveva raccolte nella sua vita d'impresario anche fuori del Piemonte.
Il giovane dottore, quantunque egregio dilettante di canto e pianoforte, non
poté mai accordarsi col terzetto, avendo egli avuto delle coraggiose velleità
di introdurre a Borgo Grezzo un ballabile di Klein, un altro di Capitani e
alcune romanze di Tosti e di Rotoli, e sull'organo della Chiesa il Mefistofele
di Boito.
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