Il dottore si
alzò per avvicinarsegli e fargli la corte; gli cavò il berretto; e gli mise in
testa il suo cappello nero con un'ala alzata alla spagnuola, figgendogli nel
nastro un cucchiaino di legno.
‑ Ecco la
studiantina, cioè la cucchiaina di Siviglia o Salamanca.
Ambrogione guardò
il suo ganimede con un occhio intenerito, come Saulle dopo una doccia di arpa
davidica. Stette un po' sovra pensieri di gelosia e di dispetto, come se con la
parola Salamanca avessero satireggiato il suo protetto per mancanza di
sale in zucca; e poi comandò giulivamente:
‑ Protaso,
lesto, correte a prendere il vostro violino, o il vostro contrabbasso, e poi
passate a casa mia a prendermi la fisarmonica.
Il vecchio
organista curvò la testa, che rassomigliava ad un'urna da tabacco, allargò le
braccia, strinse le gambe, divergendo i piedi; e stava apparecchiato a fare
qualche osservazione con un inchino.
Ma Ambrogione non
gliene lasciò il tempo.
‑ O andate,
o vi... ‑ e gli mostrò una pedata.
Protaso fece una
giravolta sul suo inchino, mentre le falde del farsetto corto e leggero gli si
alzavano di dietro, quasi per ricevere degnamente ciò che gli era stato
promesso. Quindi, tutto d'un pezzo, mantenendo la curva e le braccia larghe,
uscì dall'osteria.
Traversando la
corte ardì, per celia, di tentennare sulla vetrata, ma il cottimista lo fece
scappare, urlando:
‑ Fate
presto, o vengo a spiantarvi la casa e voi vi spolpo... voi...!
Profittando
dell'assenza dell'organista il dottore aveva fatto provare qualche accordo al
bel Rolando, e lo incamminò ad accompagnarlo nella romanza del Tosti: Vorrei
morir!
Ambrogione si
degnò di lasciarlo cantare, e alla fine della romanza lo complimentò.
‑ Non siete
un minchione.
Intanto l'eco di
quei patetici vorrei morir gli faceva attraversare il cervello da una
strana, benché ancora indistinta idea.
Non ritardò a
ritornare l'organista cogli strumenti.
Ambrogione,
scelto a coadiutore il Gran Tommaso, lo trascinò pel colletto nello stanzone
superiore a stanare una spinetta, che posava le gambe zoppe fra le cipolle e da
parecchi anni, cioè dalla morte dello zio prete che l'aveva lasciata in eredità
alla prole nascitura della Ghita, non era stata più sonata da altri, che dal
gatto allorché passeggiava sulla tastiera.
Scaricato giù
quel vecchio mobile, non ostante le opposizioni dell'ostessa, Ambrogione
costrinse il medico a suonarlo. E il dottore, mezzo brillo dal vino e dalla
buona luna di quella sera, accettò e tempestò una polka di Edoardo Strauss Bahn
Frei (Fate largo). Pareva martellasse sui vetri. Ciò nondimeno il bel
Rolando, deposta la chitarra, aggavignò la Ghita, e la fece ballonzolare,
abballottandola ed accantonandola di tanto in tanto in un angolo contro alla
scopa, mentre essa lo stringeva, pur riluttando con le grida.
L'organista per
ristabilire l'ordine, propose ed allestì, che si ripassasse in quartetto la
famosa danzeria del maestro Caronti.
Si accondiscese;
ma prima di tutto il cottimista ordinò che si bevessero da tutti insieme altri
quattro litri.
Il panattiere
disse che accettava, ma che voleva entrare per sua parte nel conto:
‑ Chi mette
bocchino, metta quattrino.
‑ Chi parla
di pagare, quando comando io?... E se qualcheduno si muove per uscire, piglio
la falcetta e gli taglio le gambe.
‑
Comanderai, quando avrà finito di comandare Ambrogione ‑ disse
l'organista pro bono pacis e per proprio vantaggio.
‑ A questo
patto accetto ‑ si acquietò Gregorio.
Dopo mezz'ora di
accordature innaffiate dal nero vino di Freisa, il quartetto si poté dire
montato.
Si suonò la Perseveranza,
scottish; e poi il Cane di guardia, marcia in cui ad ogni
tanto i sonatori si fermavano ad abbaiare: Bau! Bau!
Ciò elettrizzò
l'osteria; e Gregorio entusiasmato ordinò per suo conto sette litri.
Nell'emozione di
versare egli stesso il vino, lasciò cadere per terra una bottiglia, che venne
prosciugata dal pavimento. Ma gli altri sei litri se li bevettero i congregati,
senza perderne una goccia. Oltre l'intiero quaderno del maestro Caronti, si
suonò e si cantò la Biondina in gondoletta ‑ Cò sto caldo, cò sto
caldo, insima ai monti ‑ La fioraia di Firenze, cavallo di
parata del bel Rolando ‑ Smuova i fieuj d'Gianduja ‑ e i Bougianen
an dio di Brofferio.
Il bel Rolando
uscì a dire:
‑ C'è una
bella luna... Dovremmo andare a fare delle serenate.
Rosina vieni
abbasso
È un'ora che
son qui,
Già la luna
sen va a spasso
E succede chiaro il dì.
‑
Indispettito il padre di Rosina… ‑ continuò con voce da tiranno il
dottore...
‑ Ma io ho
sete ‑ conchiuse Ambrogione: ‑ Ghita porta dei peperoni, del
formaggio e mezza brenta di vino... Ho sete, ho fame... Spazzacamino...
Quasi tutti
assaggiarono il formaggio pro forma, e solo per rendersi più
abili a bere. Alcuni non poterono mandar giù un boccone. Solo Protaso e
Gregorio ne fecero un buon striscio.
‑
Cantiamo... La serva va in cantina.. E il prete...
- Auff... Andiamo a fare la
serenata... Non si resiste più qua dentro ‑ esclamò il bel Rolando.
Rosina vieni
abbasso
È un'ora che
son qui...
‑ Andiamo! ‑
concesse Ambrogione ‑ ma si portino con noi i viveri.
Uscì nel cortile;
sollevò una carrettella di sotto la travata, vi aggiogò il carbonaio e il
fabbroferraio. Vi caricò la spinetta, un canestro di bottiglie, un altro di
vivande, una mezza tinozza di vino... Allons! marchons ‑ Partons pour la gloire et pour
la Syrie.
Il denso silenzio
campagnuolo era rotto da quel carriaggio di briaconi notturni.
Tutti si
guardavano le pance illuminate dal chiarore della luna.
Arrivati sul
sagrato, videro la piazza colma, bianca, di quell'uniforme luce lunare, a cui
faceva da nera sponda l'ombra dei tetti e dei balconi.
Ambrogione si
fermò a pensare, inorecchito come presentisse dell'acqua, e poi disse: ‑ Io
non ho paura, so nuotare.
In un baleno si
spogliò; e tenendo in bocca il fagotto degli abiti, traversò la piazza a nuoto
asciutto.
Il seguito col
carro gli corse dietro come a Faraone nel Mar Rosso. Infatti il grido del
dottore fu: ‑ Viva Mosè in Egitto!
Raggiuntolo
dall'altra parte, il bel Rolando si permise di dirgli: ‑ Signor
Ambrogione, sarà meglio andare a casa...
‑ Vai tu,
piccirillo!... Va' a pigliare la poppa...
Con qualche
fatica il gigante cotto riuscì a rivestirsi, dopo aver provato invano a mettersi
uno stivale in testa. Trasse in disparte il bel Rolando, gli pose in mano una
chiave, e gli sussurrò:
‑ Va' tu
con mia moglie.
Al giovinotto la
voglia di profittarne fu cacciata dalla certezza che l'indomani sarebbe stato
pugnalato.
Balbettò:
‑ No...
no... grazie!
‑ ...Come?
Grazie!...
Il bel Rolando si
sentì livido da una guardata velenosa nel collo...
‑ Ho sete! ‑
ricominciò Ambrogione... E faceva stappare delle bottiglie...
Era il tocco dopo
la mezzanotte; al rumore dei tappi che saltavano via, si unirono i ventiquattro
rintocchi dei morti. Passò per la testa di Ambrogione più chiara una torbida
idea.
Il medico disse:
‑ Adunque
facciamola questa serenata.
Allora tutti si
volsero verso il balcone della stanza, dove dormiva la figliuola del Sindaco.
Il medico salì
sul carretto a martellare la spinetta... Ambrogione allargava e rinchiudeva
poderosamente il mantice della fisarmonica, l'organista inviperiva sul violino,
il bel Rolando faceva vibrare mestamente la chitarra. Tutti cantavano il coro
della Mascherata dei quaranta pagliacci, che si adattava da per tutto:
E la bella Borghezzese
Sarà sempre il
mio sospir.
‑ Adesso
andiamo in barca ‑ sentenziò Ambrogione, come un lucido dirizzone
l'avesse preso; e avviò i due bipedi aggiogati al carretto sulla strada che
conduce al torrente Borghera.
Quando si
trovarono un po' dilungati dalla piazza, si accorsero che il dottore ed i suoi
partitanti si erano squagliati.
‑
Vigliacchi! ‑ borbottò Ambrogione... ‑ Ma, tanto d'avanzato!...
Berremo tutto noi.
‑ È vero! ‑
approvò l'organista, tremolando fra la paura e il freddo.
Quando giunsero
in riva alla Borghera, Ambrogione sventrò come un bombardone un interminabile euhpp!
per svegliare il barcaiuolo nella chiatta.
Impaziente,
assaltò egli stesso una barca e snodò la fune che la legava ad un piantone.
Quindi invitò i
suoi seguaci ad accompagnarlo in barca.
Vedendo che il
barcaiuolo, svegliatosi, si era messo al governo del timone, molti si
affidarono di accettare l'invito.
Ma l'organista
rifiutossi.
Ambrogione lo
scosse e ordinò ai bipedi del carretto:
‑ Bipedi,
gettatelo nell'acqua.
L'organista
s'inginocchiò sul ghiareto.
Pareva una scena
di sacrifizio umano. Dove l'onda era crespa, la luna faceva succedere un movimento
di carta dorata, e inargentata; e dove l'acqua spaziava liscia, si appozzavano
splendori. Qua e là guizzavano larghi nereggiamenti, come schizzi immani di
seppia. Nevicavano i fili d'erba sulla riva; la ghiaia imbruniva nei contorni
morbidi dell'ombra, e mandava qua e là scintillamenti ossei.
Ambrogione si
mise a ridere, e si contentò che l'organista rimanesse a terra, purché suonasse
il violino in ginocchione.
La brigata in
barca si versò da bere; e poi cominciò a cantare e a suonare.
Dalla sponda l'organista
la accompagnava raspando il violino, genuflesso come un condannato a morte.
La musica
sull'acqua faceva un effetto magico; diventava più fina, più trasparente, più
godibile...
Pareva trasmessa
per mezzo del telefono da un paradiso incarcerato nel centro della terra.
La ripercussione
delle onde sonore sulle onde liquide era un incanto... Le fantasie logore dei
poeti avrebbero ridetto che i venti, i quali passeggiano sui fiumi, sostavano innamorati
sull'ali ad ascoltare, e i pesci boccheggiavano le armonie a fior d'acqua.
Ambrogione
spicciativo, brutale nei suoi capricci, quietò appena cinque minuti in barca,
poi fissando un nero cespo di ontani sulla riva lontana, ordinò che si
ritornasse a terra. Là annunziò solennemente:
‑ Andiamo a
fare una serenata ai morti. Poi verrete a casa mia a mangiare il cardo con la
salsa calda e i tartufi.
Nessuno gli
rispose di sì.
Anzi l'organista,
assunto un coraggio apostolico, da uomo di chiesa con annesso stipendio, disse:
‑ No... Non va bene... È una profanazione... I nostri vecchi...
Ma Ambrogione
minacciò: ‑ Vi dico che verrete con me, dovessi spingervi innanzi a colpi
di revolver.
Protaso, al pari
del resto della brigata, ammutolì. Tutti camminavano, come la biscia
all'incanto. L'organista non vedeva più splendere la luna, fuorché sulla punta
delle sue scarpe.
Ruminava in mente
il modo di evadersi: pensava e ripeteva: ‑ Ah! se fossi rimasto a casa,
chiuso col chiavistello...
Ritrovandosi
sulla piazza considerò che poteva con una stranezza minore evitare la maggior
pazzia di Ambrogione, e gli propose: ‑ Se andassimo a far la serenata
sulla punta del campanile!
‑ L'idea
non è cattiva...
‑ Io so
dove sta la chiave... È qui.
‑ Pigliala
subito.
L'organista, tosto
levato un mattone da una buca presso la finestra del campanaio, vi trovò la
chiave del campanile. Ambrogione si caricò sulle spalle la cesta colle
bottiglie rimaste, e cacciandosi innanzi il bel Rolando e l'organista cogli
strumenti, salì poderosamente le numerose e ripide scale legate l'una in vetta
all'altra nell'interno della torre. Egli era così rigoglioso che pareva il
succhio sanguigno di quell'albero in muratura. Giunti nel castello delle
campane si affacciarono al firmamento. Che dominazione!
Alcuni cortili di
case, che da basso figurano in lontananza fra loro, qui parevano essere proprio
riuniti sotto gli sputi dal campanile.
Ambrogione guardò
fieramente nel cortile di sua casa, quasi schiodando colle pupille le impannate
della stanza coniugale. Era scuro; sua moglie dormiva... Egli rapidamente si
tranquillizzò.
‑ Ho
sete... Come si deve bere bene qui sopra in excelsis Deo!... Ci deve
essere ancora nel canestro un'ala di pollo... Adesso... soniamo...
Le ondate sonore
si diffondevano spaziose, quasi arricchivano di forza i lombi dei suonatori; e
ad un tempo un senso di benessere igienico, estetico, alleggeriva, sollevava,
rassicurava tutti.
Finita la prima
suonata, l'organista si accorse che gli altri della banda non lo avevano
seguito.
Ambrogione guardò
in giù, e vide ch'era sparito anche il carretto colla spinetta.
‑
Manigoldi!
Poi si ritornò a
suonare...
Un ampio fremito
ondeggiava intorno. Sbucò un gufo spaventato e strisciò come un velluto ombroso
sulla testa di Ambrogione.
‑ Alt! ‑
disse egli con voce da capitano di nave. Quindi con entusiasmo d'oratore
ubbriaco: ‑ Andiamo al cimitero.
L'organista,
scendendo per le scale, avrebbe voluto rompersi il collo, pur di non seguire
Ambrogione nella sacrilega impresa.
Ma, a farlo
apposta, si trovò in istrada saldo e netto sulle gambe.
Si ricordò
un'altra volta, che gli altri si erano discostati; e questa solitudine gli
aumentò il terrore.
Ambrogione se lo
cacciava dinanzi a piattonate nella schiena e a pizzicotti nei fianchi. Osava
persino minacciarlo barzellettando: ‑ Se non trottate, vi rovescio
addosso il campanile, e vi... schiaccio...
Il bel Rolando
andava di per sé di buon portante.
Quando si fu
fuori del paese, all'organista si piegarono le gambe. Camminava ginocchino come
un prigioniero sfinito.
Comparve il viale
del camposanto.
Protaso assalito
da un brivido non trovò altra ripresa fuorché addossarsi ad un albero colla
testa penzoloni.
Ambrogione
vincendo la ripugnanza di accostarsegli, si mosse ferocemente per ghermirlo, e staccarlo
dall'albero:
‑ Troio!
L'organista si
difese col sonare il violino, traccheggiando in tutta la persona.
Ambrogione ne fu
disarmato, colpito da un'idea.
‑ Pitocco!
Sta' pure lì; e suona. Ma non cessa dal suonare... se no, ti fulmino con la
pistola.
Protaso seguitò a
suonare, come l'avesse morso la tarantola. Sfregacciava con l'archetto
nell'impugnatura, e quando arrivava le corde sul cavo armonico, mandava
raspature gemebonde, sdruccioli, guizzi di note che facevano rizzare i capelli:
sonava ripiegando a pancia, come un soffietto, rompendosi, curvandosi,
aprendosi come un compasso; si alzava, si torceva come uno spirale, traboccava
in singulti, come se recesse secco sopra un invisibile leggio.
Ambrogione e il
bel Rolando continuarono il cammino da soli.
Ad un tratto
quest'ultimo si sedette sopra un paracarro.
‑ Che?
anche tu?... ti ballano i morticini davanti li occhi?... O temi che venga
Caterina dalla Maternità di Torino a tirarti i piedi, o la bionda Nina al
cimitero di Vercelli?... Piangi?... Devi suonare, suonare... su, via, alzati!
dico... Veniamo ai voti fra voi due. Che dici? Bestia! pari e dispari... Non ti
muovi? Sei freddo come un marmo? Devo seppellirti...? Su, gratta la chitarra...
Il bel Rolando
con la mano tronca, febbrile, trovò i1 coraggio di straziare un accordo.
Ambrogione
tranquillossi.
‑ Bravo!
stai lì... lascerò dietro due colonne vive, di musicanti, dico musi... cani...
Fermi...! Olà!
Quindi con
l'impeto di un masnadiero e collo sgarbo di un orso prese d'assalto il muro del
cimitero.
Ritto sulla
vetta, quel truce gradasso dominava nella notte.
Dentro il
camposanto scintillavano le croci intagliate nel chiarore lunare, quasi armi
apparecchiate per combatterlo.
Egli allargò
spaventosamente la fisarmonica con un muggito interminabile, come se aprisse un
abisso di sonorità sotto il pedale di un organo stregato. Quindi la rinchiuse
con un soffio da smorzare la luna e l'intelligenza. Poi si diede ad agitarla,
divincolarla con una frequenza di movimenti di su, di giù, nel mezzo, cagionando
tremolii concentrici, cicalecci di vecchie sdentate, civetterie rabbiose,
sospiri strozzati, lordure musicali, stomachevoli. In un punto si sentì passare
un cane vicino all'orecchio, e poi sollevarsi un cespo nero dentro il
camposanto.
Saltò a capo
fitto nell'agone.
Era una mischia
orribile. Aveva contro di sé tutti i morti... C'erano le nonne che lo
minacciavano con le rocche; tutti i parroci, di cui si legge l'iscrizione nel
corridoio della parrocchia, lo allontanavano coll'aspersorio. Don Beltrame Coraglia
gli buttava gocce roventi... Contadini, spose di duecento anni fa, gli si
avventarono contro colle unghie ricurve... Gli innocenti tentavano di
fustigarlo colle verghe. Si chiudevano vecchie tabacchiere; sentì scricchiolare
il pettine della sua povera mamma sotto la pesta sanguinosa.
Scoppiavano
fragorosamente i cadaveri nelle tombe... Colonne di fuoco gli ballonzolavano
attorno, ed egli, orribile clown funereo, combatteva contro tutti col soffio
della fisarmonica.
Correva,
rinculava, avanzavasi all'impazzata, spingendo, ritraendo, agitando lo
strumento, come dovesse purgare ogni angolo col vento e collo strazio della sua
musica.
Ma fu
sopraffatto... Gli furono addosso le conocchie, gli aspersori, le unghie... lo
ardevano i fuochi... lo strozzava il fetore, lo impacciavano le vesti, lo
impauriva, assordava il fragore tumultuante degli scoppi cadaverici... tutto lo
toccava, lo forava, lo opprimeva... Sentì sotto le piante il petto tenero di un
bambino mortogli nelle fasce. Balzò in aria, e si scatenò verso il muricciuolo.
Ne guadagnò la cima, lasciandovi l'impronta di due guanti sanguigni. Ululava,
ululava così tremendamente, che i boari levatisi alle due antimeridiane per
dare il fieno nelle stalle, recitarono un De profundis.
Nessuno seppe
precisare quanto egli abbia corso. Lo si poté congetturare il giorno dopo,
quando si trovò l'impugnatura della fisarmonica dentro il cimitero e la carta
rossa del mantice a un miglio di distanza, e un vaccaro scoperse poi le
linguette e le molle d'acciaio, e i bottoni di porcellana sotto il fogliame in
un bosco a un altro mezzo miglio di lontananza. Egli fu rinvenuto al mattino
sull'orlo di un fosso, coi calzoni spalmati di fango, la giacca a brandelli, il
petto scoperto, scalfitto e intriso d'erba fra la neraggine irsuta della pelle,
la faccia chiazzata e logora come invecchiata, la schiuma alla bocca, gli occhi
lividi e ingigantiti, i capelli pesti e insafardati di letame, ma tuttavia con
un anelito da Mongibello.
L'organista venne
immediatamente licenziato con un motivato verbale del Consiglio comunale e
della Fabbriceria della parrocchia, e dovette risalire in un paesello di
montagna per raccattarvi polenta e castagne tanto da poter campacchiare senza
la sicurezza di scoprire un altro tesoretto musicale del maestro Caronti.
Stavolta anche il
bel Rolando fu proprio costretto a sloggiare dal suo nido; ossia venne esiliato
dal paese, come ne ragionano le vecchie, quando fanno il pane al forno.
I maldicenti
invidiosi suppongono, che egli faccia da forza armata e protettrice a una
famosa mondana d'ambasciatori. Invece i suoi parenti annunziano (ed è la
verità) che, dopo avere lavorato al Gottardo è disegnatore in un'officina a
Londra, e si fa onore e manda giù buone notizie con vaglia internazionali.
Perciò la
compagnia del Santo Cordone assicura che egli ritornerà presto in paese per
erigervi una nuova cappella in suffragio delle Anime.
Il dottore
dovette penare per guarire Ambrogione, molto più che non abbia faticato allora,
quando il camallo si era rotta una gamba sullo stradone. Non potendo il grosso
cottimista pei suoi interessi e per la famiglia abbandonare il paese, sentì con
molta amarezza sopratutto per riguardo alla moglie e alle sue creature una
terribile notificazione fattagli dal Parroco: «Ambrogione, siete irregolare!
Siete incorso nella scomunica maggiore!». Per farsela togliere, il cottimista
spinto dalla moglie, egli già così fiero, accettò la penitenza canonica di
girare a porte chiuse quattro volte intorno all'altare, come un ciuco stangato
e ricevette poi veramente, dal Prevosto, parecchie bastonate sulla testa e
sulle spalle con accompagnamento di parole latine ed acqua benedetta.
Il suo personone
di orso domato soffrì un gran ribasso; non frequenta quasi più l'osteria, dove
il dottore per un po' di tempo imperò esclusivamente, e poi scadde anche lui di
moda essendosi sbandata anche la sua clientela dei frottolisti.
Appena si parla
di musica e di morti, al povero Ambrogione si imbrusca e si intenebra la
faccia.
|