Al Prof. avv.
Nino Pettinati1
Caro Nino,
Mi tarda significarti in pubblico
il riconoscente affetto, che a te mi lega. Io che da due lustri e più cammino
come un solitario viandante in questo così detto campo delle lettere (con poche
scorribande politiche fatte per ingenuità di coscienza) e finisco per riposarmi
soltanto nell'eremo del mio studio e della mia famiglia, sono particolarmente
grato alle poche anime affini, ai cari amici che mi riconoscono, mi confortano,
mi sorridono, mi accompagnano o mi visitano nella mia solitudine.
Fra queste anime comprensive c'è
la tua, mio ottimo Nino, che principiasti ad essermi amico, appena mi hai
letto, e tosto illustrasti i miei poveri libri con diffuse bibliografie, in cui
mediante la tua prosa fluida, colorita di affetto ed elevata di sentimenti come
un poemetto di famiglia, hai fatto vedere facilità e luce, dove io aveva messo
sforzo ed ombra; e svolgesti rigogliosamente i miei germi d'arte intirizziti o
contusi; tantoché inspirasti pittoricamente per me un gentile poeta; ed io
preferirei candidamente che i miei lettori mi leggessero e conoscessero ognora
non nel mio testo, ma nelle tue rassegne.
Né tu fosti soltanto per me amico
benevolo nel campo delle lettere che si vantano amene; ma mi hai seguitato
nelle gravi e spinose noie della politica; sei intervenuto a battaglieri
banchetti elettorali ed operai per raccogliervi i miei poveri discorsi, e come
un invidiabile revisore e correttore parlamentare li pubblicasti integrati,
abbelliti dal tuo rapido e gentile ingegno di scrittore giornalista. E fuori
delle lettere e della politica mi hai consolato e sorretto in scoramenti
tristissimi.
Ora per rimeritarti di sì larga
cortesia, ti scaravento addosso la mia prosa più villana, che i malevoli non
tarderanno a gridare scurrile e brutale.
Ma se queste osservazioni greggie
e rabbuffate io metto sotto gli auspici di te, che vai ravviato come il tuo
nome e sei corretto come un gentiluomo della tua materna Inghilterra e sei il
bozzettista degli ideali di famiglia, e sei il modello degli sposi e dei babbi
e sei altresì argutamente fine come la nativa tua sagacità genovese, ho voluto
appunto significare che le mie intenzioni non erano grossolane, né laide, né
bestiali.
Se io tento di escuotere con la
mia penna ogni angolo di vita sociale fino al tanfo delle osterie, e proseguo
la sinfonia di una sbornia fino all'orazione o al sacrilegio, gli è perché
credo che a conoscere e a riferire che cosa sia e che voglia la società
presente (scopo d'ogni arte non sfaccendata) bisogni proprio affondare il
bistorì nei tumori sociali ed osservarne con paziente microscopia gli sgorghi e
le squarciature.
A raggiungere questo scopo di
conoscenza artistica e di ragguagli scientifici, ritengo non basti rendere con
le solite frasi le usuali virtù dei libri scolastici, che non fanno più presa.
Ritengo non basti neppure
raffigurare soltanto gli artifiziali spasimi della società gaudente, ladra od
oziosa, che fa principale occupazione della vita gli amorini e gli amorazzi
senza cuore e senza cure morali. A svolgere con sapiente bravura le volute di
quelle nebbie erotiche si attraggono certamente le voglie e si usurpa a buon
mercato l'ammirazione del pubblico, come ad una potenza, ad una ricchezza e ad
una raffinatezza romantica e nevrotica. Invece è un frigido e scettico
lenocinio, e una venale cantaride per le alte cortigiane scioperate.
L'evaporazione sensuale che si
dipinge dalle eleganze corrotte è imbiancatura di sepolcri, e fumo di
verniciato letamaio, è alito affannoso di una società che basisce, esalando
retoricamente l'ultimo sospiro.
Forse i germi della nuova vita
sociale si trovano nelle terre vergini, nelle plebi.
Quali siano gli accomodamenti che
potranno appianare al termine di questo ciclo storico le perpetue differenze
fra le varie commettiture sociali, non è del romanziere o del novelliere il
dirlo.
Ad esso incombe il dovere che
Giuseppe Mazzini assegnava ad ogni artista di «interrogare la vita latente,
addormentata, inconscia del popolo».
Se
da tali inchieste coscienziose, che intraprenda coraggiosamente l'arte non
schifiltosa, verrà a riconoscersi che c'è molto marasmo spirituale e molto
predominio animalesco in questa defezione di fedi, e che sopra tutti i disgusti
del presente e fra tutti gli apparecchi di rivoltoloni e disgregazioni per
l'avvenire, appena permangono vincoli immarcescibili la religione dei sepolcri,
la santimonia della famiglia, la redenzione e la salubrità fisica e morale del
lavoro e la fratellanza patria ed umana, noi per siffatto modo avremo indicati agli
apostoli i concetti, che essi dovranno fomentare, gonfiare od ingrandire per la
salvezza comune.
Così io, intitolando a te queste
cattive e brutte scene plebee, confido di portare il mio piccolo tributo alla
gentilezza ed all'estetica del bene.
Addio.
Il
tuo GIOVANNI FALDELLA.
Saluggia,
17 marzo 1884.
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