Un gradevole
lavorio da celle d'alveare ferveva nelle teste dei nostri viaggiatori. Essi
tiravano di indovinare Parigi da ciò che vedevano per istrada ferrata.
Sulle pareti di
qualche stazione lessero un cartellone che portava scritto: - SOCIETÀ PER
L'OSSERVANZA DELLE FESTE COMANDATE: - Nella celebrazione della domenica è
riposto il principio più fecondo del nostro progresso avvenire: - L'industria è
fatta per l'uomo, e non già l'uomo per l'industria; - Il riposo festivo è il
primo comandamento della legge dell'Igiene... e altri motti e sentenze di
scienza sacra o sacrestana, naturale o contorta.
- Ecco Parigi del
Sacro Cuore! - preconizzò Geromino.
Fatto
l'asciolvere (un pezzettino di carne con una abbondante guernitura di piselli,
patate, rape, cocomeri ecc. ecc.) nel pagare il conto (addizione in
francese e sottrazione in italiano secondo Goldi) questi volle
dimostrare: - Ecco Parigi economica!
Nelle fermate di
venti minuti, vedendo discendere dal treno alcune avventuriere dirette
anch'esse a Parigi; creature pompose con i capelli gialli, con le sopracciglia
dipinte e con tutta l'acconciatura propriamente clamorosa, perché scodinzolando
o dando colpi di mano sugli svolti della veste suscitavano veri sconquassi di
fruscii, - la sindachessa ebbe un tremito di vergogna, e dovette intervenire
Pino Goldi a dire per lei: - Ecco Parigi immorale!
La segretariessa
non aveva in mente altro pensiero fuorché questo: - Ah! Parigi deve essere una
città propriamente bella, perché lo dice persino La Traviata: Parigi,
o cara!
Questa era l'unica erudizione su
Parigi, che albergasse in quel cervello da cicogna, oltre alla vecchia raccolta
di un giornale delle mode regalatale dall'Agente delle Tasse.
Ben diversa era
l'erudizione, presso che ingente, che nell'avvicinarsi di Parigi si intralciava
e tenzonava nella testa dell'avvocato sindaco.
La storia, la
cultura, la civiltà, il genio francese sono così chiari, simpatici, stuzzicanti
ed espansivi, che non è una meraviglia, se ce n'era entrato qualche poco nella
testa di un sindaco rurale italiano, appartenendo questi alla categoria dei
sindaci liberali, illuminati, spregiudicati bevitori di vino e consumatori di
libri, di riviste e di gazzette.
In tutto ciò, che
è veramente e genialmente francese, havvi un non so che di gaio, di facile e di
allettante, che avvicina anche gli spiriti contrari, e fraternizza con loro,
purché siano sani e di quel buon umore che è aiutato dal cielo.
Così al credente
tollerante, di buon conto e dal capo scarico, piace di più la miscredenza di
Voltaire, che la fede ipocondriaca degli anabattisti; e così pel sincero ed
allegro amatore del popolo e della libertà è più ammaliante la memoria di
Napoleone il Grande, colla sua lucerna calcata su quella faccia sbarbata da
prevosto d'avorio, con le sue spalle alte, con il suo panciotto tirato, bianco
e rotondo, con le lunghe falde del pastrano sollevate dal vento, con il
cannocchiale, che guarda Austerlistz, con la mazza, che scrive un'operazione
aritmetica sulla neve, con la bandiera in mano sul ponte d'Arcole, con tutti i
fulmini delle vittorie a ripetizione da lui vomitate, come le scariche dei
futuri fucili ad ago, con l'intiera personificazione del piccolo sottotenente
d'artiglieria, innalzato alla altezza della Reggia, dell'Impero e dell'apoteosi
del mondo; - dico, per il vero e semplice amatore del popolo e della libertà
riesce più affascinante e più commovente la memoria di quel grande macellatore
di popoli e di libertà, che non la realtà di puri congiurati repubblicani
ristretti nell'ambiente fosco di una birreria.
La Francia è la
fanfara, è la canzone, è la doratura, è lo sciampagna, è la verità nel vino, è
l'entratura senza soggezione dell'abboccatutto, è il coraggio militare, lo
spasso mondano, è la potenza dell'elasticità, è la novità della Moda, l'Olimpo
moderno; e chi vuole convertirla o svisarla in un convento della trappa, la
avvelena, la ammazza.
Per la stessa
ragione ripugnano alla Francia, e per conseguenza a Parigi, che non solo ne è
la capitale, ma ne è la schiuma, ripugnano gli spiriti timidi, malinconici,
duri, oscuri, politici o morali, giudaici o nazareni.
Così Cesare
Beccaria chiamato in Francia dagli Enciclopedisti, che volevano festeggiarlo
per quel suo Vangelo Dei delitti e delle pene tanto benefico
dell'umanità e della civiltà, sentì la battisoffia di Parigi, appena giunto a
Novara; - da Chambery voleva già ritornare indietro; - con lo spesseggiare
delle sue lettere, che sarebbero state ridicole se non fossero state pietose,
si aggrappava alle veste della moglie lontana, come un bambino che piagnucola
sul grembiule della mamma; - giunto a Parigi in mezzo al brillante accoglimento
fattogli da quegli abati volterriani splendidi, rumorosi ed agevoli come la
superficie della migliore seta canterina, egli rigido come la camicia da notte
di un sindaco di montagna, chiuso come una marmitta, semplice e casalingo come
una lasagna lombarda, - si trovò impacciato peggio di un pulcino nella stoppa;
- egli, l'autore di un'opera di sugo filosofico maraviglioso, fu trovato da
quegli spiriti eleganti ed allaganti tonto, buzzo e soturno come scrisse
lombardamente Cesare Cantù; - e mendicando pretesti di salute, se ne ritornò più
presto che in fretta all'ombra del suo Duomo e al tepore della sua sposa,
quando prima di partire aveva disposto di fermarsi sei mesi a Parigi.
Così Vittorio
Alfieri, la cui sublime mania di ferocia ferrea, tirannicida,
greco-romana ora sembrerebbe parodia da giornale
umoristico, se non avesse spoltrito la nostra antica servitù cortigiana, - il
conte Vittorio Alfieri da Asti, per un sequestro di carte e di calze, scriveva
in questo tono al Presidente della Plebe Francese: «Il mio nome è
Vittorio Alfieri: il luogo dove io son nato, l'Italia: nessuna terra mi è
patria. L'arte mia son le muse: la predominante passione, l'odio della
tirannide; l'unico scopo di ogni mio pensiero, parola e scritto, il combatterla
sempre, sotto qualunque o placido, o frenetico, o stupido aspetto ella si
manifesti o si asconda...
«Io adunque
ridomando alla Plebe Francese i miei libri, carte ed effetti
qualunque, da me lasciati in Parigi sotto la custodia del comune diritto
delle genti civilizzate. Se mi sarà restituito il mio, sarà mera giustizia; se
ritenuto o predato, non sarà altro che una oppressione
di più fra le tante, che hanno alienato ed alienano giornalmente i più liberi e
sublimi animi dell'Europa dal sistema francese...».
E Vittorio
Alfieri trovava il cielo di Parigi più sucido del suolo fangoso che ha
procacciato alla grande città il nome di Lutezia; e la
gentilezza parigina egli chiamava frasario urbano d'inurbani petti - figlio
di ratte labbra e sentir tardo.
Così discendendo
dalle persone grosse alle piccine, ai tempi della banda zingaresca, brigantesca
e sanfedista di Brandalucioni, quando il Piemonte era scorrazzato dagli
eserciti russi, tedeschi e francesi, una volta il sacrestano di Monticella, che
si recava al mercato con una cesta di uova e un mazzo di polli, fu assalito,
saccheggiato e picchiato sonoramente per istrada da quattro soldati e un
caporale alemanni; - ma egli, ritornato nel paese tutto lacero, svaligiato,
pesto e bollato, - da uomo di partito e di convinzione quale era, ebbe la cura
di spargere la voce, che erano stati non i tedeschi ma i francesi quelli che
l'avevano derubato e malconcio, e ciò per accrescere l'antipatia contro le
novità galliche, nemiche del vecchio trono e dell'altare.
Per lo contrario,
Enrico Heine, benché elettrizzato dal più ampio spirito di libertà, - pure
perché egli aveva la febbre beffarda, satanica, ardente e sitibonda del gusto
ellenico e mondano - metteva in canzone gli spiriti rudi, puri e sofferenti dei
suoi liberali compatrioti tedeschi, e folleggiava di carezze intorno a Parigi,
come fosse stata il collo scollacciato di una ballerina, pure professando il
timore di farle del male con le sue zampacce da orso alemanno.
Geromino non
sapeva nemmeno lui se doveva atteggiarsi a Cesare Beccaria, a Vittorio Alfieri,
ad Heine, o a sacrestano di Monticella nell'ordine dei sindaci campagnuoli
rimpetto a Parigi.
Fatto sta ed è
che nell'avvicinarsi alla Babilonia moderna egli sentiva una spasimata
soggezione di accostarvisi.
Il treno si incanalava
fra le abitazioni; e il dabben sindaco leggendo sulle porte e sulle
finestre delle trattorie suburbane: Stanzini per nozze, salotti per brigate,
sentiva scorrere sul suo cuore il diamante degli anelli, che rabescano
motti osceni sopra il vetro degli specchi incrinati; sentiva il grido soffocato
di fanciulle, a cui si faceva del male; guardava sua moglie, che si ripiegava
su se stessa all'annunzio che si entrava in Parigi.
Pino Goldi aveva
un aspetto da operetta buffa, la signora Clitennestra pareva attendere il
prossimo trionfo a lei dovuto e al suo cappellino.
Il sindaco si
sentiva a volte a volte vuotare la testa e poi riempire da mille ricordi: -
Cesare coi suoi piccoli soldati, e le sue parlate superbe, nervose, di due
righe a quei parlamenti di giganti, sempre promettenti e sempre mancatori di
parola; - Faramondo, e tutta quella galleria di re con chiodi e pettini in
testa; - il conte Orlando e Rodomonte; - i Merovingi, i Carolingi, i Capetingi
e i Napoleonidi, - la duchessa di Berry accalappiata da Thiers, - Luigi Filippo
che faceva da re con la dignità di un negoziante da paracqua, e che usciva al
proscenio del suo balcone pei battimani di quattro impresari di applausi pagati
dai viaggiatori inglesi; - Napoleone III con il suo plumbeo ingegno da
giocatore; - l'occhio di bue di Luigi XIV; - i calzoni unilaterali della
figlia di Madama Angot; - il lievito minotaurino che bolle nel ciclo romanzesco
di Emilio Zola; - Gustavo Buona Lana del Kock, che gioca al bigliardo alle
spalle di un marito baggeo; - il mondo tornito e luccicante di Balzac; - i
generali russi di Scribe; - i gesuiti di Sue; - le spalle quadre e le scarpe
basse contadinesche del menestrello patriarcale e patriottico Bèranger; - la
critica, la tribuna, a cui sta attento tutto il mondo.
Il povero sindaco
aveva paura di vedersi comparire dinanzi realmente le cose e le persone, che
aveva conosciuto pel mezzo fantastico della letteratura; non gli sembrava vero
di dovere scendere proprio lui a Parigi; tutte quelle reminiscenze di storie,
di commedie, di romanzi e di giornali facevano del suo pensiero un proiettile
che andava, volava, quasi fosse lanciato da una balista, e poi cadeva con il
languore del convoglio che si fermava. Dopo quell'eruzione scompigliata di
evocazioni letterarie il meno che egli si aspettava di vedere a Parigi era una
città, le cui case avessero le fondamenta in aria.
Invece, appena
uscirono dalla stazione di Lione: Déception! fu la voce, che pronunciata
dal Goldi con la maggiore imitazione comica dell'accento francese interpretò
meglio il sentire di tutti.
Una stazionaccia;
una piazzaccia rialzata; la prospettiva sprofondata di osterie, e di caffè
nell'architettura impolverata degli stabilimenti che si ammirano lungo gli
stradoni provinciali; - malgrado lo sciopero dei fiaccherai, quattro vetturaccie
disponibili, e un omnibussaccio, sul quale si caricano Geronimo e compagnia.
Sentono per via i
ribaltoni cagionati dall'acciottolato acuto, rado e scomposto, peggiore di
quello di Roma; e credono di camminare con il sedere seduto sopra baionette di nemici
sotterranei.
- Ah! è quella la
grande cattedrale di Notre-Dame?... Un
pendolo da caminetto. - Sono quelle le torri del Palazzo di Giustizia?... Tanti
spegnitoi. - Quell'altra torre?... Un agoraio.
La bocca di
Geromino si riversa in un punto di esclamazione: e quella del segretario si
virgola in un punto di interrogazione.
Palazzi in forma
di gabbie, case troncate come tagli di formaggio, spaccati di abitazione
sporchi di fuligine, coi segni dei passaggi delle cloache intestine, - muraglie
da gioco del pallone, che formano un solo castello da ciarlatano, ecco quello
che veggono unicamente i nostri attori nella loro prima entrata in Parigi. Sui
loro visi sta dipinto quel broncio di un nero particolare, che si deve quasi
sempre ai calzolai per le scarpe che fanno troppo strette.
Rotolati fino
all'alloggio particolare ed economico, che eglino avevano già fissato in rue
du Bac, ecco le impressioni, che si comunicarono a vicenda, appena si
sedettero tutti e quattro sulle due sedie del loro appartamento.
La signora
Clitennestra, cui i Parigini, benché assuefatti a vedere chinesi, beduini e
donne dei Paesi Bassi nelle loro fogge originali, avevano guardato fermandosi
per istrada con una specie di ammirazione spavalda e di spavento minchionatorio,
fermandosi specialmente sull'enorme cappellino munito della terribile penna
rossa, disse, che ella già capiva, come in questo paese non ci fossero
signori, ma ci fossero soltanto contadini.
Pino Goldi
confessò che aveva fame, e che dubitava di potersi sfamare a Parigi.
La signora
Geromino si ricordò con raccapriccio, che non aveva dato i due giri della
serratura alla guardaroba della biancheria, prima di partire da casa.
E Geromino
conchiuse: ‑ Certi viaggi è meglio leggerli, che farli.
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