Ugo Foscolo
Dell’origine e dell’ufficio della letteratura

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Finché la filosofia s’attenne all’utile verità della pratica morale e politica, e che l’eloquenza s’attenne alla filosofia, la città fu retta da quegli ambiziosi che la natura destina alla prosperità delle repubbliche, da che gli ha dotati d’animo generoso e di egregia prepotenza d’ingegno. E come i principi degli Ateniesi non doveano mostrarsi ardenti, prodi, avveduti, se dalla loro virtù pendeva la loro patria, e dalla patria la loro gloria e la loro possanza? come la loro voce si sarebbe mai dipartita dalla passione e dal vero, se l’eloquenza sola svolgeva le anime fervide e liberissime de’ loro concittadini? Ma poiché il furore d’imperio, di ricchezze e di fama è più vile e più cieco [65] quanto più vive negli uomini meno degni, e l’eloquenza signoreggiava in Atene i teatri, i licei, i parlamenti e gli eserciti; tutti i faziosi che la natura non avea creati facondi, s’argomentarono di aiutarsi dell’arte. Se non che il pensiero e il modo di rappresentarlo risultando dalla tempra e dall’accordo del cuore, dell’immaginazione e del raziocinio, l’eloquenza non è frutto di verun’arte; ché se la natura non forma vigorose, arrendevoli e bilanciate in un uomo queste potenze, qual occhio mai saprà indagarne i difetti, qual mano applicarvi i rimedi? E non pertanto, mentre la civile filosofia fu adulterata dall’arte dialettica l’eloquenza cominciò ad essere manomessa dalla rettorica. [66] Già la metafisica, allettando gl’ingegni più nobili alle sublimi contemplazioni, facea sì ch’ei sdegnassero di dar utili esempi alla loro patria per aspirare ad ammaestrarla su le leggi del globo, del sole, dei cieli, dell’etere, del caos, dell’eternità, dell’universo; grandi nomi, incomprensibili idee, e quindi involute in voci mirabili al volgo. Con questo esempio si coacervarono in un vocabolo solo molte idee morali che già nell’uso erano determinate e sicure, ma che riunite in una diveniano indistinte e parvero astratte; indi, sotto colore di dilucidarle, furono tanto divise, che le loro fila facendosi impercettibili, anche le loro parti sembrarono opposte tra loro, e bisognarono [67] nuovi termini, astrusi anch’essi, perché applicati a nozioni ignote all’uso ed all’esperienza: così gli ingegni, sviandosi nel labirinto delle speculazioni, armandosi di termini universali in cui si presumea d’indicare l’essenza, le qualità, le quantità, gli accidenti, i caratteri, le differenze e le coerenze di tutte le cose, e schermendosi o con distinzioni, inesatte sempre perché le parole erano indefinite ed ambigue, o con definizioni che promettevano di accertare la natura degli enti, ma che sviavano dalla certezza del loro uso, s’imparò ad insidiare la ragione e a far sospetta la verità: quindi la moltitudine de’ sofisti, l’indifferenza del vero ch’essi non sapeano difendere, l’irriverenza al giusto ed al bello che poteano negare, l’amore del [68] paradosso da cui solo attendeano trionfi, l’infinito numero delle quistioni, la libidine eterna di controversie, l’arte dialettica insomma. Su queste trame fu tessuta l’arte rettorica da quei letterati venali che, promettendo di far eloquenti gl’ingegni vani e le lingue più invereconde, ebbero le cattedre affollate di demagoghi e di pubblicani che già con le speranze invadeano gli onori, le leggi e l’erario della repubblica. Primo Gorgia, che non poteva amare una città ovegli era mercenario e straniero, insegnò in Atene a blandire i vizi e l’ignoranza del popolo, ammaliandogli l’intelletto con la pompa delle figure, chiudendogli il cuore alla voce degli affetti e del vero, lusingandogli i sensi con l’azione teatrale e con la cadenza di periodi aculeati e sonanti35. Salì sul teatro e si proferì parato a qualunque argomento; e mostrò che si può declamare con lode senza meditazione36. Foggiò canoni d’eloquenza e di stile, e fu padre della turba clamorosa, implacabile de’ grammatici intenti sempre ad angariare gli scrittori obbedienti e a scomunicare i magnanimi. Insegnò antitesi a chi non avea nervi e spiriti nel pensiero37, luoghi comuni a chi non sapea le materie38, descrizioni ed [70] amplificazioni a chiunque mancava di fantasia pronta e pittrice, lenocinio di declamazione a chi non avea dignità di aspetto e di voce, lascivia d’idioma a chi cercava le grazie, superstizioni per le regole inanimate a chi non ha senno da considerarle calde e parlanti nei sommi scrittori, l’arte, insomma, che nel petto de’ letterati fa sottentrare all’emulazione l’invidia, all’ardore di fama la vanità degli applausi, all’esempio l’imitazione, al sapere l’erudizione, l’arte, o giovani, che moltiplica i precettori, che nella prima educazione snerva le fibre de’ più forti [71] intelletti, che per tanti secoli fe’ ricca d’inezie l’italiana letteratura. Almeno la letteratura fosse divenuta disutile, senza divenire scellerata ed infame! Ma quel Gorgia stesso, ravviluppando nelle fallacie dell’arte dialettica anche le verità concedute al senso e alla mente degl’idioti, celebrò in Atene un mestiero che valeva a coronare il delitto39, a insanguinar l’innocenza, ad esaltare le usurpazioni degli opulenti, a santificare le libidini della democrazia e le carnificine della tirannide, a tradire la patria, a vendere l’anima, a contaminare di fiele e di sangue la vecchiaia di Socrate.

 





35 Platone, Hipp. maj.; Cicerone, Orator, cap. 49; Dionisio Alicarnass., Epistola ad Amm., cap. 2.



36 Platone in Gorgia; Cicerone, De finibus lib. II, cap. 1 ed altri.



37 Ecco un passo di Gorgia recato da Plutarco e da noi tradotto letteralmente: La tragedia è un inganno nel quale colui che inganna diviene più giusto del non ingannante, e l’ingannato più saggio del non ingannato. Vedi l’opuscolo De audiendis poetis.



38 Corace siracusano mandò primo in Grecia un libro rettorico, tessuto su le fallacie dialettiche. Vedi i Prolegomeni ad Ermogene presso i rettorici antichi; ed Aristotile, Rhet., lib. II, cap. 24. Quindi Protagora, discepolo di Democrito, scrisse il libro Dei luoghi comuni; Arist., ib., lib. I, cap. 2, e Cicerone, Topic.



39 Gorgia, presso Cicerone, De claris oratoribus, cap. 12.



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