Ugo Foscolo
Dell’origine e dell’ufficio della letteratura

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Così l’arte andò deturpando sino a’ nostri le lettere: non però valse ad annientare il decreto della natura che le destinò ministre delle immagini, degli affetti e della ragione dell’uomo. E mentre Isocrate pronunziava dopo dieci anni di squisitissima industria un panegirico della repubblica, ove intendendo di esaltarla con l’eloquenza, vituperavala col raziocinio51; e mentre verseggiatori e sofisti trafficavano l’ingegno e le muse, Tucidide, Demostene e Senofonte apparecchiavano esempi immortali d’elevata, di maschia e di affettuosa eloquenza. La storia di Plinio e i versi di Giovenale e di Persio insegnarono a’ declamatori e a’ poeti di Roma come le lettere giovino alle scienze, e consacrino gli adulatori ed i vizi all’infamia. Anzi Tacito imposefattamente rispetto a quei retori, che, non attentandosi di nominarlo, lasciarono scritto ne’ loro libri: Che l’alto spirito e la verità perigliosa degli annali d’un loro contemporaneo, benché meritevoli della memoria de’ secoli, non conseguirebbero imitatori52. Dai mezzi con che gli egregi letterati di tutte le età ottennero fama ed amore nel mondo, appare omai [87] l’ufficio della letteratura; appare che la natura, creando alcuni ingegni alle lettere, li confida all’esperienza delle passioni, all’inestinguibile desiderio del vero, allo studio dei sommi esemplari, all’amor della gloria, alla indipendenza dalla fortuna ed alla santa carità della patria. Qualunque manchi di queste proprietà negli uomini letterati, niun’arte mai, niun istituto d’università o d’accademia, niuna munificenza di principe farà che le lettere non declinino, e che anzi non cadano nell’abbiezione ove tutte o in gran parte mancassero queste doti. O Italiani! qual popolo più di noi può lodarsi de’ benefìzi della natura! ma chi più di noi (né dissimulerò ciò che sembrami vero, [88] quando l’occasione mi comanda di palesarlo), chi più di noi trascura o profonde que’ benefizi! A che vi querelate se i germi dell’italiano sapere sono coltivati dagli stranieri che ve gli usurpano? 53 meritamente ne colgono il frutto: la letteratura che illumina il vero fa sovente obbliare gli scopritori e lodare con gratitudine chiunque sa renderlo amabile a chi lo cerca. Pochi, è vero, in Italia levarono altissimo grido, non perché soli filosofassero egregiamente, ma perché egregiamente scrivevano le loro meditazioni, e perché, amando la loro patria, si [89] emanciparono dall’ambizioso costume di dettare le scienze in latino, ed onorarono il materno idioma: quindi le opere del Machiavelli e di Galileo risplendono ancora tra i pochi esemplari di faconda filosofia; e lo stile assoluto e sicuro del libro De’ delitti e delle pene, e l’elegante trattato del Galiani Su le monete vivranno nobile ed eterno retaggio tra noi; e mille Italiani sanno difenderlo dalla usurpazione e dalla calunnia. Ma poiché oggi gli scienziati non degnano di promuovere i loro studi con eloquenza, poiché non si valgono delle attrattive della loro lingua per farli proprietà cara e comune agl’ingegni concittadini, non sono essi soli colpevoli se pochi si curano, se pochissimi possono vendicare la loro fama, e se tutti corrono a dissetarsi ne’ fonti, i quali, se non sono più salutari, sembrano almeno più limpidi? Quanti dotti non serbano ancora in Italia con sudori e con zelo la riverenza e l’amore alla lingua e alle opere greche? e chi di loro non ci esalta Tucidide che fu esempio al sommo degli oratori e alla velocità di Sallustio e alla fede di Tacito? chi non ci esalta Senofonte, pregno di socratica virtù e di passione e di storia e di militare scienza e di soavissimo stile? e Polibio, insigne maestro di governo e di guerra? ma chi mai dotto di greco diffonde le loro ricchezze? chi li traduce con amore uguale alla loro fama? Giacciono que’ solenni scrittori nell’obblio de’ volgarizzatori imprudenti e venali dei secoli scorsi, e ad ogni italiano educato è pur forza di studiarli in lingua straniera e comperare [91] a gran prezzo i barbarismi che vanno ognor più deturpando la nostra. Io vedo cinquanta versioni delle lascivie di Anacreonte, e non una de’ libri filosofici di Plutarco, non una degna di palesar que’ tesori di tutta la filosofia degli antichi. Volgetevi alle vostre biblioteche. Eccovi annali e commentari e biografi ed elogi accademici, e il Crescimbeni ed il Tiraboschi ed il Quadrio; ma dov’è un libro che discerna le vere cause della decadenza dell’utile letteratura, che riponga l’onore italiano più nel merito che nel numero degli scrittori, che vi nutra di maschia e spregiudicata filosofia, e che col potere dell’eloquenza vi accenda all’emulazione degli uomini grandi? Ah le virtù, le sventure [92] e gli errori degli uomini grandi non possono scriversi nelle arcadie e nei chiostri! Eccovi da altra parte e cronache e genealogie e memorie municipali, e le congerie del benemerito Muratori, ed edizioni obbliate di storici di ciascheduna città d’Italia; ma dov’è una storia d’Italia! E come oserete lodare senza rossore gli esempi di Livio e di Niccolò Machiavelli, se voi potete e non volete seguirli! Come ricambierete le vigilie de’ nostri padri, se non profittate de’ documenti che vi apprestarono? È vero; niuno rammemora senza lagrime le liberalità della famiglia de’ Medici verso le arti belle e le lettere; ma si aspettò che un Inglese, disotterrando i tesori de’ nostri archivi, rimeritasse i principi italiani d’un esempio che illuminò la barbarie dell’Europa: si aspettò che la storia de’ secoli di Lorenzo il Magnifico e di Leone X ci venisse di dell’oceano. O Italiani, io vi esorto alle storie, perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi facciano rispettare, né più grandi anime degne di essere liberate dalla obblivione da chiunque di noi sa che si deve amare e difendere ed onorare la terra che fu nutrice ai nostri padri ed a noi, e che darà pace e memoria alle nostre ceneri. Io vi esorto alle storie, perché angusta è l’arena degli oratori; e chi omai può contendervi la poetica palma? Ma nelle [94] storie, tutta si spiega la nobiltà dello stile, tutti gli affetti delle virtù, tutto l’incanto della poesia, tutti i precetti della sapienza, tutti i progressi e i benemeriti dell’ italiano sapere. Chi di noi non ha figlio, fratello od amico che spenda il sangue e la gioventù nelle guerre? e che speranze, che ricompense gli apparecchiate? e come nell’agonia della morte lo consolerà il pensiero di rivivere almeno nei petti de’ suoi cittadini, se vede che la storia in Italia non tramandi i nobili fatti alla fede delle venture generazioni? Forse la sola poesia e la magnificenza del panegirico potranno rimunerar degnamente il principe che vi leggi e milizia e compiacenza del nome italiano? Oh come all’esaltazioni [95] con che Plinio Secondo si studia di celebrare Traiano, oh come il saggio sorride! ma quando legge le poche sentenze di Tacito, adora la sublime anima di Traiano, e giustifica quelle vittorie che assoggettarono i popoli all’impero del più magnanimo tra i successori di Cesare54. Quali passioni frattanto la nostra letteratura alimenta, quali opinioni governa nelle famiglie? Come influisce in que’ cittadini collocati dalla fortuna [96] tra l’idiota ed il letterato, tra la ragione di Stato che non può guardare se non la pubblica utilità, e la misera plebe che ciecamente obbedisce alle supreme necessità della vita, in que’ cittadini che soli devono e possono prosperare la patria, perché hanno e tetti e campi ed autorità di nome e certezza di eredità, e che, quando possedono virtù civili e domestiche, hanno mezzi e vigore d’insinuarle tra il popolo e di parteciparle allo Stato? L’alta letteratura riserbasi a pochi, atti a sentire e ad intendere profondamente; ma que’ moltissimi che per educazione, per agi e per l’umano bisogno di occupare il cuore e la mente sono adescati dal diletto e dall’ozio tra’ libri, denno ricorrere a’ giornali, alle novelle, alle rime; così si vanno imbevendo dell’ignorante malignità degli uni, delle stravaganze degli altri, del vaniloquio de’ verseggiatori; così inavvedutamente si nutrono di sciocchezze e di vizi, ed imparano a disprezzare le lettere. Ma indarno la Ciropedia e il Telemaco, tramandatici da due mortali cospicui nelle loro patrie per dignità e per costumi, ne ammoniscono che la sapienza detta anch’essa romanzi alla Musa e alla Storia; indarno il Viaggio d’Anacarsi ci porge luminosissimo specchio quanto possa un romanzo senza taccia di menzogna [98] iniziare i men dotti nel santuario della storica filosofia; indarno e i Germani e gl’Inglesi ci dicono che la gioventù non vive che d’illusioni e di sentimenti, e che la bellezza non è immune dalle insidie del mondo; e che, poiché la natura e i costumi non concedono di preservare la gioventù e la bellezza dalle passioni, la letteratura deve, se non altro, nutrire le meno nocive, dipingere le opinioni, gli usi e le sembianze de’ giorni presenti, ed ammaestrare con la storia delle famiglie. Secondate i cuori palpitanti de’ giovinetti e delle fanciulle, assuefateli, finché sono creduli ed innocenti, a compiangere gli uomini, a conoscere i loro difetti ne’ libri, a cercare il bello ed il vero morale: le illusioni de’ vostri racconti svaniranno dalla fantasia con l’età; [99] ma il calore con cui cominciarono ad istruire, spirerà continuo ne’ petti. Offerite spontanei que’ libri che, se non saranno procacciati utilmente da voi, il bisogno, l’esempio, la seduzione li procacceranno in secreto. Già i sogni e le ipocrite virtù di mille romanzi inondano le nostre case; gli allettamenti del loro stile fanno quasi aborrire come pedantesca ed inetta la nostra lingua; la oscenità di mille altri sfiora negli adolescenti il più gentile ornamento de’ loro labbri, il pudore. E trattanto chi de’ nostri contemporanei va fingendo novelle su gli usi, lo stile e le fogge dell’età del Boccaccio; chi segue a rimare sonetti; né l’ingegno eminente né la sublime poesia di que’ pochi che [100] custodiscono la riputazione degli stati e dei principi basta per avventura a serbare inviolato il Palladio della patria letteratura. Ah! vi sono pure in tutte le città d’Italia uomini prediletti dalla natura, educati dalla filosofia, d’incolpabile vita, e dolenti della corruzione e della venalità delle lettere; ma che, non osando affrontare l’insidie del volgo dei letterati e le minacce della fortuna, vivono e gemono verecondi e romiti. O miei concittadini! quanto è scarsa la consolazione d’essere puro ed illuminato senza preservare la nostra patria daglignoranti e dai vili! Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra nazione, e potrete alfine conoscervi tra di voi, ed assumerete il coraggio della concordia; né la fortuna, né la calunnia [101] potranno opprimervi mai, quando la coscienza del sapere e dell’onestà v’arma del desiderio della vera ed utile fama. Osservate negli altri le passioni che voi sentite, dipingetele, destate la pietà che parla in voi stessi, quella unica virtù disinteressata negli uomini; abbellite la vostra lingua della evidenza, dell’energia e della luce, delle vostre idee, amate la vostra arte e disprezzerete le leggi delle accademie grammaticali ed arricchirete lo stile; amate la vostra patria e non contaminerete con merci straniere la purità e le ricchezze e le grazie natie del nostro idioma. La verità e le passioni faranno più esatti, men inetti e più doviziosi i vostri vocabolari; le scienze avranno veste italiana, e l’affettazione de’ modi non raffredderà i vostri pensieri. [102] Visitate l’Italia! o amabile terra! o tempio di Venere e delle Muse! e come ti dipingono i viaggiatori che ostentano di celebrarti! come t’umiliano gli stranieri che presumono d’ammaestrarti! Ma chi può meglio descriverti di chi è nato per vedere, fino ch’ei vive, la tua beltà? chi può parlarti con più ferventi e con più candide esortazioni di chiunque non è onoratoamato se non ti onora e non t’ama? Né la barbarie de’ Goti, né le animosità provinciali, né le devastazioni di tanti eserciti, né le folgori de’ teologi, né gli studi usurpati da’ monaci, spensero in quest’aure quel fuoco immortale che animò gli Etruschi e i Latini, che animò Dante nelle calamità dell’esilio, e il Machiavelli nelle angosce della tortura, e Galileo nel terrore della inquisizione, e Torquato nella vita raminga, nella persecuzione [103] de’ retori, nel lungo amore infelice, nella ingratitudine delle corti, e tutti questi, e tant’altri grandissimi ingegni nella domestica povertà. Prostratevi su’ loro sepolcri, interrogateli come furono grandi e infelici, e come l’amor della patria, della gloria e del vero accrebbe la costanza del loro cuore, la forza del loro ingegno e i loro beneficj verso di noi.

 





51 In quell’orazione Isocrate piantò per assioma che l’eloquenza debba magnificare le minime cose ed impicciolire le grandi; e procede esaltando i benemeriti degli Ateniesi. Vedi Longino, Del Sublime, cap. 38, che da quell’assioma, desume il vituperio d’Atene.



52 Quintiliano, Institut., lib. X, cap. 1.



53 Leggi l’orazione inaugurale Intorno al debito di onorare i primi scopritori del Vero di Vincenzo Monti, che in questa cattedra nell’università di Pavia fu mio predecessore.



54 E che dirò io di quegli scrittori che senza celebrità letteraria, senza onore domestico, senza amore agli studi e alla patria s’accostano a celebrare le glorie del principe? Infami in perpetuo, se la loro penna potesse almeno aspirare ad una infame immortalità! Ma vili e ignoranti ad un tempo hanno per principio e fine d’ogni linea che scrivono, il prezzo della dedicatoria. Sapientemente Ottaviano, che era in necessità di alimentare le lettere e di rispettare gl’ingegni, spediva decreti perché gli scrittori d’ignobile fama non lo lodassero: Ingenia saeculi sui omnibus modis Augustus fovit. Recitantes et benigne et patienter audivit; nec tantum carmina et historias, sed et orationes et dialogos. Componi tamen aliquid de se, nisi et serio et a praestantissimis offendebatur; admonebatque praetores, ne paterentur nomen suum commissionibus obsolefieri. Sveton., Lib. II, (cap. 89), 3.

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