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SCENA 2a
TESÈO, ARCADE, EDIPPO, ANTIGONE.
Eccovi il re.
Mortal qual sia,
Sorgi, che vuoi?
Se vecchio, cieco, e in forme abjette osava
Appresentarsi a te – Spesso dall'alto
Volto hanno i Numi agli infelici il guardo,
Tale io mi son, quant'altri il fosse; a sdegno
Deh non abbi la inchiesta – Asilo darmi...
Oh chi se' tu? Donde ne vieni? Oh fera
Orrida vista! Deh qual tua sventura
D'ambo i lumi t'orbava? Tal non certo
Nascesti tu, che pur vegg'io degli occhj
Dalle incavate fosse escirne il sangue
Per dense stille, e giù scenderti al petto...
Oh misero!...
Un esemplo tremendo – Io tal non nacqui
Qual or me vedi, o qual mi vide un giorno
Entro Trezene il tuo gran padre Egèo.
E a cui venivi?
Ma allor la fresca gioventù sul volto
Stavami, e altrui non la cedeva, o fosse
Nel corso, o in brandir ferro, o inseguir belve...
Ma l'età passa, e più non torna!... Ahi lasso!
Che il Cielo avverso a me ad un tempo tolse
E le dovizie, ed il maggior dei beni
La vista!...
Mi prende!... Or deh buon vecchio ti rinfranca,
Libero parla, qual chiedesti asilo
Avrai dentro Colono, il giuro, dimmi
Qual fu la patria tua?
Tebe.
Che sento!
Ah noi perduti!
Empia città, che di tue colpe infami
Hai minori le pene! Illustre troppo
Pei parricidj, per gli incesti, e gli odj
Ereditari, e pei delitti ignoti
Da Cadmo in poi!... Ma di', viv'anco Edippo?
Che fa quell'empio? Ove ricovra? In quali
Lidi portò la vendetta celeste?
Di mille falli, e ben di Cadmo erede
Cerca altre colpe? Oh che dich'io? Quai puote
Inventar colpe e Pluto, e quante aduna
Per eccelsi misfatti alme dannate
Erebo tutto, che pur sien minori
Anco respira
Aura abborrita, d'abborrita vita,
E tal ch'ogn'uom tranne i suoi figli iniqui
N'avrien pietade! Oh qual viv'egli chiedi?
Esul, cieco, cadente, occulto, e noto
Al solo suo destin, perseguitato
Dagli uomini, dal Ciel, da' suoi delitti,
Mosse gran tempo fuor di quelle mura,
Che macchiò di delitti, alto invocando
In suo soccorso i fulmini di Giove!
Oh ben gli sta! Ma ad un Edippo poca
Fora una morte, e mille averne, e mille
Tu parli
Vero, Signor. Nulla adeguar (se a fama
Fidanza presti, che dei grandi i vizj,
E le virtudi a suo talento spesso
Sublima, oscura) può d'Edippo i falli
Nulla agguagliar – Soffri però che nato,
Cresciuto, e bianco fatto il crine in Tebe,
A te d'Edippo le cagion, che a colpe
Non volute lo trassero disveli.
Che dir potrai?
Non emendate in odio ai Numi, a lungo
Percossa Tebe, e indarno sempre, alfine
Dovea de' feri Labdacidi il sangue
Purgar le colpe d'una infame corte –
Edippo fu, che il Ciel stromento, e pena
De' non suoi falli a sua vendetta scelse;
Lo scelse sì, ma egli sa pur che iniquo
Fu perché il volle, e reo del mondo in faccia
Di lui nel Cielo l'innocenza è nota.
Tal se il Tonante allor che i nembi aduna,
E le tempeste, e i dardi avventa, e in polve
Riduce i Templi suoi medesmi, Giove
Empio perciò non è, né quanto crede
L'insano vulgo il fulmine profano.
Se in Delfo i Dei disser che spento Lajo
Fora dal figlio anco non nato, come
Dirsi poteva anzi ch'ei fosse iniquo?
Nodrito Edippo in strania corte, ignoto
Agli altri, a sé, la mai fallace lingua
Del Delfico Profeta interrogando
Pien di desio, di santo amor si volse
Ratto in Beözia a ricercar del padre.
Trovollo ah lasso! che di ferro armato
Di Focide sul ponte, e con minacce,
E con insulti il giovinetto appella
A singolar tenzone; ei lo fuggiva,
E lo pregava per gli Dei che in pace
Ir nel lasciasse a lui cedendo il passo,
E si torcendo dal cammin suo dritto,
Ma invan, che Lajo dal destin suo tratto
Ebbro di sdegno col nudato acciaro
Sovra Edippo correndo orribilmente...
Misero ei cadde, e pria che a Dite l'alma
Dello non conscio genitor varcasse
Fuggiasco Edippo in sen delle foreste
Dalle veglie lunghissime consunto,
Dai rimorsi, dai palpiti di morte
Trovossi in Tebe a consumar novelli
Non voluti delitti – E della Sfinge,
Che ritta immota sulla immonda rupe
Stava ingorda di sangue, e mai satolla
Sciolse l'enimma – Or che ti narro cose
A te non men che a Greciatutta, e al mondo
Ben troppo conte? Ed il polluto ostello,
E le notti nefande, e i scellerati
Infami amplessi di Giocasta madre,
E fratel de' suoi figli, e de' fratelli
Padre... Signor ecco d'Edippo i falli.
Ma sì punendo di sua man se stesso
Dal capo antico con rabbia si svelse
Gli occhj, e gittolli della madre ai piedi,
Della infelice, non colpevol madre!...
Ma i figli, i figli... Oh non inteso mai
Più che umano furor! coi pie' fra gli urli
Feri di morte calpestar del padre
Gli occhi di pianto, e di sangue grondanti,
E lo cacciar fuor della reggia – Ei vive
Esul, ramingo, dai rimorsi atroci
Lacerato, inseguito, al Ciel mostrando
Le vuote cave della cieca fronte.
Pietade no, ma d'una morte lunga
E l'avrà tal ch'il merto –
Ei vada intanto, e altrove porti quella
Maledizion, che lo accompagna – Edippo
È nome tal, che per sé solo basta
A destar lo spavento in ogni petto –
Quindi si lasci, e a te si torni – Asilo
Chiedesti, darlo a te giurai; ragione
Vuol che tu poscia e 'l sangue ond'esci, e quali
Aspre vicende in sì terribil stato
Credimi, tale mi son io, che il dirlo
Sollievo alcuno a' mali miei non fora,
Né a te in udirlo util verria, né danno
Niuno per certo – A te possente, e grande,
E cui ben siede assimigliarsi ai Numi
Saper che giova qual d'un vecchio imbelle
Sangue trascorra entro le fredde vene?
Alto mistero ne' tuoi detti io leggo...
Né ragion scerno, onde celar ti debba
A me cui franco pria chiedesti stanza...
Sacro per fama agli ospitali Numi
L'attico suol fu sempre, indi securo
Al felice signor di questa terra
Rivolsi il piede – Oh se pietade alcuna
Entro al tuo petto generoso senti
Non chiedermi, gran re, qual io mi fossi;
Qual mi sia tu 'l vedi, e certo a nullo
Già avuto avrei miei dì, se in salvo avessi
Saputo questa infelice mia scorta...
Qual t'è costei?
Né d'altra prole
Tu padre?
Deh così nol fossi!
Or come
Sceglier potesti al tuo venir qui duce
Donna di membra anco non ben formata
Fra gli altri figli?
Ahi troppo!
Né quanto dessi a nostra infame stirpe
Anco nol son, ma un dì verranlo, spero.
Parranti il so, che tali aver pur densi
Di genitor sul labro – Ah forse padre
Tu d'ampia, eletta, e riverente prole
Ami te stesso ne' tuoi figli – Il Cielo
Sa se padre vi fu, che tanto amasse
Quant'io suoi figli! Oh s'io gli amava! Questo
Ben tel può dir donna innocente, solo
A mia cadente senettude appoggio –
Or vedi intanto e cieco padre, e imbelle
Suora cacciati da que' crudi in bando,
Quindi ricetto altrui chiedendo, o scarso
M'ebbi, ch'io sappia, ch'aver loro io data
La vita.
Inver gran cose a me tu narri!
Da meraviglia, da terror compreso
Non so ben quale a' tuoi racconti io debba
Fede prestar – Pur se il grave tuo volto,
Il crin tuo bianco, i franchi alteri modi,
E la fiducia, e la pietà non finta
Contemplo di costei, che da' tuoi fianchi
Immobil pende, e cui dal ciglio io veggo
Cader lagrime in copia, più che audace,
Infelice ti estimo – Or tu li scorgi
Alle mie stanze – Anzi che il dì poi cada,
Meglio vedrò se degno appien tu sia
Della pietà, che per te sento in petto –