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A PSICHE
Che fai, deliziosa fanciulla? – Io credeva che il tuo cuore volando dietro a' piaceri non si ricordasse più del suo Lorenzo. Tu non sei sventurata, [non]3 sospiri con me la perduta felicità. Una mesta illusione ti chiama sovente nella mia solitudine. Io ti parlo e mi faccio rispondere. Talvolta rammentandomi le nostre ore di paradiso ti mando de' baci; e mi sento su le labbra una certa fresca soavità come se tu m'avessi baciato in quel momento. E ieri io mi alzava dal letto salutandoti: “Addio, addio, piccola Deità: tu forse non sai, nè t'importa, s'io vivo.” Ma verso sera la tua lettera mi ha rimproverato i miei sospetti; ed io l'ho bagnata di lagrime riconoscenti.
Buon giorno dunque. Che la tua bellezza e la tua gioventù sorridano sempre come l'aurora di questa mattina. Sempre? – Cielo cielo, abbi pietà della mia giovinetta!
Che ti dirò intanto? – I miei mali?.... no: la tua compassione sarebbe un balsamo, è vero, al mio povero cuore; non sarà però mai ch'io voglia avvelenare la pace e la voluttà fatte per la tua anima angelica, e per la tua sacra bellezza.
Tu vuoi nondimeno ch'io ti scriva quello che ho imparato nel mio viaggio. Innocente! Gli uomini son tutti bassi con la ricchezza e orgogliosi con la povertà. Ciascuno è scellerato quando il proprio interesse non lo strascini a offrire delle ippocrite adorazioni a quel fantasma che la società cui torna d'ingannarsi, e d'ingannare, chiama pomposamente virtù. – Ecco tutto.
Ma io scrivo a te, e non alla ippocondriaca filosofessa che comincia finalmente a moralizzare.... e ne appello ai vecchi amici di casa tornati nella grazia di madonna dopo l'ingrato abbandono. – Cura per altro di non nimicartela. Le antiche galanti sono per lo più di buon cuore e cercano per le altre quello che hanno perduto con la giovinezza fuggitiva.
Ascolta. Le donne belle sono nate per amare, e per essere amate. E tu forse mi dici sorridendo: lo so meglio di te. Bada; ancora non t'avvedi che mille basse passioni e il cieco delirio dell'amore turbano quasi sempre le delizie del piacere. Imita la celeste Temira. A questa sacerdotessa di Venere ho consacrato le primizie della mia gioventù. Ella amava le buone qualità delle donne, e sfuggiva senza maldicenza i lor vizi. Ammirava in taluna lo spirito, in tal altra il cuore, in questa la gioventù, in quella i vezzi, ed ammirava tutti questi doni in sè stessa... Ma non n'era avara per questo. Viveva e lasciava vivere. Il mistero apriva e chiudeva le cortine del suo letto: – il mistero; intendi? – Era amante per cinque giorni, ma amica per tutta la vita.
Era un dopo-pranzo d'estate. Ella stava ignuda sopra il suo letto. Appoggiava il gomito sui guanciali, e la testa alla palma della mano. Io le giaceva vicino ancora anelante, e appena uscito dagli arcani ove la Dea mi aveva iniziato. Mi accarezzava scherzando; ed io alzava di tratto in tratto la testa e la baciava quasi per ringraziarla libando dalle sue labbra i respiri per i quali ella rinveniva a poco a poco dalla sua voluttuosa agonia. Il desiderio intanto calmato ma non estinto mi porgeva il nettare del piacere; ed io lo assaporava a piccoli sorsi. Le mie mani e i miei sguardi erravano qua e là estatici su quelle bellezze che l'impeto della passione m'avea dapprima mostrato confusamente. La sua bocca umida e socchiusa, la fisonomia passionata, gli occhi più azzurri che mai nuotanti in un languore voluttuoso; le guance impallidite e rugiadose di sudore; le chiome sparse in onde dorate su le braccia su le spalle e sul petto; le poppe lievemente sommosse dai palpiti del cuore.... Eterno Iddio! perchè hai scolpito così tenacemente nella memoria la felicità che tu tu... m'hai rapito per sempre?
Oh! – ma la mia curiosità mi teneva sospeso su le sue forme. – Da quel giorno l'anima mia ha sempre filosofato sul bello, e ha sdegnato i vezzi troppo comuni di tant'altre donne. –
La mia mano scorrea mollemente per le sue membra bianchissime incarnate di rosa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Piccolo birichino, disse Temira baciandomi, e sorridendo della mia ingenuità. M'ami tu dunque? Io la guardai. Fedelmente? replicò Temira, che avea sentita tutta l'eloquenza della mia occhiata.
S'io t'amo, s'io t'amo?... esclamai.
“Oh in questa età, proruppe Temira abbracciandomi, solo in questa età gli incensi degli uomini sono puri. Allora soltanto noi respiriamo per un momento il profumo delicato del candore e della fedeltà.... ma.... un momento!”
“Io, proseguì, stava tra il sì e il no sul pensiero d'offrire io medesima il tuo primo sacrificio alla natura. Temeva di aprire al tuo cuore inesperto ed impetuoso la via del dissipamento. Io già sentiva il rimorso di sviarti dalle utili discipline e di rapirti gli amabili vaneggiamenti di un amore non ancora conosciuto.... ma d'altra parte mi parea di vederti strascinato dalla prepotenza del tuo naturale a comprare i baci da una bocca affannata4, guastando la tua salute e la tua gioventù. Talvolta ti sentivo a piedi di una superba maledire l'amore, e gemere respinto e sprezzato. Le donne virtuose nei sospiri de' loro amanti sfortunati non altro alimentano che una perfida compiacenza – vien dunque, vieni. Gli abbracciamenti d'una donna che t'ama t'ammaestrino nel vivere e t'allontanino dal vizio.”
“Bada!... non innamorarti!”
(Oh! avessi creduto a Temira. Non avrei tentato di offrire a' tuoi piedi, o Teresa, il mio cadavere senza neppure la speme di una lagrima. Ma.... così è: ho dovuto sempre bevere la saviezza nel calice della sventura. Io ti sarò amico sino all'ultimo fiato; ma.... amarti! Non più mai! Io fuggo le memorie della tua bellezza e della tua crudeltà, simile a un'ombra lamentosa....)
“Cogli i favori delle belle donne, come i fiori delle stagioni.”
“Se il cielo ti darà una sposa, dividi con essa tutta la tua felicità, e dividi con essa nelle disgrazie il pane e le lagrime. Amatevi, e se vi fosse concesso, amatevi eternamente. Ma questo amore se lo hanno riserbato i Numi. Ancor non è poco se due amanti, spenta la passione, non s'odiano. Prevenite con nuovi amori gli ultimi giorni di una passione languente che cede sempre il loco alle furie della gelosia e dell'onore. La tristezza, il sospetto, e il tradimento passeggiano sempre intorno il letto di due sposi gelosi. – Non vi rapite la sacra amicizia, unico balsamo all'amaro calice della vita. L'amore perfetto è una chimera; il desiderio fa beati alcuni momenti, e l'amicizia conforta tutti i tempi e contenta tutte l'età. Va', mio ragazzo. Te' un bacio: non mi giurar fedeltà; ch'io nè lo credo nè lo voglio.”
O Psiche! v'era nel tempio di Venere un voto con questa iscrizione: Non amo più Tirsi: nè ti prego, o Dea, d'amarlo ancora: fa' che Dorilo m'ami.
Io voleva insegnarti le lezioni della mia precettrice fino dal giorno che ti ho detto mi piaci. Ma chi osava rapire al piacere le prime ore furtive appena appena sfuggite al sospetto del tuo geloso marito? Tu scrivi pertanto ch'ei s'è corretto. Buon per lui. Che il cielo e la buona fortuna glie ne rendano il merito. Tu se' giovinetta, egli vecchio, prenda dunque quello che può, e che per giustizia non gli viene: la natura in fine de' conti si ride delle leggi ippocrite della società; basti per lui che tu conservi ancora le immagini della virtù e dell'amore. Poche mogli fanno altrettanto.
Io non so, birichina, s'egli fu il primo a cogliere il primo boccio di rosa della tua primavera. Sorridi? non vo' saperlo; ma non potrei giurare nè per il sì nè per il no.
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . torna a lusingarmi con la sua voce che passa tra il fremito delle tarde generazioni e rompe co' suoi raggi che a me sembrano eterni la caligine de' secoli remoti. Tutte le mie potenze e i bisogni stessi della vita non parlano allora in me che con un rispettoso mormorio. Il solo pensiero che il mio nome sarebbe sepolto col mio cadavere mi distolse due volte dal mio vecchio proponimento di ingannare la fortuna, di liberarmi dalla noia del mondo e di contentare la umana malignità rendendo questa misera vita alla terra. L'ambizioso ha l'anima gonfia, non elevata. Non ho mai brigato il fumo della letteratura, nè i ricamati vestimenti de' nostri magistrati. E più che l'amore della virtù, il timore dell'avvilimento mi ha rattenuto sovente da quelle azioni che la società chiama delitti. Ma s'io... – non forza politica5 umana, non prepotenza divina mi faranno rappresentare su questo mortale teatro la parte del piccolo briccone. – Da questo che ho detto avrai desunto, spero, quello che non posso dire. Bensì... – Lo dirò? Sogno talvolta di nuotare alla gloria per un mare di sangue. Or tu puoi desumere ciò ch'io non posso dire.
Un pari accesso avea non ha guari abbattute le mie facoltà. Io aveva esiliato dal mio ingegno le vergini muse, e dal mio cuore il dolce spirito dell'amore. Addio patria, addio madre, addio cara e soave corrispondenza di pacifici affetti. Pareami di consacrare alla libertà un pugnale fumante ancora nelle viscere de' miei congiunti, e di piantar la bandiera della vittoria sopra un monte di cadaveri. La mia fantasia scriveva frattanto il mio nome sulle volte dei cieli. Ma io mi sentiva rodere a un tempo dalla fame di gloria, l'ulcera sorda del supremo potere. Se non che la disperazione di conseguirlo6 prostrò l'anima mia, la quale giaceva aspettando il soffio distruttore della morte.
Una notte nell'agonia dell'infermità, mi sono sentito asciugare il sudore del volto. Schiudendo gli occhi languenti vidi al debile raggio di una lanterna un vecchio scarno, e coperto di un sajo sdrucito; il capo calvo, la barba canuta e divisa in due liste. Non conosci me più, mi disse sedendo presso al mio capezzale....7
Con tuttociò non mi so dar pace nell'idea di andare ognora vagabondo come un arabo, portandomi tutto quello che ho sulle spalle. L'ora del mio ritorno è la più bella ch'io segni sempre nel mio giornale. Conoscendo la mia e la universale scelleratezza, ho d'uopo, per guardarmi, di sapere le leggi che mi condannano e mi proteggono [e di avere alcune migliaia d'uomini interessate a difendermi dall'avidità e dall'orgoglio del mio vicino]8. Ogni sventura che mi succede in un paese straniero mi9 gli antichi amici, le benedizioni e gli addio della mia povera madre e il pacifico piacere di temprare, come suol dirsi, il verno al proprio foco. Chi è quell'Italiano che tornando a casa non senta scendendo dalle alpi l'aria piena di vita e di salute e non dica con lacrime di gioja: Beato colui che possiede in questa terra un....10 una casa e un raggio di fortuna!
Pare che la natura ci abbia costruito il corpo fisico per vivere solamente dove siamo nati.
Mi sovviene del povero svizzero.
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I numi festeggiavano un giorno in un convito celeste il ritorno di Venere da gli oracoli d'Amatunta. Le Dive, per onorar maggiormente la loro sorella, ornarono le Grazie ciascuna del proprio pregio. Diana concesse a una Grazia il pudore, e i mortali da quel dì l'adorarono come la Grazia primogenita e la più bella.
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Lettore, se vuoi terminare la lettera, salta questo paragrafo che non c'entra.
– Immergendomi in quel laghetto, io cantava un inno alla natura ed invocava le ninfe amabili custodi delle fontane. Illusioni! grida il filosofo. E non è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi che si credevano [degni]11 degli abbracciamenti delle dive, che sacrificavano alla bellezza e alle grazie, che diffondevano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell'uomo, e che accarezzando gl'idoli della lor fantasia trovavano il bello ed il vero.–
Parole dello sfortunato amico mio Jacopo Ortis. Siegue la lettera.
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E n'abbiamo ragionato sovente, io e l'amico mio Diogene; il quale non è poi, come si pretende, l'uomo il più villano del mondo. Nè tutta la sua eloquenza, nè il suo esempio, che vale assai più, mi hanno potuto mai fare cosmopolita nel cuore.... – non posso. La mia ragione presa alle strette dagli argomenti e dalla trista verità dell'esperienza ha detto, scuotendo appena la testa, di sì; ma il cuore – e Diogene che lo sa ve ne attesti – è restato da quel dì malinconico, e non ha risposto neppure un et.
Ho dormito più volte i miei sonni pacifici su la paglia, e ho cenato allegramente sul desco della povertà. Nelle mie meditazioni ho congedato la vita col disdegnoso sorriso di tutti gli antichi e moderni sprezzatori di morte; non eccettuato il buon Seneca che – sia detto fra noi – si accarezzava tremando un fiato di vita con l'acqua ora di uno ora di un altro ruscello, e coi legumi piantati sospettosamente dalla propria mano ne' suoi lussureggianti giardini. Ma la patria?... Il Cielo non me ne ha conceduto; anzi ordinò alla fortuna di gettarmi nel mondo come un dado.
Dai precedenti tomi dell'IO che voi, madama, avete già letto, o leggerete, o sarete per non leggerli mai – non sono ancora scritti, – saprete ch'io nacqui in Grecia, che io trascorsi l'infanzia fra gli Egiziani, la fanciullezza nell'Illiria; la giovinezza su e giù per l'Italia; la prima virilità in Francia, come vedete; e il resto di vita... Dio sa!
Aggiungete che mio padre mi lasciò erede del suo genio ambulatorio, ed io mi struggo di cercar nuove terre per anatomizzare sempre più gli uomini, ed adorare la madre natura. – Ma se voi, madama, leggendo sin qui le poche pagine del mio libro vi siete affezionata all'autore, che . . . . . . .
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Mi son trovato rinchiuso fra due montagne nere aride, circondate in tutta la loro altezza da orribili precipizi e da abissi profondi. Presso le loro vette le nuvole erravano lentamente fra alberi funebri... stavano sospese su i loro sterili rami.
O conquistatori, qui qui contemplate lo spettacolo dei sterminj di cui affliggete la terra.
Le brighe della malafede mercantile.
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Non conoscete persona del mondo, dicevano a un tavolino due galantuomini a un uomo che avea sembianza d'essere un viaggiatore.
No.
E che fate qui?
Bel clima questo!... ma non vi divertite.
Che fate dunque?
Tutto il giorno?
Vi annoierete
Talvolta.
E allora? diss'io, che stava in piedi, levandomi con due mani il cappello di testa e ponendolo dispettosamente sul tavolino.
E allora, fumo.
Scuoteva intanto la cenere della sua pipa, e s'apparecchiava a riempirla di tabacco – egli aveva bisogno di fumare ed io di partire: i due genovesi restarono ad ammazzare il tempo sui loro sedili; il viaggiatore si pose a fumare, ed io sono andato dove m'è piaciuto.
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