Ugo Foscolo
Le Grazie

INNO PRIMO - VENERE

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INNO PRIMO - VENERE

 

Cantando, o Grazie, degli eterei pregi

di che il cielo v’adorna, e della gioia

che vereconde voi date alla terra,

belle vergini! a voi chieggo l’arcana

armonïosa melodia pittrice

della vostra beltà; sì che all’Italia

afflitta di regali ire straniere

voli improvviso a rallegrarla il carme.

Nella convalle fra gli aerei poggi

di Bellosguardo, ov’io cinta d’un fonte

limpido fra le quete ombre di mille

giovinetti cipressi alle tre Dive

l’ara innalzo, e un fatidico laureto

in cui men verde serpeggia la vite

la protegge di tempio, al vago rito

vieni, o Canova, e agl’inni. Al cor men fece

dono la bella Dea che in riva d’Arno

sacrasti alle tranquille arti custode;

ed ella d’immortal lume e d’ambrosia

la santa immago sua tutta precinse.

Forse (o ch’io spero!) artefice di Numi,

nuovo meco darai spirto alle Grazie

ch’or di tua man sorgon dal marmo. Anch’io

pingo e spiro a’ fantasmi anima eterna:

sdegno il verso che suona e che non crea;

perché Febo mi disse: Io Fidia, primo,

ed Apelle guidai con la mia lira.

Eran l’Olimpo e il Fulminante e il Fato,

e del tridente enosigèo tremava

la genitrice Terra; Amor dagli astri

Pluto feria: né ancor v’eran le Grazie.

Una Diva scorrea lungo il creato

a fecondarlo, e di Natura avea

l’austero nome: fra’ celesti or gode

di cento troni, e con più nomi ed are

le dan rito i mortali; e più le giova

l’inno che bella Citerea la invoca.

Perché clemente a noi che mirò afflitti

travagliarci e adirati, un la santa

Diva, all’uscir de’ flutti ove s’immerse

a ravvivar le gregge di Nerèo,

apparì con le Grazie; e le raccolse

l’onda Ionia primiera, onda che amica

del lito ameno e dell’ospite musco

da Citera ogni vien desiosa

a’ materni miei colli: ivi fanciullo

la Deità di Venere adorai.

Salve, Zacinto! All’antenoree prode,

de’ santi Lari Idei ultimo albergo

e de’ miei padri, darò i carmi e l’ossa,

e a te il pensier: ché piamente a queste

Dee non favella chi la patria obblìa.

Sacra città è Zacinto. Eran suoi ,

era ne’ colli suoi l’ombra de’ boschi

sacri al tripudio di Dïana e al coro;

pria che Nettuno al reo Laomedonte

munisse Ilio di torri inclite in guerra.

Bella è Zacinto. A lei versan tesori

l’angliche navi; a lei dall’alto manda

i più vitali rai l’eterno sole;

candide nubi a lei Giove concede,

e selve ampie d’ulivi, e liberali

i colli di Lieo: rosea salute

prometton l’aure, da’ spontanei fiori

alimentate, e da’ perpetui cedri.

Splendea tutto quel mar quando sostenne

su la conchiglia assise e vezzeggiate

dalla Diva le Grazie: e a sommo il flutto,

quante alla prima prima aura di Zefiro

le frotte delle vaghe api prorompono,

e più e più succedenti invide ronzano

a far lunghi di sé äerei grappoli,

van alïando su’ nettarei calici

e del mèle futuro in cor s’allegrano,

tante a fior dell’immensa onda raggiante

ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude

le amorose Nereidi oceanine;

e a drappelli agilissime seguendo

la Gioia alata, degli Dei foriera,

gittavan perle, dell’ingenue Grazie

il bacio le Nereidi sospirando.

Poi come l’orme della Diva e il riso

delle vergini sue fêr di Citera

sacro il lito, un’ignota violetta

spuntò a’ piè de’ cipressi; e d’improvviso

molte purpuree rose amabilmente

si conversero in candide. Fu quindi

religïone di libar col latte

cinto di bianche rose, e cantar gl’inni

sotto a’ cipressi, e d’offerire all’ara

le perle, e il primo fior nunzio d’aprile.

L’una tosto alla Dea col radïante

pettine asterge mollemente e intreccia

le chiome dell’azzurra onda stillanti.

L’altra ancella a le pure aure concede,

a rifiorire i prati a primavera,

l’ambrosio umore ond’è irrorato il petto

della figlia di Giove; vereconda

la lor sorella ricompone il peplo

su le membra divine, e le contende

di que’ mortali attoniti al desìo.

Non prieghi d’inni o danze d’imenei,

ma de’ veltri perpetuo l’ululato

tutta l’isola udìa, e un suon di dardi

e gli uomini sul vinto orso rissosi,

e de’ piagati cacciatori il grido.

Cerere invan donato avea l’aratro

a que’ feroci: invan d’oltre l’Eufrate

chiamò un Bassarèo, giovine dio,

a ingentilir di pampini le rupi.

Il pio strumento irrugginia su’ brevi

solchi, sdegnato; e divorata, innanzi

che i grappoli recenti imporporasse

a’ rai d’autunno, era la vite: e solo

quando apparian le Grazie, i cacciatori

e le vergini squallide, e i fanciulli

l’arco e ’l terror deponeano, ammirando.

Con mezze in mar le rote iva frattanto

lambendo il lito la conchiglia, e al lito

pur con le braccia la spingean le molli

Nettunine. Spontanee s’aggiogarono

alla biga gentil due delle cerve

che ne’ boschi dittei schive di nozze

Cintia a’ freni educava; e poi che dome

aveale a’ cocchi suoi, pasceano immuni

da mortale saetta. Ivi per sorte

vagolando fuggiasche eran venute

le avventurose, e corsero ministre

al viaggio di Venere. Improvvisa

Iri che segue i Zefiri col volo

s’assise auriga, e drizzò il corso all’istmo

del Laconio paese. Ancor Citèra

del golfo intorno non sedea regina:

dove or miri le vele alte su l’onda,

pendea negra una selva, ed esiliato

n’era ogni Dio da’ figli della terra

duellanti a predarsi; e i vincitori

d’umane carni s’imbandian convito.

Videro il cocchio e misero un ruggito,

palleggiando la clava. Al petto strinse

sotto al suo manto accolte, le tremanti

sue giovinette, e: Ti sommergi, o selva!

Venere disse, e fu sommersa. Ahi tali

forse eran tutti i primi avi dell’uomo!

Quindi in noi serpe, ahi miseri, un natìo

delirar di battaglia; e se pietose

nel placano le Dee, spesso riarde

ostentando trofeo l’ossa fraterne.

Ch’io non le veggia almeno or che in Italia

fra le messi biancheggiano insepolte!

Ma chi de’ Numi esercitava impero

su gli uomini ferini, e quai ministri

aveva in terra il primo che al mondo

le belle Dive Citerea concesse?

Alta ed orrenda n’è la storia; e noi

quaggiù fra le terrene ombre vaganti

dalla fama n’udiam timido avviso.

Abbellitela or voi, Grazie, che siete

presenti a tutto, e Dee tutto sapete.

Quando i pianeti dispensò agli Dei

Giove padre, il più splendido ei s’elesse,

e toccò in sorte a Citerea il più bello,

e l’altissimo a Pallade, e le genti

di que’ mondi beate abitatrici

sentìr l’imperio del lor proprio Nume.

Ma senza Nume rimanea negletto

il picciol globo della terra, e nati

alle prede i suoi figli ed alla guerra,

e dopo breve sacri alla morte.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il bel cocchio vegnente, e il doloroso

premio de’ lor vicini arti più miti

persuase a’ Laconi. Eran da prima

per l’intentata selva e l’oceàno

dalla Grecia divisi; e quando eretta

agli ospitali Numi ebbero un’ara,

vider tosto le pompe e le amorose

gare e i regi conviti; e d’ogni parte

correan d’Asia i guerrieri e i prenci argivi

alla reggia di Leda. Ah non ti fossi

irato Amor! e ben di te sovente

io mi dorrò, da che le Grazie affliggi.

Per te all’arti eleganti ed a’ felici

ozi, per te lascivi affetti, e molli

ozi, e spergiuri a’ Greci; e poi la dura

vita, e nude a sudar nella palestra

[sottentrar] le fanciulle onde salvarsi

Amor da te. Ma quando eri per anche

delle Grazie non invido fratello

Sparta fioriva. Qui di Fare il golfo

cinto d’armonïosi antri a’ delfini,

qui Sparta e le fluenti dell’Eurota

grate a’ cigni; e Messene offria securi

ne’ suoi boschetti alle tortore i nidi;

qui d’Augìal pelaghetto, inviolato

al pescator, da che di mirti ombrato

era lavacro al bel corpo di Leda

e della sua figlia divina. E Amicle

terra di fiori non bastava ai serti

delle vergini spose; dal paese

venian cantando i giovani alle nozze.

Non de’ destrieri nitidi l’amore

li rattenne, non Laa che fra tre monti

ama le caccie e i riti di Dïana,

né la Maremma Elea ricca di pesce.

E non lunge è Brisea, donde il propinquo

Taigeto intese strepitar l’arcano

tripudio e i riti, onde il femmineo coro

placò Lieo, e intercedean le Grazie.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ma dove, o caste Dee, ditemi dove

la prima ara vi piacque, onde se invano

or la chieggo alla terra, almen l’antica

religïone del bel loco io senta.

Tutte velate, procedendo all’alta

Dorio che di lontan gli Arcadi vede,

le Dive mie vennero a Trio: l’Alfeo

arretrò l’onda, e die’ a’ lor passi il guado

che ancoggi il pellegrin varca ed adora.

Fe’ manifesta quel portento a’ Greci

la Deità; sentirono da lunge

odorosa spirar l’aura celeste.

De’ Beoti al confin siede Aspledone:

città che l’aureo sol veste di luce

quando riede all’occaso; ivi non lunge

sta sull’immensa minïèa pianura

la beata Orcomèno, ove il primiero,

dalle ninfe alternato e da’ garzoni,

amabil inno udirono le Grazie.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Così cantaro; e Citerea svelossi;

e quanti allor garzoni e giovinette

vider la Deità furon beati,

e di Driadi col nome e di Silvani

fur compagni di Febo. Oggi le umane

orme evitando, e de’ poeti il volgo,

che con la lira inesperta a sé li chiama,

invisibili e muti per le selve

vagano. Come quando esce un’Erinne

a gioir delle terre arse dal verno,

maligna, e lava le sua membra a’ fonti

dell’Islanda esecrati, ove più tristi

fuman sulfuree l’acque; o a groelandi

laghi, lambiti di [sulfuree] vampe,

la teda alluma, e al ciel sereno aspira;

finge perfida pria roseo splendore,

e lei deluse appellano col vago

nome di boreale alba le genti;

quella scorre, le nuvole in Chimere

orrende, e in imminenti armi converte

fiammeggianti; e calar senti per l’aura

dal muto nembo l’aquile agitate,

che veggion nel lor regno angui, e sedenti

leoni, e ulular l’ombre de’ lupi.

Innondati di sangue errano al guardo

delle città i pianeti, e van raggiando

timidamente per l’aereo caos;

tutta d’incendio la celeste volta

s’infiamma, e sotto a quell’infausta luce

rosseggia immensa l’iperborea terra.

Quinci l’invida Dea gl’inseminati

campi mira, e dal gelo l’oceàno

a’ nocchieri conteso; ed oggi forse

per la Scizia calpesta armi e vessilli,

e d’itali guerrier corpi incompianti.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E giunte

le Dive appiè de’ monti, alla sdegnosa

Diana Iride il cocchio e mansuete

le cerve addusse, amabil dono, in Creta.

Cintia fu sempre delle Grazie amica,

e ognor con esse fu tutela al core

dell’ingenue fanciulle ed agl’infanti.

E solette radean lievi le falde

dell’Ida irriguo di sorgenti; e quando

fur più al Cielo propinque, ove una luce

rosea le vette al sacro monte asperge,

e donde sembran tutte auree le stelle,

alle vergini sue che la seguieno

mandò in core la Dea queste parole:

- Assai beato, o giovinette, è il regno

de’ Celesti ov’io riedo; a la infelice

Terra ed a’ figli suoi voi rimanete

confortatrici; sol per voi sovr’essa

ogni lor dono pioveranno i Numi.

E se vindici sien più che clementi,

allor fra’ nembi e i fulmini del Padre,

vi guiderò a placarli. Al partir mio

tale udirete un’armonia dall’alto,

che diffusa da voi farà più liete

le nate a delirar vite mortali,

più deste all’Arti e men tremanti al grido

che le promette a morte. Ospizio amico

talor sienvi gli Elisi; e sorridete

a’ vati, se cogliean puri l’alloro,

ed a’ prenci indulgenti, ed alle pie

giovani madri che a straniero latte

non concedean gl’infanti, e alle donzelle

che occulto amor trasse innocenti al rogo,

e a’ giovinetti per la patria estinti.

Siate immortali, eternamente belle! -

Più non parlava, ma spargea coraggi

de le pupille sue sopra le figlie

eterno il lume della fresca aurora,

e si partiva: e la seguian cogli occhi

di lagrime soffusi, e lei da l’alto

vedean conversa, e questa voce udiro:

- Daranno a voi dolor novello i Fati

e gioia eterna. - E sparve; e trasvolando

due primi cieli, s’avvolgea nel puro

lume dell’astro suo. L’udì Armonia

e giubilando l’etere commosse.

Ché quando Citerea torna a’ beati

cori, Armonia su per le vie stellate

move plauso alla Dea pel cui favore

temprò un l’universo . . . . . . . .

Come nel chiostro vergine romita,

se gli azzurri del cielo, e la splendente

Luna, e il silenzio delle stelle adora,

sente il Nume, ed al cembalo s’asside,

e del piè e delle dita e dell’errante

estro e degli occhi vigili alle note

sollecita il suo cembalo ispirata,

ma se improvvise rimembranze Amore

in cor le manda, scorrono più lente

sovra i tasti le dita, e d’improvviso

quella soave melodia che posa

secreta ne’ vocali alvei del legno,

flebile e lenta all’aure s’aggira;

così l’alta armonia che . . . . . .

discorreva da’ Cieli . . . . . . . .

Udiro intente

le Grazie; e in cor quell’armonia fatale

albergàro, e correan su per la terra

a spirarla a’ mortali. E da quel giorno

dolce ei sentian per l’anima un incanto,

lucido in mente ogni pensiero, e quanto

udian essi o vedean vago e diverso

dilettava i lor occhi, e ad imitarlo

prendean industri e divenia più bello.

Quando l’Ore e le Grazie di soave

luce diversa coloriano i campi,

e gli augelletti le seguiano e lieto

facean tenore al gemere del rivo

e de’ boschetti al fremito, il mortale

emulò que’ colori; e mentre il mare

fra i nembi, o l’agitò Marte fra l’armi,

mirò il fonte, i boschetti, udì gli augelli

pinti, e godea della pace de’ campi.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E l’arte

agevolmente, all’armonia che udiva,

diede eleganza alla materia; il bronzo

quasi foglia arrendevole d’acànto

ghirlandò le colonne; e ornato e legge

ebber travi e macigni, e gìan concordi

curvati in arco aereo imitanti

il firmamento. Ma più assai felice

tu che primiero la tua donna in marmo

effigïasti: Amor da prima in core

t’infiammò del desìo che disvelata

volea bellezza, e profanata agli occhi

degli uomini. Ma venner teco assise

le Grazie, e tal diffusero venendo

avvenenza in quel volto e leggiadrìa

per quelle forme, col molle concento

gentili spirarono gli affetti

della giovine nuda; e non l’amica

ma venerasti Citerea nel marmo.

E non che ornar di canto, e chi può tutte

ridir l’opre de’ Numi? Impazïente

il vagante inno mio fugge ove incontri

grazïose le menti ad ascoltarlo;

pur non so dirvi, o belle suore, addio,

e mi detta più alteri inni il pensiero.

Ma e dove or io vi seguirò, se il Fato

ah da gran giorni omai profughe in terra

alla Grecia vi tolse, e se l’Italia

che v’è patria seconda i doni vostri

misera ostenta e il vostro nume oblia?

Pur molti ingenui de’ suoi figli ancora

a voi tendon le palme. Io finché viva

ombra daranno a Bellosguardo i lauri,

ne farò tetto all’ara vostra, e offerta

di quanti pomi educa l’anno, e quante

fragranze ama destar l’alba d’aprile,

e il fonte e queste pure aure e i cipressi

e segreto il mio pianto e la sdegnosa

lira, e i silenzi vi fien sacri e l’arti.

Fra l’arti io coronato e fra le Muse,

alla patria dirò come indulgenti

tornate ospiti a lei, sì che più grata

in più splendida reggia e con solenni

pompe v’onori: udrà come redenta

fu due volte per voi, quando la fiamma

pose Vesta sul Tebro e poi Minerva

diede a Flora per voi l’attico ulivo.

Venite, o Dee, spirate Dee, spandete

la Deità materna, e novamente

deriveranno l’armonia gl’ingegni

dall’Olimpo in Italia: e da voi solo,

dar premio potete altro più bello,

sol da voi chiederem, Grazie, un sorriso.


 


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