Ugo Foscolo
Le Grazie

INNO SECONDO - VESTA

I

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INNO SECONDO - VESTA

 

I

 

Tre vaghissime donne a cui le trecce

infiora di felici itale rose

giovinezza, e per cui splende più bello

sul lor sembiante il giorno, all’ara vostra

sacerdotesse, o care Grazie, io guido.

 

Qui e voi che Marte non rapì alle madri

correte, e voi che muti impallidite

nel penetrale della Dea pensosa,

giovinetti d’Esperia. Era più lieta

Urania un , quando le Grazie a lei

il gran peplo fregiavano. Con esse

qui Galileo sedeva a spïar l’astro

della lor regina; e il disvïava

col notturno rumor l’acqua remota,

che sotto a’ pioppi delle rive d’Arno

furtiva e argentea gli volava al guardo.

Qui a lui l’alba, la luna e il sol mostrava,

gareggiando di tinte, or le severe

nubi su la cerulea alpe sedenti,

or il piano che fugge alle tirrene

Nereidi, immensa di città e di selve

scena e di templi e d’arator beati,

or cento colli, onde Appennin corona

d’ulivi e d’antri e di marmoree ville

l’elegante città, dove con Flora

le Grazie han serti e amabile idïoma.

Date principio, o giovinetti, al rito,

e da’ festoni della sacra soglia

dilungate i profani. Ite, insolenti

genii d’Amore, e voi livido coro

di Momo, e voi che a prezzo Ascra attingete.

Qui né oscena malìa, né plauso infido

può, né dardo attoscato: oltre quest’ara,

cari al volgo e a’ tiranni, ite, profani.

 

Dolce alle Grazie è la virginea voce

e la timida offerta: uscite or voi

dalle stanze materne ove solinghe

Amor v’insidia, o donzellette, uscite:

gioia promette e manda pianto Amore.

Qui su l’ara le rose e le colombe

deponete, e tre calici spumanti

di latte inghirlandato; e fin che il rito

v’appelli al canto, tacite sedete:

sacro è il silenzio a’ vati, e vi fa belle

più del sorriso.

 

E tu che ardisci in terra

vestir d’eterna giovinezza il marmo,

or l’armonia della bellezza, il vivo

spirar de’ vezzi nelle tre ministre,

che all’arpa io guido agl’inni e alle carole,

vedrai qui al certo; e tu potrai lasciarle

immortali fra noi, pria che all’Eliso

su l’ali occulte fuggano degli anni.

 

Leggiadramente d’un ornato ,

che a lei d’Arno futura abitatrice

i pennelli posando edificava

il bel fabbro d’Urbino, esce la prima

vaga mortale, e siede all’ara; e il bisso

liberale acconsente ogni contorno

di sue forme eleganti; e fra il candore

delle dita s’avvivano le rose,

mentre accanto al suo petto agita l’arpa.

 

Scoppian dall’inquïete aeree fila,

quasi raggi di sol rotti dal nembo,

gioia insieme e pietà, poi che sonanti

rimembran come il ciel l’uomo concesse

alle gioie e agli affanni onde gli sia

librato e vario di sua vita il volo,

e come alla virtù guidi il dolore,

e il sorriso e il sospiro errin sul labbro

delle Grazie, e a chi son fauste e presenti,

dolce in core ei s’allegri e dolce gema.

Pari un concento, se pur vera è fama,

un Aspasia tessea lungo l’Ilisso:

era allor delle Dee sacerdotessa,

e intento al suono Socrate libava

sorridente a quell’ara, e col pensiero

quasi a’ sereni dell’Olimpo alzossi.

Quinci il veglio mirò volgersi obliqua,

affrettando or la via su per le nubi,

or ne’ gorghi letèi precipitarsi

di Fortuna la rapida quadriga

da’ viventi inseguita; e quel pietoso

gridò invano dall’alto: A cieca duce

siete seguaci, o miseri! e vi scorge

dove in bando è pietà, dove il Tonante

più adirate le folgori abbandona

su la timida terra. O nati al pianto

e alla fatica, se virtù vi è guida,

dalla fonte del duol sorge il conforto.

Ah ma nemico è un altro Dio di pace,

più che Fortuna, e gl’innocenti assale.

Ve’ come l’arpa di costei sen duole!

Duolsi che a tante verginette il seno

sfiori, e di pianto alle carole in mezzo,

invidïoso Amor bagni i lor occhi.

Per sé gode frattanto ella che amore

per sé l’altera giovane non teme.

Ben l’ode e su l’ardenti ali s’affretta

alle vendette il Nume: e a quelle note

a un tratto l’inclemente arco gli cade.

E i montanini Zefiri fuggiaschi

docili al suono aleggiano più ratti

dalle linfe di Fiesole e dai cedri,

a rallegrare le giunchiglie ond’ella

oggi, o Grazie, per voi l’arpa inghirlanda,

e a voi quest’inno mio guida più caro.

 

Già del piè delle dita e dell’errante

estro, e degli occhi vigili alle corde

ispirata sollecita le note

che pingon come l’armonia diè moto

agli astri, all’onda eterea e alla natante

terra per l’oceàno, e come franse

l’uniforme creato in mille volti

coraggi e l’ombre e il ricongiunse in uno,

e i suoni all’aere, e diè i colori al sole,

e l’alterno continüo tenore

alla fortuna agitatrice e al tempo;

sì che le cose dissonanti insieme

rendan concento d’armonia divina

e innalzino le menti oltre la terra.

 

Come quando più gaio Euro provòca

sull’alba il queto Lario, e a quel sussurro

canta il nocchiero e allegransi i propinqui

lïuti, e molle il fläuto si duole

d’innamorati giovani e di ninfe

su le gondole erranti; e dalle sponde

risponde il pastorel con la sua piva:

per entro i colli rintronano i corni

terror del cavrïol, mentre in cadenza

di Lecco il malleo domator del bronzo

tuona dagli antri ardenti; stupefatto

perde le reti il pescatore, ed ode.

Tal dell’arpa diffuso erra il concento

per la nostra convalle; e mentre posa

la sonatrice, ancora odono i colli.

 

Or le recate, o vergini, i canestri

e le rose e gli allori a cui materni

nell’ombrifero Pitti irrigatori

fur gli etruschi Silvani, a far più vago

il giovin seno alle mortali etrusche,

emule d’avvenenza e di ghirlande;

soave affanno al pellegrin se innoltra

improvviso ne’ lucidi teatri,

e quell’intenta voluttà del canto

ed errare un desio dolce d’amore

mira ne’ vólti femminili, e l’aura

pregna di fiori gli confonde il core.

Recate insieme, o vergini, le conche

dell’alabastro, provvido di fresca

linfa e di vita, ahi breve! a’ montanini

gelsomini, e alla mammola dogliosa

di non morir sul seno alla fuggiasca

ninfa di Pratolino, o sospirata

dal solitario venticel notturno.

Date il rustico giglio, e se men alte

ha le forme fraterne, il manto veste

degli amaranti invïolato: unite

aurei giacinti e azzurri alle giunchiglie

di Bellosguardo che all’amante suo

coglie Pomona, e a’ garofani alteri

della prole diversa e delle pompe,

e a’ fiori che dagli orti dell’Aurora

novella preda a’ nostri liti addussero

vittorïosi i Zefiri su l’ale,

e or fra’ cedri al suo talamo imminenti

d’ospite amore e di tepori industri

questa gentil sacerdotessa edùca.

Spira soave e armonïoso agli occhi

quanto all’anima il suon, splendono i serti

che di tanti color mesce e d’odori;

ma il fior che altero del lor nome han fatto

dodici Dei ne scevra, e il dona all’ara

pur sorridendo; e in cor tacita prega:

che di quei fiori ond’è nudrice, e l’arpa

ne incorona per voi, ven piaccia alcuno

inserir, belle Dee, nella ghirlanda

la quale ogni anno il sesto d’aprile

delle rose di lagrime innaffiate

in val di Sorga, o belle Dee, tessete

a recarle alla madre.

 


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