Ugo Foscolo
Le Grazie

INNO SECONDO - VESTA

II

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II

 

Ora Polinnia alata Dea che molte

Lire a un tempo percote, e più d’ogni altra

Musa possiede orti celesti, intenda

anche le lodi de’ suoi fiori; or quando

la bella donna, delle Dee seconda

sacerdotessa, vien recando un favo.

Nostro e disdetto alle altre genti è il rito

per memoria de’ favi, onde in Italia

con perenne ronzìo fanno tesoro

divine api alle Grazie: e chi ne assaggia

parla caro alla patria. Ah voi narrate

come aveste quel dono! E chi la fama

a noi fra l’ombre della terra erranti

può abbellir se non voi, Grazie, che siete

presenti a tutto, e Dee tutto sapete?

 

Quattro volte l’Aurora era salita

su l’orïente a riveder le Grazie,

dacché nacquero al mondo; e Giano antico,

padre d’Italia, e l’adriaca Anfitrite

inviavan lor doni, e un drappelletto

di Naiadi e fanciulle eridanine,

e quante i pomi d’Anïene e i fonti

godean d’Arno e di Tebro, e quante avea

Ninfe il mar d’Aretusa; e le guidavi

tu, più che giglio nivea Galatea.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E cantar Febo pieno d’inni un carme.

Vaticinò, com’ei lo spirto, e varia

daranno ai vati l’armonia del plettro

le sue liete sorelle, e Amore il pianto

che lusinghi a pietà l’alme gentili,

e il giovine Lïeo scevra d’acerbe

cure la vita, e Pallade i consigli,

Giove la gloria, e tutti i Numi eterno

poscia l’alloro; ma le Grazie il mèle

persüadente grazïosi affetti,

onde pia con gli Dei torni la terra.

E cantando vedea lieto agitarsi

esalando profumi, il verdeggiante

bosco d’Olimpo, e rifiorir le rose,

e [scorrere] di nèttare i torrenti,

e risplendere il cielo, e delle Dive

raggiar più bella l’immortal bellezza;

però che il Padre sorrideva, e inerme

a piè del trono l’aquila s’assise.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Inaccessa agli Dei splende una fiamma

solitaria nell’ultimo de’ cieli,

per proprio foco eterna; unico Nume

la veneranda Deità di Vesta

vi s’appressa, e deriva indi una pura

luce che, mista allo splendor del sole,

tinge gli aerei campi di zaffiro,

e i mari, allor che ondeggiano al tranquillo

spirto del vento facili a’ nocchieri,

e di chiaror dolcissimo consola

con quel lume le , e a qual più s’apre

modesto fiore a decorar la terra

molli tinte comparte, invidïate

dalla rosa superba.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Dite, o garzoni, a chi mortale, e voi,

donzelle, dite a qual fanciulla un giorno

più di quel mèl le Dee furon cortesi.

N’ebbe primiero un cieco; e sullo scudo

di Vulcano mirò moversi il mondo,

e l’alto Ilio dirùto, e per l’ignoto

pelago la solinga itaca vela,

e tutto Olimpo gli s’aprì alla mente

e Cipria vide e delle Grazie il cinto.

Ma quando quel sapor venne a Corinna

sul labbro, vinse tra l’elèe quadrighe

di Pindaro i destrier, benché Elicona

li dissetasse, e li pascea di foco

Eolo, e prenunzia un’aquila correva,

e de’ suoi freni li adornava il Sole.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Di quel mèl la fragranza errò improvvisa

sul talamo all’eolïa fanciulla,

e il cor dal petto le balzò e la lira

ed aggiogando i passeri, scendea

Venere dall’Olimpo, e delle sue

ambrosie dita le tergeva il pianto.

Indarno Imetto

le richiama dal che a fior dell’onda

ergea, beate volatrici, il coro

eliconio seguieno, obbedïenti

all’elegia del fuggitivo Apollo.

Però che quando su la Grecia inerte

Marte sfrenò le tartare cavalle

depredatrici, e coronò la schiatta

barbara d’Ottomano, allor l’Italia

fu giardino alle Muse, e qui lo stuolo

fabro dell’aureo mèl pose a sua prole

il felice alvear. Né le Febee

api (sebben le altre api abbia crudeli)

fuggono i lai della invisibil Ninfa,

che ognor delusa d’amorosa speme,

pur geme per le quete aure diffusa,

e il suo altero nemico ama e richiama;

tanta dolcezza infusero le Grazie,

per pietà della Ninfa, alle sue voci,

che le lor api immemori dell’opra,

ozïose in Italia odono l’eco

che al par de’ carmi fe’ dolce la rima.

 

Quell’angelette scesero da prima

ove assai preda di torrenti al mare

porta Eridàno. Ivi la fata Alcina

di lor sorti presàga avea disperso

molti agresti amaranti; e lungo il fiume

gran ciel prendea con negre ombre un’incolta

selva di lauri: su’ lor tronchi Atlante

di Ruggiero scrivea gli avi e le imprese,

e di spettri guerrier muta una schiera

e donne innamorate ivan col mago,

aspettando il cantor; e questi i favi

vide quivi deposti, e si mietea

tutti gli allori; ma de’ fior d’Alcina

più grazïoso distillava il mèle,

e il libò solo un lepido poeta,

che insiem narrò d’Angelica gli affanni.

Ma non men cara l’api amano l’ombra

del sublime cipresso, ove appendea

la sua cetra Torquato, allor che ardendo

forsennato egli errò per le foreste

«sì che insieme movea pietate e riso

«nelle gentili Ninfe e ne’ pastori:

«né già cose scrivea degne di riso

«se ben cose facea degne di riso».

 

...Deh! perché torse

i suoi passi da voi, liete in udirlo

cantar o Erminia, e il pio sepolcro e l’armi?

disdegno di voi, ma più fatale

Nume alla reggia il risospinse e al pianto.

 

...A tal ventura

fur destinate le gentili alate

che riposâr sull’Eridano il volo.

Mentre nel Lilibeo mare la fata

dava promesse, e l’attendea cortese

a quante all’Adria indi posaro il volo

angiolette Febee, l’altro drappello

che, per antico amor Flora seguendo,

tendea per le tirrene aure il suo corso,

trovò simile a Cerere una donna

su la foce dell’Arno; e l’attendeva

portando in man purpurei gigli e frondi

fresche d’ulivo. Avea riposo al fianco

un’etrusca colonna, a sé dinanzi

di favi desïoso un alveare.

Molte intorno a’ suoi piè verdi le spighe

spuntavano, e perìan molte immature

fra gli emuli papaveri; mal nota,

benché fosse divina, era l’Ancella

alle pecchie immortali. Essa agli Dei

non tornò mai, da che scendea ne’ primi

noiosi dell’uomo; e il riconforta

ma le presenti ore gl’invola; ha nome

Speranza e men infida ama i coloni.

Già negli ultimi cieli iva compiendo

il settimo de’ grandi anni Saturno

col suo pianeta, da che a noi la Donna

precorrendo le Muse era tornata

per consiglio di Pallade, a recarne

l’ara fatale ove scolpite in oro

le brevi rifulgean libere leggi,

madri dell’arti onde fu bella Atene.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ecco prostrata una foresta, e fianchi

rudi d’alpe, e masse ferree immani

al braccio de’ Ciclòpi, a fondar tempio

che ceda tardo a’ muti urti del tempo.

E al suono che invisibili spandeano

le Grazie intorno, assunsero nell’opra

nuova speme i viventi: e l’Architetto

meravigliando della sua fatica,

quasi nubi lievissime, di terra

ferro e abeti vedea sorgere e marmi,

a le sue leggi arrendevoli, e posarsi

convessi in arco aereo imitanti

il firmamento. Attonite le Muse

come vennero poscia alla divina

mole il guardo levando, indarno altrove

col memore pensier ivan cercando

se altrove Palla, . . . . . . . . . . . . .

o quando in Grecia di celeste acànto

ghirlandò le colonne, o quando in Roma

gli archi adornava a ritornar vittrice

trïonfando con candide cavalle,

miracolofatto avesse all’arti

mai suggerito. Quando poi la Speme

veleggiando su l’Arno in una nave

l’api recò e l’ancora dove

sorger poscia dovea delle bell’arti

sovra mille colonne una gentile

reggia alle Muse, . . . corser l’api

a un’indistinta di novelle piante

soavità che intorno al tempio oliva.

 

Un mirto

che suo dall’alto Beatrice ammira,

venerando slpendeva; e dalla cima

battea le penne un Genio disdegnoso

che il passato esplorando e l’avvenire

cieli e abissi cercava, e popolato

d’anime in mezzo a tutte l’acque un monte;

poi, tornando, spargea folgori e lieti

raggi, e speme e terrore e pentimento

ne’ mortali; e verissime sciagure

all’Italia cantava.

 

Appresso al mirto

fiorian le rose che le Grazie ogni anno

ne’ colli euganei van cogliendo, e un serto

molle di pianto il sesto d’aprile

ne recano alla Madre. A queste intorno

dolcemente ronzarono, e sentiro

come forse d’Eliso era venuto

ad innestare il cespo ei che più ch’altri

libò il mèl sacro su l’Imetto, e primo

fe’ del celeste amor celebre il rito.

Pur con molti frutteti e con l’orezzo

le sviò de’ quercioli una valletta

dove le Ninfe alle mie Dee seguaci

non son Genii mentiti.

 

Io dal mio poggio

quando tacciono i venti fra le torri

della vaga Firenze, odo un Silvano

ospite ignoto a’ taciti eremiti

del vicino Oliveto: ei sul meriggio

fa sua casa un frascato, e a suon d’avena

le pecorelle sue chiama alla fonte.

Chiama due brune giovani la sera,

piegar erba mi parean ballando.

Esso mena la danza. N’eran molte

sotto l’alpe di Fiesole a una valle

che da sei montagnette ond’è ricinta

scende a sembianza di teatro acheo.

Affrico allegro ruscelletto accorse

a’ lor prieghi dal monte, e fe’ la valle

limpida d’un freschissimo laghetto.

Nulla per anco delle Ninfe inteso

avea Fiammetta allor ch’ivi a diporto

novellando d’amori e cortesie

con le amiche sedeva, o s’immergea,

te, Amor, fuggendo e tu ve la spïavi,

dentro le cristalline onde più bella.

Fur poi svelati in que’ diporti i vaghi

misteri, e Dïoneo re del drappello

le Grazie afflisse. Perseguì i colombi

che stavan su le dense ali sospesi

a guardia d’una grotta: invan gementi

sotto il flagel del mirto onde gl’incalza

gli fan ombra dattorno, e gli fan prieghi

che non s’accosti; sanguinanti e inermi

sgombran con penne trepidanti al cielo.

Dalla grotta i recessi empie la luna,

e fra un mucchio di gigli addormentata

svela a un Fauno confusa una Napea.

Gioì il protervo dell’esempio, e spera

allettarne Fiammetta; e pregò tutti

allor d’aita i Satiri canuti,

e quante emule ninfe eran da’ giochi

e da’ misteri escluse: e quegli arguti

ozïando ogni notte a Dïoneo

di scherzi e d’antri e talami di fiori

ridissero novelle. Or vive un libro

dettato dagli Dei; ma sfortunata

la damigella che mai tocchi il libro!

Tosto smarrita del natìo pudore

avrà la rosa; né il rossore ad arte

può innamorar chi sol le Grazie ha in core.

O giovinette Dee, gioia dell’inno,

per voi la bella donna i riti vostri

imìta e le terrene api lusinga

nel felsineo pendio d’onde il pastore

mira Astrea che or del ciel gode e de’ tardi

alberghi di Nereo; d’indiche piante

e di catalpe onde i suoi Lari ombreggia

sedi appresta e sollazzi alle vaganti

schiere, o le accoglie ne’ fecondi orezzi

d’armonïoso speco invïolate

dal gelo e dall’estiva ira e da’ nembi.

La bella donna di sua mano i lattei

calici del limone, e la pudica

delle vïole, e il timo amor dell’api,

innaffia, e il fior delle rugiade invoca

dalle stelle tranquille, e impetra i favi

che vi consacra e in cor tacita prega.

Con lei pregate, donzellette, e meco

voi, garzoni, miratela. Il segreto

sospiro, il riso del suo labbro, il dolce

foco esultante nelle sue pupille

faccianvi accorti di che preghi, e come

l’ascoltino le Dee. E certo impetra

che delle Dee l’amabile consiglio

da lei s’adempia. I preghi che dal Cielo

per pietà de’ mortali han le divine

vergini caste, non a voi li danno,

giovani vati e artefici eleganti,

bensì a qual più gentil donna le imìta.

A lei correte, e di soavi affetti

ispiratrici e immagini leggiadre

sentirete le Grazie. Ah vi rimembri

che inverecondo le spaventa Amore!

 


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