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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Ora Polinnia alata Dea che molte
Lire a un tempo percote, e più d’ogni altra
Musa possiede orti celesti, intenda
anche le lodi de’ suoi fiori; or quando
la bella donna, delle Dee seconda
sacerdotessa, vien recando un favo.
Nostro e disdetto alle altre genti è il rito
per memoria de’ favi, onde in Italia
con perenne ronzìo fanno tesoro
divine api alle Grazie: e chi ne assaggia
parla caro alla patria. Ah voi narrate
come aveste quel dono! E chi la fama
a noi fra l’ombre della terra erranti
può abbellir se non voi, Grazie, che siete
presenti a tutto, e Dee tutto sapete?
Quattro volte l’Aurora era salita
su l’orïente a riveder le Grazie,
dacché nacquero al mondo; e Giano antico,
padre d’Italia, e l’adriaca Anfitrite
inviavan lor doni, e un drappelletto
di Naiadi e fanciulle eridanine,
e quante i pomi d’Anïene e i fonti
godean d’Arno e di Tebro, e quante avea
Ninfe il mar d’Aretusa; e le guidavi
tu, più che giglio nivea Galatea.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E cantar Febo pieno d’inni un carme.
Vaticinò, com’ei lo spirto, e varia
daranno ai vati l’armonia del plettro
le sue liete sorelle, e Amore il pianto
che lusinghi a pietà l’alme gentili,
e il giovine Lïeo scevra d’acerbe
cure la vita, e Pallade i consigli,
Giove la gloria, e tutti i Numi eterno
poscia l’alloro; ma le Grazie il mèle
onde pia con gli Dei torni la terra.
E cantando vedea lieto agitarsi
esalando profumi, il verdeggiante
bosco d’Olimpo, e rifiorir le rose,
e [scorrere] di nèttare i torrenti,
e risplendere il cielo, e delle Dive
raggiar più bella l’immortal bellezza;
però che il Padre sorrideva, e inerme
a piè del trono l’aquila s’assise.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Inaccessa agli Dei splende una fiamma
solitaria nell’ultimo de’ cieli,
per proprio foco eterna; unico Nume
vi s’appressa, e deriva indi una pura
luce che, mista allo splendor del sole,
tinge gli aerei campi di zaffiro,
e i mari, allor che ondeggiano al tranquillo
spirto del vento facili a’ nocchieri,
e di chiaror dolcissimo consola
con quel lume le notti, e a qual più s’apre
modesto fiore a decorar la terra
molli tinte comparte, invidïate
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dite, o garzoni, a chi mortale, e voi,
donzelle, dite a qual fanciulla un giorno
più di quel mèl le Dee furon cortesi.
N’ebbe primiero un cieco; e sullo scudo
di Vulcano mirò moversi il mondo,
e l’alto Ilio dirùto, e per l’ignoto
e tutto Olimpo gli s’aprì alla mente
e Cipria vide e delle Grazie il cinto.
Ma quando quel sapor venne a Corinna
sul labbro, vinse tra l’elèe quadrighe
di Pindaro i destrier, benché Elicona
li dissetasse, e li pascea di foco
Eolo, e prenunzia un’aquila correva,
e de’ suoi freni li adornava il Sole.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Di quel mèl la fragranza errò improvvisa
sul talamo all’eolïa fanciulla,
e il cor dal petto le balzò e la lira
ed aggiogando i passeri, scendea
Venere dall’Olimpo, e delle sue
ambrosie dita le tergeva il pianto.
le richiama dal dì che a fior dell’onda
ergea, beate volatrici, il coro
all’elegia del fuggitivo Apollo.
Però che quando su la Grecia inerte
Marte sfrenò le tartare cavalle
depredatrici, e coronò la schiatta
barbara d’Ottomano, allor l’Italia
fu giardino alle Muse, e qui lo stuolo
fabro dell’aureo mèl pose a sua prole
api (sebben le altre api abbia crudeli)
fuggono i lai della invisibil Ninfa,
che ognor delusa d’amorosa speme,
pur geme per le quete aure diffusa,
e il suo altero nemico ama e richiama;
tanta dolcezza infusero le Grazie,
per pietà della Ninfa, alle sue voci,
che le lor api immemori dell’opra,
che al par de’ carmi fe’ dolce la rima.
Quell’angelette scesero da prima
ove assai preda di torrenti al mare
porta Eridàno. Ivi la fata Alcina
di lor sorti presàga avea disperso
molti agresti amaranti; e lungo il fiume
gran ciel prendea con negre ombre un’incolta
selva di lauri: su’ lor tronchi Atlante
di Ruggiero scrivea gli avi e le imprese,
e di spettri guerrier muta una schiera
e donne innamorate ivan col mago,
aspettando il cantor; e questi i favi
vide quivi deposti, e si mietea
tutti gli allori; ma de’ fior d’Alcina
più grazïoso distillava il mèle,
e il libò solo un lepido poeta,
che insiem narrò d’Angelica gli affanni.
Ma non men cara l’api amano l’ombra
del sublime cipresso, ove appendea
la sua cetra Torquato, allor che ardendo
forsennato egli errò per le foreste
«sì che insieme movea pietate e riso
«nelle gentili Ninfe e ne’ pastori:
«né già cose scrivea degne di riso
«se ben cose facea degne di riso».
...Deh! perché torse
i suoi passi da voi, liete in udirlo
cantar o Erminia, e il pio sepolcro e l’armi?
Né disdegno di voi, ma più fatale
Nume alla reggia il risospinse e al pianto.
...A tal ventura
fur destinate le gentili alate
che riposâr sull’Eridano il volo.
Mentre nel Lilibeo mare la fata
dava promesse, e l’attendea cortese
a quante all’Adria indi posaro il volo
angiolette Febee, l’altro drappello
che, per antico amor Flora seguendo,
tendea per le tirrene aure il suo corso,
trovò simile a Cerere una donna
su la foce dell’Arno; e l’attendeva
portando in man purpurei gigli e frondi
fresche d’ulivo. Avea riposo al fianco
un’etrusca colonna, a sé dinanzi
Molte intorno a’ suoi piè verdi le spighe
spuntavano, e perìan molte immature
fra gli emuli papaveri; mal nota,
benché fosse divina, era l’Ancella
alle pecchie immortali. Essa agli Dei
non tornò mai, da che scendea ne’ primi
dì noiosi dell’uomo; e il riconforta
ma le presenti ore gl’invola; ha nome
Speranza e men infida ama i coloni.
Già negli ultimi cieli iva compiendo
il settimo de’ grandi anni Saturno
col suo pianeta, da che a noi la Donna
precorrendo le Muse era tornata
per consiglio di Pallade, a recarne
l’ara fatale ove scolpite in oro
le brevi rifulgean libere leggi,
madri dell’arti onde fu bella Atene.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ecco prostrata una foresta, e fianchi
rudi d’alpe, e masse ferree immani
al braccio de’ Ciclòpi, a fondar tempio
che ceda tardo a’ muti urti del tempo.
E al suono che invisibili spandeano
le Grazie intorno, assunsero nell’opra
nuova speme i viventi: e l’Architetto
meravigliando della sua fatica,
quasi nubi lievissime, di terra
ferro e abeti vedea sorgere e marmi,
a le sue leggi arrendevoli, e posarsi
convessi in arco aereo imitanti
il firmamento. Attonite le Muse
come vennero poscia alla divina
mole il guardo levando, indarno altrove
col memore pensier ivan cercando
se altrove Palla, . . . . . . . . . . . . .
o quando in Grecia di celeste acànto
ghirlandò le colonne, o quando in Roma
gli archi adornava a ritornar vittrice
trïonfando con candide cavalle,
miracolo sì fatto avesse all’arti
mai suggerito. Quando poi la Speme
veleggiando su l’Arno in una nave
sorger poscia dovea delle bell’arti
sovra mille colonne una gentile
reggia alle Muse, . . . corser l’api
a un’indistinta di novelle piante
soavità che intorno al tempio oliva.
Un mirto
che suo dall’alto Beatrice ammira,
venerando slpendeva; e dalla cima
battea le penne un Genio disdegnoso
che il passato esplorando e l’avvenire
cieli e abissi cercava, e popolato
d’anime in mezzo a tutte l’acque un monte;
poi, tornando, spargea folgori e lieti
raggi, e speme e terrore e pentimento
ne’ mortali; e verissime sciagure
Appresso al mirto
fiorian le rose che le Grazie ogni anno
ne’ colli euganei van cogliendo, e un serto
molle di pianto il dì sesto d’aprile
ne recano alla Madre. A queste intorno
dolcemente ronzarono, e sentiro
ad innestare il cespo ei che più ch’altri
libò il mèl sacro su l’Imetto, e primo
fe’ del celeste amor celebre il rito.
Pur con molti frutteti e con l’orezzo
le sviò de’ quercioli una valletta
dove le Ninfe alle mie Dee seguaci
Io dal mio poggio
quando tacciono i venti fra le torri
della vaga Firenze, odo un Silvano
ospite ignoto a’ taciti eremiti
del vicino Oliveto: ei sul meriggio
fa sua casa un frascato, e a suon d’avena
le pecorelle sue chiama alla fonte.
Chiama due brune giovani la sera,
né piegar erba mi parean ballando.
Esso mena la danza. N’eran molte
sotto l’alpe di Fiesole a una valle
che da sei montagnette ond’è ricinta
scende a sembianza di teatro acheo.
Affrico allegro ruscelletto accorse
a’ lor prieghi dal monte, e fe’ la valle
limpida d’un freschissimo laghetto.
Nulla per anco delle Ninfe inteso
avea Fiammetta allor ch’ivi a diporto
novellando d’amori e cortesie
con le amiche sedeva, o s’immergea,
te, Amor, fuggendo e tu ve la spïavi,
dentro le cristalline onde più bella.
Fur poi svelati in que’ diporti i vaghi
misteri, e Dïoneo re del drappello
le Grazie afflisse. Perseguì i colombi
che stavan su le dense ali sospesi
a guardia d’una grotta: invan gementi
sotto il flagel del mirto onde gl’incalza
gli fan ombra dattorno, e gli fan prieghi
che non s’accosti; sanguinanti e inermi
sgombran con penne trepidanti al cielo.
Dalla grotta i recessi empie la luna,
e fra un mucchio di gigli addormentata
svela a un Fauno confusa una Napea.
Gioì il protervo dell’esempio, e spera
allettarne Fiammetta; e pregò tutti
e quante emule ninfe eran da’ giochi
e da’ misteri escluse: e quegli arguti
di scherzi e d’antri e talami di fiori
ridissero novelle. Or vive un libro
dettato dagli Dei; ma sfortunata
la damigella che mai tocchi il libro!
Tosto smarrita del natìo pudore
avrà la rosa; né il rossore ad arte
può innamorar chi sol le Grazie ha in core.
O giovinette Dee, gioia dell’inno,
per voi la bella donna i riti vostri
imìta e le terrene api lusinga
nel felsineo pendio d’onde il pastore
mira Astrea che or del ciel gode e de’ tardi
alberghi di Nereo; d’indiche piante
e di catalpe onde i suoi Lari ombreggia
sedi appresta e sollazzi alle vaganti
schiere, o le accoglie ne’ fecondi orezzi
dal gelo e dall’estiva ira e da’ nembi.
La bella donna di sua mano i lattei
calici del limone, e la pudica
delle vïole, e il timo amor dell’api,
innaffia, e il fior delle rugiade invoca
dalle stelle tranquille, e impetra i favi
che vi consacra e in cor tacita prega.
Con lei pregate, donzellette, e meco
voi, garzoni, miratela. Il segreto
sospiro, il riso del suo labbro, il dolce
foco esultante nelle sue pupille
faccianvi accorti di che preghi, e come
l’ascoltino le Dee. E certo impetra
che delle Dee l’amabile consiglio
da lei s’adempia. I preghi che dal Cielo
per pietà de’ mortali han le divine
vergini caste, non a voi li danno,
giovani vati e artefici eleganti,
bensì a qual più gentil donna le imìta.
A lei correte, e di soavi affetti
ispiratrici e immagini leggiadre
sentirete le Grazie. Ah vi rimembri
che inverecondo le spaventa Amore!