Ugo Foscolo
Le Grazie

INNO SECONDO - VESTA

III

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III

 

Torna deh! torna al suon, donna dell’arpa;

guarda la tua bella compagna; e viene

ultima al rito a tesser danze all’ara.

 

Pur la città cui Pale empie di paschi

con l’urne industri tanta valle, e pingui

di mille pioppe aerëe al sussurro,

ombrano i buoi le chiuse, or la richiama

alle feste notturne e fra quegli orti

freschi di frondi e intorno aurei di cocchi

lungo i rivi d’Olona. E già tornava

questa gentile al suo molle paese;

così imminente omai freme Bellona

che al Tebro, all’Arno, ov’è più sacra Italia,

non un’ara trovò, dove alle Grazie

rendere il voto d’una regia sposa.

Ma udìl canto, udì l’arpa; e a noi si volse

agile come in cielo Ebe succinta.

Sostien del braccio un giovinetto cigno,

e togliesi di fronte una catena

vaga di perle a cingerne l’augello.

Quei lento al collo suo del flessuoso

collo s’attorce, e di lei sente a ciocche

neri su le sue lattee piume i crini

scorrer disciolti, e più lieto la mira

mentr’ella scioglie a questi detti il labbro:

Grata agli Dei del reduce marito

da’ fiumi algenti ov’hanno patria i cigni,

alle virginee Deità consacra

l’alta Regina mia candido un cigno

 

Accogliete, o garzoni, e su le chiare

acque vaganti intorno all’ara e al bosco

deponete l’augello, e sia del nostro

fonte signor; e i suoi atti venusti

gli rendan l’onde e il suo candore, e goda

di sé, quasi dicendo a chi lo mira,

simbol son io della beltà. Sfrondate

ilari carolando, o verginette,

il mirteto e i rosai lungo i meandri

del ruscello, versate sul ruscello,

versateli, e al fuggente nuotatore

che veleggia con pure ali di neve,

fate inciampi di fiori, e qual più ameno

fiore a voi sceglia col puniceo rostro,

vel ponete nel seno. A quanti alati

godon l’erbe del par l’aere e i laghi

amabil sire è il cigno, e con l’impero

modesto delle grazie i suoi vassalli

regge, ed agli altri volator sorride,

e lieto le sdegnose aquile ammira.

Sovra l’òmero suo guizzan securi

gli argentei pesci, ed ospite leale

il vagheggiano, s’ei visita all’

le lor ime correnti, desïoso

di più freschi lavacri, onde rifulga

sovra le piume sue nitido il sole.

Fioritelo di gigli.

 

Al vago rito

Donna l’invia, che nella villa amena

de’ tigli (amabil pianta, e a’ molli orezzi

propizia, e al santo coniugale amore)

nudrialo afflitta; e a lei dal pelaghetto

lieto accorrea, agitandole l’acque

sotto i lauri tranquille. O di clementi

virtù ornamento nella reggia insùbre!

Finché piacque agli Dei, o agl’infelici

cara tutela, e di tre regie Grazie

genitrice gentil, bella fra tutte

figlie di regi, e agl’Immortali amica!

Tutto il Cielo t’udìa quando al marito

guerreggiante a impedir l’Elba ai nemici

pregavi lenta l’invisibil Parca

che accompagna gli Eroi, vaticinando

l’inno funereo e l’alto avello e l’armi

più terse e giunti alla quadriga i bianchi

destrieri eterni a correre l’Eliso.

Ma come Marte, quando entro le navi

rispingeva gli Achei, vide sul vallo

fra un turbine di dardi Aiace solo,

fumar di sangue; e ove dirùto il muro

dava più varco a’ Teucri, ivi attraverso

piantarsi; e al suon de’ brandi, onde intronato

avea l’elmo e lo scudo, i vincitori

impäurir del grido; e rincalzarli

fra le dardanie faci arso e splendente;

scagliar rotta la spada, e trarsi l’elmo

e fulminar immobile col guardo

Ettore, che perplesso ivi si tenne:

tal dell’Ausonio Re l’inclito alunno

fra il lutto e il tempestar lungo di Borea

si fe’ vallo dell’Elba, e minacciando

il trïonfo indugiava e le rapine

dello Scita ramingo oltre la Neva.

Quinci indignato il sol torce il suo carro,

quando Orïone predator dell’Austro

sovra l’Orsa precipita e abbandona

corrucciosi i suoi turbini e il terrore

sul deserto de’ ghiacci orridi, d’alto

silenzio e d’ossa e armate esuli larve.

Sdegnan chi a’ fasti di fortuna applaude

le Dive mie, e sol fan bello il lauro

quando Sventura ne corona i prenci.

Ma più alle Dive mie piace quel carme

che d’egregia beltà l’alma e le forme

con la pittrice melodia ravviva.

 

Spesso per l’altre età, se l’idïoma

d’Italia correrà puro a’ nepoti,

(è vostro, e voi, deh! lo serbate, o Grazie!)

tento ritrar ne’ versi miei la sacra

danzatrice, men bella allor che siede,

men di te bella, o gentil sonatrice,

men amabil di te quando favelli,

o nutrice dell’api. Ma se danza,

vedila! tutta l’armonia del suono

scorre dal suo bel corpo, dal sorriso

della sua bocca; e un moto, un atto, un vezzo

manda agli sguardi venustà improvvisa.

E chi pinger la può? Mentre a ritrarla

pongo industre lo sguardo, ecco m’elude,

e le carole che lente disegna

affretta rapidissima, e s’invola

sorvolando su’ fiori; appena veggio

il vel fuggente biancheggiar fra’ mirti.


 


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