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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
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Isola è in mezzo all’oceàn, là dove
sorge più curvo agli astri; immensa terra,
come è grido vetusto, un dì beata
d’eterne messi e di mortali altrice.
Invan la chiede all’onde oggi il nocchiero,
or i nostri invocando or dell’avverso
polo gli astri; e se illuso è dal desio,
mira albeggiar i suoi monti da lunge,
e affretta i venti, e per l’antica fama
Atlantide l’appella. Ma da Febo
detta è Palladio Ciel, che da la santa
Palla Minerva agli abitanti irata,
cui il ricco suolo e gl’imenei lascivi
fean pigri all’arti e sconoscenti a Giove,
dentro l’Asia gli espulse, e l’aurea terra
cinse di ciel pervio soltanto ai Numi.
Onde, qualvolta per desìo di stragi
si fan guerra i mortali, e alla divina
libertà danno impuri ostie di sangue;
o danno a prezzo anima e brandi all’ire
di tiranni stranieri, o a fera impresa
seguon avido re che ad innocenti
popoli appresta ceppi e lutto a’ suoi;
allor concede le Gorgòni a Marte
Pallade, e sola tien l’asta paterna
con che i regi precorre alla difesa
delle leggi e dell’are, e per cui splende
a’ magnanimi eroi sacro il trionfo.
Poi nell’isola sua fugge Minerva,
e tutte Dee minori, a cui diè giove
d’esserle care alunne, a ogni gentile
studio ammaestra: e quivi casti i balli,
quivi son puri i canti, e senza brina
i fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno
sempre, e stellate e limpide le notti.
Chiamò d’intorno a sé le Dive, e a tutte
compartì l’opre del promesso dono
alle timide Grazie. Ognuna intenta
agl’imperî correa: Pallade in mezzo
con le azzurre pupille amabilmente
signoreggiava il suo virgineo coro.
Attenuando i rai aurei del sole,
volgeano i fusi nitidi tre nude
Ore, e del velo distendean l’ordito.
Venner le Parche di purpurei pepli
velate e il crin di quercia; e di più trame
raggianti, adamantine, al par de l’etre
e fluide e pervie e intatte mai da Morte,
trame onde filan degli Dei la vita,
le tre presàghe riempiean la spola.
Né men dell’altre innamorata, all’opra
Iri scese fra’ Zefiri; e per l’alto
le vaganti accogliea lucide nubi
guareggianti di tinte, e sul telaio
pioveale a Flora a effigïar quel velo;
e più tinte assumean riso e fragranza
e mille volti dalla man di Flora.
E tu, Psiche, sedevi, e spesso in core,
senz’aprir labbro, ridicendo: «Ahi, quante
gioie promette, e manda pianto Amore!»,
raddensavi col pettine la tela.
E allor faconde di Talia le corde,
e Tersicore Dea, che a te dintorno
fea tripudio di ballo e ti guardava,
eran conforto a’ tuoi pensieri e a l’opra.
Correa limpido insiem d’Èrato il canto
da que’ suoni guidato; e come il canto
Flora intendeva, e sì pingea con l’ago.
Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;
e nel mezzo del velo ardita balli,
canti fra ’l coro delle sue speranze
Giovinezza: percote a spessi tocchi
antico un plettro il Tempo; e la danzante
discende un clivo onde nessun risale.
Le Grazie a’ piedi suoi destano fiori,
a fiorir sue ghirlande: e quando il biondo
crin t’abbandoni e perderai ’l tuo nome,
vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno
l’urna funerea spireranno odore.
Or mesci, amabil Dea, nivee le fila;
e ad un lato del velo Espero sorga
dal lavor di tue dita; escono errando
fra l’ombre e i raggi fuor d’un mìrteo bosco
due tortorelle mormorando ai baci;
mirale occulto un rosignuol, e ascolta
silenzïoso, e poi canta imenei:
fuggono quelle vereconde al bosco.
Mesci, madre dei fior, lauri alle fila;
e sul contrario lato erri co’ specchi
dell’alba il sogno; e mandi a le pupille
sopite del guerrier miseri i volti
de la madre e del padre allor che all’are
recan lagrime e voti; e quei si desta,
e i prigionieri suoi guarda e sospira.
Mesci, o Flora gentile, oro alle fila;
e il destro lembo istorïato esulti
d’un festante convito: il Genio in volta
prime coroni agli esuli le tazze.
Or libera è la gioia, ilare il biasmo,
e candida è la lode. A parte siede
bello il Silenzio arguto in viso e accenna
che non volino i detti oltre le soglie.
Mesci cerulee, Dea, mesci le fila;
e pinta il lembo estremo abbia una donna
che con l’ombre e i silenzi unica veglia;
nutre una lampa su la culla, e teme
non i vagiti del suo primo infante
sien presagi di morte; e in quell’errore
non manda a tutto il cielo altro che pianti.
Beata! ancor non sa quanto agl’infanti
provido è il sonno eterno, e que’ vagiti
Come d’Èrato al canto ebbe perfetti
Flora i trapunti, ghirlandò l’Aurora
gli aerei fluttuanti orli del velo
d’ignote rose a noi; sol la fragranza,
se vicino è un Iddio, scende alla terra.
E fra l’altre immortali ultima venne
rugiadosa la bionda Ebe, costretti
in mille nodi fra le perle i crini,
silenzïosa, e l’anfora converse:
e dell’altre la vaga opra fatale
rorò d’ambrosia; e fu quel velo eterno.
Poi su le tre di Citerea Gemelle
tutte le Dive il diffondeano; ed elle
fra le fiamme d’amore invano intatte
a rallegrar la terra; e sì velate
apparian come pria vergini nude.
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E il velo delle Dee manda improvviso
un suon, qual di lontana arpa, che scorre
sopra i vanni de’ Zeffiri soave;
qual venìa dall’Egeo per l’isolette
un’ignota armonia, poi che al reciso
capo e al bel crin d’Orfeo la vaga lira
annodaro scagliandola nell’onde
le delire Baccanti; e sospirando
con l’Ionio propinquo il sacro Egeo
quell’armonia serbava, e l’isolette
stupefatte l’udiro e i continenti.
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Addio Grazie: son vostri, e non verranno
soli quest’inni a voi, né il vago rito
obblieremo di Firenze ai poggi
quando ritorni April. L’arpa dorata
di novello concento adorneranno,
disegneran più amabili carole
e più beato manderanno il carme
le tre avvenenti ancelle vostre all’ara:
e il fonte, e la frondosa ara e i cipressi,
e i serti e i favi vi fien sacri, e i cigni
votivi, e allegri i giovanili canti
e i sospir delle Ninfe. Intanto, o belle
celesti, un voto del mio core udite.
Date candidi giorni a lei che sola,
da che più lieti mi fioriano gli anni,
m’arse divina d’immortale amore.
Sola vive al cor mio cura soave,
sola e secreta spargerà le chiome
sovra il sepolcro mio, quando lontano
non prescrivano i fati anche il sepolcro.
Vaga e felice i balli e le fanciulle
di nera treccia insigni e di sen colmo,
sul molle clivo di Brianza un giorno
guidar la vidi; oggi le vesti allegre
obliò lenta e il suo vedovo coro.
E se alla Luna e all’etere stellato
più azzurro il scintillante Èupili ondeggia,
il guarda avvolta in lungo velo, e plora
col rosignuol, finché l’Aurora il chiami
A lei da presso il piè volgete, o Grazie,
e nel mirarvi, o Dee, tornino i grandi
occhi fatali al lor natìo sorriso.