Ugo Foscolo
Le Grazie

INNO TERZO - PALLADE

III

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III

 

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Isola è in mezzo all’oceàn, dove

sorge più curvo agli astri; immensa terra,

come è grido vetusto, un beata

d’eterne messi e di mortali altrice.

Invan la chiede all’onde oggi il nocchiero,

or i nostri invocando or dell’avverso

polo gli astri; e se illuso è dal desio,

mira albeggiar i suoi monti da lunge,

e affretta i venti, e per l’antica fama

Atlantide l’appella. Ma da Febo

detta è Palladio Ciel, che da la santa

Palla Minerva agli abitanti irata,

cui il ricco suolo e gl’imenei lascivi

fean pigri all’arti e sconoscenti a Giove,

dentro l’Asia gli espulse, e l’aurea terra

cinse di ciel pervio soltanto ai Numi.

Onde, qualvolta per desìo di stragi

si fan guerra i mortali, e alla divina

libertà danno impuri ostie di sangue;

o danno a prezzo anima e brandi all’ire

di tiranni stranieri, o a fera impresa

seguon avido re che ad innocenti

popoli appresta ceppi e lutto a’ suoi;

allor concede le Gorgòni a Marte

Pallade, e sola tien l’asta paterna

con che i regi precorre alla difesa

delle leggi e dell’are, e per cui splende

a’ magnanimi eroi sacro il trionfo.

Poi nell’isola sua fugge Minerva,

e tutte Dee minori, a cui diè giove

d’esserle care alunne, a ogni gentile

studio ammaestra: e quivi casti i balli,

quivi son puri i canti, e senza brina

i fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno

sempre, e stellate e limpide le notti.

Chiamò d’intorno a sé le Dive, e a tutte

compartì l’opre del promesso dono

alle timide Grazie. Ognuna intenta

agl’imperî correa: Pallade in mezzo

con le azzurre pupille amabilmente

signoreggiava il suo virgineo coro.

Attenuando i rai aurei del sole,

volgeano i fusi nitidi tre nude

Ore, e del velo distendean l’ordito.

Venner le Parche di purpurei pepli

velate e il crin di quercia; e di più trame

raggianti, adamantine, al par de l’etre

e fluide e pervie e intatte mai da Morte,

trame onde filan degli Dei la vita,

le tre presàghe riempiean la spola.

men dell’altre innamorata, all’opra

Iri scese fra’ Zefiri; e per l’alto

le vaganti accogliea lucide nubi

guareggianti di tinte, e sul telaio

pioveale a Flora a effigïar quel velo;

e più tinte assumean riso e fragranza

e mille volti dalla man di Flora.

E tu, Psiche, sedevi, e spesso in core,

senz’aprir labbro, ridicendo: «Ahi, quante

gioie promette, e manda pianto Amore!»,

raddensavi col pettine la tela.

E allor faconde di Talia le corde,

e Tersicore Dea, che a te dintorno

fea tripudio di ballo e ti guardava,

eran conforto a’ tuoi pensieri e a l’opra.

Correa limpido insiem d’Èrato il canto

da que’ suoni guidato; e come il canto

Flora intendeva, e sì pingea con l’ago.

Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;

e nel mezzo del velo ardita balli,

canti fra ’l coro delle sue speranze

Giovinezza: percote a spessi tocchi

antico un plettro il Tempo; e la danzante

discende un clivo onde nessun risale.

Le Grazie a’ piedi suoi destano fiori,

a fiorir sue ghirlande: e quando il biondo

crin t’abbandoni e perderail tuo nome,

vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno

l’urna funerea spireranno odore.

Or mesci, amabil Dea, nivee le fila;

e ad un lato del velo Espero sorga

dal lavor di tue dita; escono errando

fra l’ombre e i raggi fuor d’un mìrteo bosco

due tortorelle mormorando ai baci;

mirale occulto un rosignuol, e ascolta

silenzïoso, e poi canta imenei:

fuggono quelle vereconde al bosco.

Mesci, madre dei fior, lauri alle fila;

e sul contrario lato erri cospecchi

dell’alba il sogno; e mandi a le pupille

sopite del guerrier miseri i volti

de la madre e del padre allor che all’are

recan lagrime e voti; e quei si desta,

e i prigionieri suoi guarda e sospira.

Mesci, o Flora gentile, oro alle fila;

e il destro lembo istorïato esulti

d’un festante convito: il Genio in volta

prime coroni agli esuli le tazze.

Or libera è la gioia, ilare il biasmo,

e candida è la lode. A parte siede

bello il Silenzio arguto in viso e accenna

che non volino i detti oltre le soglie.

Mesci cerulee, Dea, mesci le fila;

e pinta il lembo estremo abbia una donna

che con l’ombre e i silenzi unica veglia;

nutre una lampa su la culla, e teme

non i vagiti del suo primo infante

sien presagi di morte; e in quell’errore

non manda a tutto il cielo altro che pianti.

Beata! ancor non sa quanto agl’infanti

provido è il sonno eterno, e que’ vagiti

presagi son di dolorosa vita.

Come d’Èrato al canto ebbe perfetti

Flora i trapunti, ghirlandò l’Aurora

gli aerei fluttuanti orli del velo

d’ignote rose a noi; sol la fragranza,

se vicino è un Iddio, scende alla terra.

E fra l’altre immortali ultima venne

rugiadosa la bionda Ebe, costretti

in mille nodi fra le perle i crini,

silenzïosa, e l’anfora converse:

e dell’altre la vaga opra fatale

rorò d’ambrosia; e fu quel velo eterno.

Poi su le tre di Citerea Gemelle

tutte le Dive il diffondeano; ed elle

fra le fiamme d’amore invano intatte

a rallegrar la terra; e sì velate

apparian come pria vergini nude.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E il velo delle Dee manda improvviso

un suon, qual di lontana arpa, che scorre

sopra i vanni de’ Zeffiri soave;

qual venìa dall’Egeo per l’isolette

un’ignota armonia, poi che al reciso

capo e al bel crin d’Orfeo la vaga lira

annodaro scagliandola nell’onde

le delire Baccanti; e sospirando

con l’Ionio propinquo il sacro Egeo

quell’armonia serbava, e l’isolette

stupefatte l’udiro e i continenti.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Addio Grazie: son vostri, e non verranno

soli quest’inni a voi, né il vago rito

obblieremo di Firenze ai poggi

quando ritorni April. L’arpa dorata

di novello concento adorneranno,

disegneran più amabili carole

e più beato manderanno il carme

le tre avvenenti ancelle vostre all’ara:

e il fonte, e la frondosa ara e i cipressi,

e i serti e i favi vi fien sacri, e i cigni

votivi, e allegri i giovanili canti

e i sospir delle Ninfe. Intanto, o belle

o dell’arcano vergini custodi

celesti, un voto del mio core udite.

Date candidi giorni a lei che sola,

da che più lieti mi fioriano gli anni,

m’arse divina d’immortale amore.

Sola vive al cor mio cura soave,

sola e secreta spargerà le chiome

sovra il sepolcro mio, quando lontano

non prescrivano i fati anche il sepolcro.

Vaga e felice i balli e le fanciulle

di nera treccia insigni e di sen colmo,

sul molle clivo di Brianza un giorno

guidar la vidi; oggi le vesti allegre

obliò lenta e il suo vedovo coro.

E se alla Luna e all’etere stellato

più azzurro il scintillante Èupili ondeggia,

il guarda avvolta in lungo velo, e plora

col rosignuol, finché l’Aurora il chiami

a men soave tacito lamento.

A lei da presso il piè volgete, o Grazie,

e nel mirarvi, o Dee, tornino i grandi

occhi fatali al lor natìo sorriso.

 


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