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Ma quantunque non parlasse che di poeti, Didimo scriveva in prosa perpetuamente; e se ne teneva. Scriveva anche arringhe, e faceva da difensore ufficioso a’ soldati colpevoli sottoposti a’ consigli di guerra, e se mai ne vedeva per le taverne, pagava loro da bere, e spiegava ad essi il Codice militare. Oltre a’ tre manoscritti raccomandatimi, serbava parecchi suoi scartafacci ma non mi lasciò leggere se non un solo capitolo di un suo Itinerario lungo la Repubblica Letteraria. In esso capitolo descriveva un’implacabile guerra tra le lettere dell’abbiccì, e le cifre arabiche, le quali finalmente trionfarono con accortissimi stratagemmi, tenendo ostaggi l’a, la b, la x che erano andate ambasciatori, e quindi furono tirannicamente angariate con inesprimibili e angosciose fatiche. Dopo il desinare, Didimo si riduceva in una stanza appartata a ripulire i suoi manoscritti ricopiandoli per tre volte. Ma la prima composizione, com’ei diceva, la creava all’opera seria o in mercato. Ed io in Calais lo vidi per più ore della notte a un caffè, scrivendo in furia al lume delle lampade del biliardo, mentr’io stava giocandovi, ed ei sedeva presso ad un tavolino, intorno al quale alcuni ufficiali questionavano di tattica, e fumavano mandandosi scambievolmente de’ brindisi. Gl’intesi dire: Che la vera tribolazione degli autori veniva, a chi dalla troppa economia della penuria, e a chi dallo scialacquo dell’abbondanza; e ch’esso aveva la beatitudine di potere scrivere trenta fogli allegramente di pianta; la maledizione di volerli poi ridurre in tre soli, come a ogni modo, e con infinito sudore, faceva sempre.