Ugo Foscolo
Saggi sopra il Petrarca

SOPRA L'AMORE DEL PETRARCA

XVIII

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XVIII. Egli ne dipinge Laura, che dal cielo discende sopra la rugiada, la notte dopo ch'ella ebbe lasciato per sempre le miserie del mondo. Apparve dinnanzi all'amante, porsegli la mano, e sospirando disse:

 

Riconosci colei che prima torse

I passi tuoi dal pubblico viaggio,

Come 'l cor giovenil di lei s'accorse?

 

Mentre al vulgo dietro vai,

Ed all'opinïon sua cieca e dura,

Esser felice non puo' tu giammai.

La morte è fin d'una prigione oscura

Agli animi gentili; agli altri è noia,

C'hanno posto nel fango ogni lor cura.

Ed ora il morir mio, che sì t'annoia,

Ti farebbe allegrar, se tu sentissi

La millesima parte di mia gioia.

Così parlava; e gli occhi ave' al ciel fissi

Devotamente: poi mise in silenzio

Quelle labbra rosate, insin ch'io dissi:

Silla, Mario, Neron, Caio e Mezenzio,

Fianchi, stomachi, febbri ardenti fanno

Parer la morte amara più ch'assenzio.

Negar, disse, non posso che l'affanno

Che va innanzi al morir, non doglia forte,

Ma più la tema dell'eterno danno:

Ma pur che l'alma in Dio si riconforte,

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

Che altro ch'un sospir breve è la morte?

 

E quand'io fui nel mio più bello stato,

Nell'età mia più verde, a te più cara,

Ch'a dir ed a pensar a molti ha dato;

Mi fu la vita poco men che amara

A rispetto di quella mansueta

E dolce morte, ch'a' mortali è rara:

Che 'n tutto quel mio passo er'io più lieta,

Che qual d'esilio al dolce albergo riede;

Se non che mi stringea sol di te pieta.

Deh, Madonna, diss'io, per quella fede

Che vi fu, credo, al tempo manifesta,

Or più nel volto di chi tutto vede,

Creovvi Amor pensier mai nella testa

D'aver pietà del mio lungo martire,

Non lasciando vostr'alta impresa onesta?

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

Appena ebb'io queste parole ditte,

Ch'i' vidi lampeggiar quel dolce riso

Ch'un Sol fu già di mie virtuti afflitte.

Poi disse sospirando: mai diviso

Da te non fu 'l mio cor, giammai fia;

Ma temprai la tua fiamma col mio viso.

Perchè a salvar te e me null'altra via

Era alla nostra giovenetta fama:

per ferza è però madre men pia.

Quante volte diss'io meco: Questi ama,

Anzi arde: or si convien ch'a ciò provveggia;

E mal può provveder chi teme, o brama.

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

Più di mille fiate ira dipinse

Il volto mio, ch'Amor ardeva il core,

Ma voglia, in me, ragion giammai non vinse.

Poi se vinto te vidi dal dolore,

Drizzai 'n te gli occhi allor soavemente,

Salvando la tua vita e 'l nostro onore.

E se fu passïon troppo possente,

E la fronte e la voce a salutarti

Mossi, or timorosa ed or dolente.

Questi fur teco mie' ingegni e mie arti:

Or benigne accoglienze ed ora sdegni:

Tu 'l sai, che n'hai cantato in molte parti.

Ch'i' vidi gli occhi tuoi talorpregni

Di lagrime, ch'io dissi: questi è corso

A morte, non l'aitando; i' veggio i segni.

Allor provvidi d'onesto soccorso.

Talor ti vidi tali sproni al fianco,

Ch'i' dissi: qui convien più duro morso.

Così caldo, vermiglio, freddo e bianco,

Or tristo or lieto infin qui t'ho condutto

Salvo (ond'io mi rallegro), benchè stanco.

Ed io: Madonna, assai fora gran frutto

Questo d'ogni mia , pur ch'io 'l credessi;

Dissi tremando e non col viso asciutto.

Di poca fede! or io, se nol sapessi,

Se non fosse ben ver, perchè 'l direi?

Rispose, e 'n vista parve s'accendessi.

S'al mondo tu piacesti agli occhi miei,

Questo mi taccio; pur quel dolce nodo

Mi piacque assai ch'intorno al cor avei;

E piacemi 'l bel nome (se 'l ver odo)

Che lunge e presso col tuo dir m'acquisti:

mai 'n tuo amor richiesi altro che modo:

Quel mancò solo; e mentre in atti tristi

Volei mostrarmi quel ch'io vedea sempre,

Il tuo cor chiuso a tutto 'l mondo apristi.

Quinci 'l mio gelo, ond'ancor ti distempre:

Chè concordia era tal dell'altre cose,

Qual giunge amor, pur ch'onestate il tempre.

Fur quasi eguali in noi fiamme amorose,

Almen poi ch'io m'avvidi del tuo foco;

Ma l'un l'appalesò, l'altro l'ascose.

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

Non è minor il duol perch'altri 'l prema,

maggior per andarsi lamentando;

Per finzïon non cresce il ver scema.

 

Continuano essi questa conversazione, e il Petrarca si diffonde con alquanta compiacenza intorno al merito de' suoi versi, mentre Laura mal nasconde quella gelosia, la quale, sebbene muova direttamente dall'amor proprio e dall'invidia, viene sempre scambiata per l'effetto inseparabile del più profondo amore:

Duolmi ancor veramente ch'io non nacqui

Almen più presso al tuo fiorito nido:

Ma assai fu bel paese ond'io ti piacqui;

Che potea 'l cor, del qual sol io mi fido,

Volgersi altrove, a te essendo ignota;

Ond'io fôra men chiara e di men grido.

Questo no, rispos'io, perchè la rota

Terza del ciel m'alzava a tanto amore,

Ovunque fosse, stabile ed immota.

Or che si sia, diss'ella, i' n'ebbi onore,

Ch'ancor mi segue: ma per tuo diletto

Tu non t'accorgi del fuggir dell'ore.

 

Allora il suo amante le chiese, se andrebbe molto, prima ch'ei potesse raggiugnerla.

 

Ella, già mossa, disse: al creder mio,

Tu stara' in terra senza me gran tempo.

 

Il Petrarca sopravvisse a Laura ventisei anni.


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