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XI. Per tale ingenita benevolenza il Petrarca parve più che altri scevro da quel sentimento, che internamente umilia (se non sempre, almeno in qualche momento della loro vita) quasi tutti i letterati. La mistica tradizione di Apollo che scortica l'emulo suo è riferita da un greco antiquario con sì fatte lodi della musicale maestria di Marsia, e con tali imputazioni della mariuoleria e della crudeltà del dio della poesia,107 da farla credere allegoria non tanto del gastigo meritato dall'ignoranza presuntuosa, quanto della vendicativa gelosia de' dotti. Le proteste che il Petrarca mescola alle confessioni degli altri difetti suoi, e che ripete in vecchiezza; «come l'invidia non trovasse mai luogo nel suo cuore;»108 muovono da una di quelle innumerevoli illusioni, che ci fanno gabbo precisamente quando ci diamo a credere che il cuore nulla possa celare in noi alla nostra penetrazione. L'invidia si rimase in lui dormigliosa, perchè nessuno di quanti stavangli intorno sovrastava di tanto da risvegliarla. Rado peraltro proferì il nome di Dante e affettò di non mai leggerne le opere; e s'ei non può sempre cansarsi dal parlare del suo predecessore, ne parla per ricordarne meno i pregi che i difetti.109 Le opposte vie per cui natura, educazione, tempi e accidenti di fortuna guidarono questi due uomini ad immortalità, saranno rintracciate nel Saggio seguente. — Di fronte a' contemporanei, il Petrarca si levò tant'alto sopra la gelosia stessa, che sovente s'interpose ad estinguerla fra di essi. Ma qualunque volta l'interporsi tornava indarno, se ne doleva come di calamità immeritata; alla quale pur si esponeva, per ambizione forse di far mostra dell'autorità sua. A tal parte del suo carattere par ch'egli alluda in versi suggeritigli senz'altro dalla sua sperienza.
La lunga vita e la sua larga vena
D'ingegno pose in accordar le parti
Che 'l furor litterato a guerra mena.
Nè 'l poteo far: chè come crebber l'arti,
Crebbe l'invidia; e col sapere insieme
Ne' cuori enfiati i suoi veneni sparti.
Benchè la vanità si facesse paga a scapito della pace, entrava egli di mezzo alle quistioni letterarie, trattovi dal generoso principio: «che coloro i quali ardono di carità patria, sendo essenzialmente virtuosi, sono da natura conformati a stringersi d'indissolubile amicizia.»110 Ma sublimi massime, bandite fra gente per cui sono impraticabili, provocano inevitabilmente le risa; e il Petrarca, col riprendere chi rideva de' suoi avvisi, venne in qualche maniera a render giusta la baja che si voleva di lui. Una adunanza di giovani in Venezia gl'intentò un processo formale per essersi arrogato giurisdizione illegale sopra tutte le quistioni di dottrina. Elessero dal proprio seno avvocati, e, ascoltate le accuse e le difese, sentenziarono come il solo delitto del Petrarca consitesse nell'essere lui una buona pasta d'uomo. Di sì fatta commedia non fu chi, salvo il Petrarca, pigliasse seria contezza. A rispignere la insinuazione, compose egli un grosso libro, che effettivamente forzò i posteri a farsi compagni nel bell'umore de' suoi accusatori.111
L'abate De Sade fece conoscere la lettera del Petrarca al Boccaccio, sepolta prima nell'edizione di Ginevra e non avvertita. Il Tiraboschi nella prima edizione della sua Storia impugnò l'autenticità della lettera, e la verità di più cose in essa contenute. Nelle note alla seconda edizione, dalle nuove ragioni addotte dal De Sade nella sua Risposta, ch'egli ottenne manoscritta, e ch'è tuttavia inedita, costretto a disdire le più delle sue obbiezioni, non cessa però dalle sofisticherie. Ora nella lettera il Petrarca si duole dell'accusa, che il volgo gli dava, d'invidiar Dante. Parve al De Sade che ciò facesse in guisa da confermare piuttosto che distruggere quell'opinione: ma il De Sade non fa che esporre un dubbio. L'autore di questi Saggi, uscendo dal campo ampio e lubrico de' sospetti, li converte in esplicita e formale accusa, fondandola egli pure nelle ambagi della difesa; e aggiugne: «che il Petrarca affettò di non leggere mai le opere di Dante»: ma perchè dissimularne la cagione, espressa nella stessa lettera del Petrarca? Il Petrarca dice dunque, che non le leggeva, non perchè non le avesse in sommo pregio, ma perchè, datosi egli pure alla poesia volgare, temeva di essere tratto a ricalcarne le orme, ed era ben risoluto di stamparne di proprie; quella cagione, che fece abbandonare all'Alfieri la lettura di Shakespeare. Che se più innanzi, nel Parallelo fra Dante e Petrarca, il Foscolo reca altre parole di essa lettera, con le quali il Petrarca dà nota di ruvido allo stile di Dante, in ciò si vuol ravvisare non l'invidia, ma il gusto e il giudizio del Petrarca, gusto e giudizio comuni a tant'altri allora e poi. In quel Parallelo vedremo come, nel secolo di Leon X, proclamato il Petrarca superiore a Dante, e rimasa la sentenza in vigore fino a' di nostri, ciò venga dall'Autore attribuito al preferirsi allora l'eleganza del gusto agli ardimenti del genio. Ora quant'egli dice dell'universale — e con verità, ci pare — perchè non potrà dirsi di un solo,... del Petrarca, ad esempio? Era egli l'eleganza in persona; e per ciò stesso o per altro, la teneva forse, comparativamente ad altre doti o possedute o richieste da uno scrittore, in soverchio pregio. Oggidì, che la venerazione a Dante salì a superstizione, a vera Dantelatria, i giudizi che ne vanno scevri riescono incomportabili. Il solo che a buon dritto dovrebbe riuscir tale, perchè negazione del nome di poeta a Dante, è il verso
Fiorenza avria fors'oggi il suo poeta,
che allude non a Dante, ma al Petrarca che lo scriveva in quel sonetto, dal quale s'avrebbe a inferire, che, mentre Arunca del suo Lucilio può inorgoglire, a Firenze manchi il suo poeta. Che un tal verso dal nostro punto di vista ci muova a dispetto, chi vorrà negarlo? Eppure l'autore de' Saggi, se anche non avesse passato in silenzio questo, che è il vero torto fatto dal Petrarca a Dante, e non in lettere latine e confidenziali poco lette, ma nelle Rime, che tutti leggono, l'unico torto che valga a provocare doglianze legittime, ce ne porgerebbe pur sempre egli stesso la scusa, o piuttosto la spiegazione, senza punto ricorrere a sentimenti bassi. In fatti, e qui e dove verrà a raffrontarli, non parla egli della discrepanza assoluta di genio, di gusto e di studi tra i due grand'uomini? Rechiamci col pensiero a' dì del Petrarca, e troveremo la Divina Commedia mancante ancora di quella fama universale, che è agli occupatissimi necessaria per determinarli a serie e lunghe letture, e tali da equivalere a uno studio, e sole bastanti a ben giudicarne. Quindi il non leggersi il poema di Dante non era allora tal cosa da farne ora stupore... Erane la fama nascente, gli esemplari non comuni, sicchè il Boccaccio, tra' primi a predicarlo e primo a spiegarlo da una cattedra, volendo indurre l'amico a leggerlo, dovette mandarglielo. Di qui quella fama cominciò a mettere le radici, ma passò lungo tempo prima che fosse ben radicata. Conchiudiamo, che l'attenzione del Petrarca volgevasi tutta alla ricerca di codici antichi, e molti infatti ne scoprì; ch'egli sovra tutti cercava poeti fatti sacri non solo dal lauro ma da' secoli: che sì fatta consecrazione a Dante, che l'ha oggidì, allora mancava; che il non leggerne le opere, oltre la ragione sovra esposta, il timore cioè di divenirne servile imitatore, non era lo scandalo che oggi pare o sarebbe; che quindi l'accusa d'invidia data al Petrarca manca di solido fondamento, ov'anche se ne allegasse la prova più forte e più pubblica, trasandata ne' Saggi; però che del suo dire e del suo tacere intorno a Dante si hanno motivi più veri e più onesti. [T.]