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SCENA PRIMA
Canuto, inerme, il tuo potere io temo,
E non ti armavi
Tu dello scudo e del furor di Achille?
Nè quell’insano, o imperversar di plebe,
Nè le bende divine onde t’ammanti
T’eran difesa: quelle bianche chiome
E il tuo pallore di pietà m’han vinto.
Tremende or fai l’armi d’un’ombra, e nuovi
Achilli al volgo, profetando, accenni?
Qui dove io sto, qui dov’io t’odo e tremi,
Stanno numi ed altari, e questo è loco
A men astuti oracoli. — Rispondi;
L’armi d’Achille a chi prepari?
Il vero
In me difese Achille; il ver che giova
Alla salute degli Achei: deh come
Tu, cui temono tutti, il vero temi!
Dirlo or dovrei, difenderlo non posso.
Vecchio, presagi a te non chiesi; i lieti
Spregio e gli avversi: al detto mio rispondi:
L’armi d’Achille a chi prepari? — Taci? —
Ov’è il tuo ardir? — Mi tralucea la trama;
Or la discerno. Ahi frodolento! ardire
Non hai tu dunque di nomarmi Ajace?
Al grande Ajace i figli degli Achei
Dier l’ardue spoglie; io no: che a lui funesta
E a noi di pianto e a te d’infamia forse
Temo la troppa sua virtú sublime.
Ah tu l’esalti, oggi che è polve e larva
La tua vantata deità d’Achille;
Oggi un campion ti vai mercando, e il pasci
D’orgoglio, e di fatali armi lo cingi.
Le torte vie che a vendicarti apristi,
In onta tua ricalcherai. Ritorna
In campo, e le armi rendi vili al volgo. —
Che stai? — Le palme al cielo tendi; e immoti
Gli occhi a me volgi? — Mi obbedisci: o eterna
Notte starà sul guardo tuo che al cielo
Furar presume l’avvenire e i fati.
Però non temo, chè piena imminente,
Non la tua, la divina ira discerno.
Re de’ regi, t’arresta. Audaci modi
Assumo e tu mi sforzi: io troppo vissi. —
L’ufficio mio compiuto era dal giorno
Che condottiero a tanti re ti elessi:
T’erano allor che per l’ignoto Egeo
Attraverso le folgori e la notte
Trassero tanta gioventú che giace
Per te in esule tomba, o per te solo
Vive devota a morte. Oggi mentito
Accusi il Dio che il ver m’ispira. Ah! gli anni
Lunghi ch’io vissi tra le gioje, il lutto,
Gli errori, i vizii e le virtú di tanti
Forsennati mortali, il ver sovente
M’insegnano. Sciagure oggi e delitti
Ben presagir poss’io, poichè pur sempre
Colpe e sciagure rinascenti io veggio.
E voi piú ch’altri; voi, l’invidie, gli odj,
L’orgoglio vostro, e le trame, e le furie
Mi siete numi e l’avvenir mi aprite.
Divinità che dal sen mi prorompe
E mai quetar per lagrime non posso
È il dolor mio; speme e pietà lusinga
Mi fanno, e parlo. Or gli ultimi consigli
Ti mando al cor. — Ajace avi e valore
Vanta comuni al generoso Achille,
E implacato, magnanimo, mortale
In ogni impresa che alla patria noccia
L’avrai nemico: ma guerrier sublime
Per la tua gloria ei pugnerà, se a gloria
Piú che a possanza, o Agamennone, aspiri.
Gloria!... Indistinti tu mi davi, eterni
Di parricida e re de’ regi i nomi.
Misero re! Pur mi vedesti assiso
Sull’altar della Dea, l’intera notte,
Disdir l’orrendo sacrificio: e quanto
Te scongiurando e abbracciando non piansi!
Piangevi tu, ma non mi udivi. A’ tuoi
A’ fidi tuoi, prezzo del sommo impero
Vittima davi Ifigenia. Per essi
Del terror delle furie ardean le schiere
E a nudi brandi intorno mi fremeano
Pallide, atroci, e deliravan sangue,
Che le infernali Deità placasse.
Dell’innocente giovinetta il crine
Coronò il fratel tuo; gittò sovr’essa
Il vel. Con fredde mani ella le mie
Strinse, al cielo mirando. Io te mirava
E ancor credea che tu padre saresti!
Raccapricciando ritraevi il volto,
E il tuo scettro tremante la bipenne
Accennavami... eterno in cor mi geme
Della morente vergine il sospiro! —
Tu regni; in pianto e nel rimorso regni:
Nè avrai nuovo poter senza novella
Questo infamato scettro, ecco, vel rendo:
Tremar vi fea; calcatelo. Ch’io possa
Me stesso almen non abborrir! — Io tutti
Punirò meco. Le viscere arcane
Mi sbranano l’Eumenidi. Ma voi
Astuti, sconoscenti, invidi prenci,
Che scerre un dí tra la mia figlia e il trono
Pur mi traeste, siate avvinti al giogo
Del parricida Agamennone.
Pianto i celesti move. E allor la Grecia
Liberator ti ha venerato; e placa
Di tutto il sangue de’ suoi figli l’ombra
D’Ifigenia; e ancor ten resta il merto.
Ma bada, o re, che insultator dell’are
E della patria libertà non forse
Ti creda un volgo aspro, a’ delitti pronto,
Nè ancor dai vizj maturato al giogo.
Or nume è Achille: a lui la fama diede
E tu il chiamavi un dí germe di Giove;
E in lui certo splendea parte del cielo!
Poscia che al lutto degli Achei rapita
La polve dell’Eroe fu dal sepolcro
Correano a fuga a terror a tumulto.
E chi potea, tranne quell’armi e il nome
Renderli a speme, e a cenni tuoi sommessi?
Tu temi Ajace: re potente sei,
Ei nullo invidia, ei non t’adula, e il temi?
Altri l’immensa ambizion ti pasce,
Dell’invidia la rabbia altri rovescia
Dal proprio cor nel tuo. Temi chi il nome
Odia d’Achille e la virtú d’Ajace.
Te solo un dí, te d’ogni eroe deserto,
Affronterà l’assalitor tuo vero.
Col ferro no; con la notturna frode
Le querele eloquenti e la feconda
Calunnia tutti a sgominarti il trono
Moverà i federati. Ardi, soggioga
L’Asia: di schiavi barbari e di regie
Spoglie trionfa. — Alle fraterne greche
Terre e a’ lor numi abbi rispetto, Atride.
Oggi o non mai fia manifesto al mondo
Che fin ch’io spiro e ch’io vedrò la terra
Me i greci sempre obbediranno; e tutti.
Anche il mortale che nè amar nè odiarlo
Vorrei, che forse me non odia... Ajace...
Primo cadrà se a me non serve. — Gli altri?
O vili o insani o perfidi son tutti.
Traditor mille io veggio. O umana stirpe
Nata a ingannare ed a tremar! Ma infame
Fia il traditor che mi farà piú forte.
Indi a mio grado io spezzerò que’ vili
Stromenti, allor che rammentarmi il nome
Non s’ardirà d’Ifigenia. Me solo
Giudice avrò, carnefice me solo.
Ma voi, chinate gli occhi vostri: io sdegno
Lagrime e lodi; il terror vostro io voglio.