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SCENA PRIMA
Ma e che? Son io signor di me? Da quanti
Oggi non pendo! — o incerte ore!... Nè il mondo
Lasci alla notte, e a che piú tardi, o sole? —
O! a chi dar leggi io voglio. — Io?... che ad Ajace
Dir pur or non osai: cedi il tuo scettro,
Snuda il brando e per me pugna, e t’immola.
Io che onore e possanza e pace aspetto
Or da un Ulisse... — Ah no! la pace mia
Fu ne’ miei tetti, e sparí col sorriso
Della mia figlia: all’angoscia, al terrore,
Al parricidio io la mia casa educo. —
Ch’io qui riposi almen per or. — Qui assiso,
O Agamennone il tuo tranquillo aspetto
Incodardisce questi avvezzi al sangue
Regnatori superbi... E non ardiva
Qui il mio regal paludamento un uomo,
Un uomo sol quasi strapparmi? E rabbia
E vendetta e stupor e la vergogna
Del simular, e la tomba che Ajace
Si spalanca... ma piú quel terreo immoto
Volto d’Ulisse, mi fean muto quasi,
E in me scorrea gelato un sudor lento... —
Ecco già notte. E Ulisse aspetto io sempre! —
Vil alma audace a un tempo, infida, fredda
Sortí colui. Gli uomini, i casi, i tempi
Attrae scaltro invisibile, e avviluppa
Tutto me in essi. Io m’agito: trascorro
Strascinato... ei li guida ov’io piú bramo:
Sa ch’egli splende di mia luce, e fida
Come se a un tratto ei spegnerla potesse.
Già mi ha divelto ogni secreto mio,
Quind’io sospetto... — Ma non piú. Si sappia
Che su la Grecia vo’ regnar io solo. —
Ardan le faci, il campo mio risplenda.
Il re de’ regi s’apparecchia all’armi.