«Secondo me, siccome son tre o
quattro giorni che non fa altro che passar militari che vanno alla finta
battaglia, questo qui lo deve avere smarrito di certo qualche uffiziale,
perché, lo so, que' signori ci ambiscono a tenere di questi animali buffi. Ma
guardi com'è festoso! Io lo terrei magari per me, ma è proprio un peccato che
non abbaj punto, perché io sul barroccio ho bisogno di tenerci un cane che
quando s'accosta gente si faccia sentire, se no, addio la mi' roba. L'avrebbe a
pigliar lei, vede. E a lei glielo do volentieri anche per nulla.»
Così mi diceva una mattina
Pasquale barrocciaio, che incontrandomi per la strada aveva fermato il mulo per
mostrarmi un bel cagnolino da lui trovato la sera avanti sul greto d'Arno,
mentre era per buttarsi nell'acqua e traversare il fiume a guado.
«Lo prenderei tanto volentieri»,
risposi, «perché dopo esser così festoso è anche d'una razza molto rara; ma,
che vuoi? fra grossi e piccini ce n'ho cinque per la casa, e non ho voglia
davvero di mettermi d'intorno un'altra di queste seccature.»
«Guà! mi rincresce. A lei
signoria gliel'avré dato dimolto volentieri.»
«Ti ringrazio, Pasquale.»
«O andiamo. Dunque, mi comanda
nulla lei, di lassù?»
«Se vedi il sor Luigi e il sor
Roberto, salutameli tanto.»
«Non pensi, sarà servito. A
rivederlo signoria. Là, Giovanni, là, s'è fatto tardi.»
E accompagnando con una frustata
queste ultime parole che erano rivolte al suo mulo, si allontanò.
Quello che segue, lo seppi
qualche giorno dopo.
Circa due miglia lontano dal
punto dove c'eravamo lasciati, Pasquale trovò da esitare il cane per una
dozzina di carciofi a una famiglia di contadini che stavano lungo la via
maestra. Concluso il contratto con la consegna del cane da una parte e dei
carciofi dall'altra, il capoccia chiese al barrocciaio:
«Dico bene: o come si domanda egli
quest'animale?».
«Io lo chiamavo Pillàcchera,
perché quando lo trovai era più lercio del fruciandolo del forno; ma se poi
questo nome non vi garbasse...»
«E allora si chiamerà Pillàcchera
anco noi. To', Pillàcchera, to'.»
E il canino corse a leccare la
mano del nuovo padrone che lo menò in casa.
Il povero Pillàcchera non dette
nel genio al resto della famiglia: ed anche lo stesso capoccia, dopo il
mezzogiorno, aveva già cominciato a lavorare di pedate alla sua usanza, perché
l'aveva visto ricusare un pezzo di pan nero e non aveva voluto abbaiare dietro
al calesse del fattore.
Ai giovani non piacque, perché
quando si doveva prendere un cane, dissero loro, era meglio prenderlo da
caccia.
La massaia poi era implacabile.
Con quella dozzina di carciofi attraverso all'anima, diceva che cani a quella
maniera non n'aveva mai visti; ma sopra tutto, poi, quel pelo lungo che gli
nascondeva affatto gli occhi, era per lei qualche cosa che non le voleva andar
giù in nessuna maniera.
Pillàcchera passò la giornata fra
'l dolore d'una pedata e la paura d'averne un'altra. Finalmente, sulla sera, la
famiglia si radunò tutta in cucina per la cena. Dopo aver messo in tavola il
tegame della minestra, la massaia s'accostò al capoccia che stava pensieroso
nel canto del fuoco, e gli disse in tono burbero all'orecchio:
«O voi l'avete preso l'ulivo
benedetto?».
«Per che farne?»
«A voi; e tenetevelo addosso,
vecchio grullo! e datene una foglia per uno anche a que' ragazzi.»
Si misero a tavola serî e molto
sospettosi, serrandosi l'uno addosso all'altro, perché ormai, col calar della
sera, s'era fortemente insinuato nell'animo di tutti il dubbio d'essersi messi
le streghe in casa. Masticavano scongiuri, facevan corna ad ogni momento, e
pareva loro mill'anni d'arrivare in fondo alla cena per dire il rosario.
In un momento di silenzio,
Pillàcchera, che s'era rintanato sotto la madia, stimolato dalla fame, escì di
là sotto adagio adagio e inosservato; e cercando forse di mettere a profitto
una delle sue abilità per intenerire i nuovi padroni, si mise in mezzo alla
stanza, ritto sulle gambe di dietro.
Un grido straziante escì dal
petto della massaia; tutti impallidirono e quasi fuori di sé si precipitarono
spaventati, facendosi segni di croce e urlando «misericordia!», verso un
crocifisso che pendeva ad una parete della stanza.
Pillàcchera rientrò spaurito
sotto la madia.
«Animo, Angiolo!», disse il
capoccia al maggiore de' suoi figlioli. «Io, con quell'animale in casa la
nottata non la passo. Fànne quel che ti pare, ma levamelo di lì.»
Angiolo non rispose.
Il capoccia che intese di che si
trattava, replicò:
«Se hai paura, piglia con te chi
ti pare, ma levami quella bestia di casa, se no mi danno».
Angiolo legò il cane con una
cordicella e s'avviò, strascinandoselo dietro, verso l'uscio, fra le
imprecazioni dei rimasti, mentre la massaia non trovando altro che le venisse
alle mani o forse annettendoci qualche importanza antidiabolica, si levò uno
scarpone di vacchetta e lo tirò con tanta rabbia contro il povero Pillàcchera,
che lo ridusse ad allontanarsi zoppicando e mandando lamentosi guaiti.
Angiolo ed il suo compagno
tornarono presto e con aria molto soddisfatta; la cena fu terminata
tranquillamente, ed il rosario, cotesta sera, fu detto di quindici poste.
Il giorno dipoi, su tutte le
cantonate del paese vicino si leggeva quest'avviso:
Quattrocento lire di cortesia a chi riporterà
al Comando militare una cagnolina maltese di pelame bianco finissimo, che
risponde al nome di Perla. Oltre che alla detta somma, colui che la riporterà,
avrà diritto alla imperitura gratitudine del proprietario.
Passarono tre giorni, e nessuno
comparve al Comando militare.
Intanto, nella famiglia dei
contadini, dopo che ebbero saputo dell'avviso, seguirono violentissime scene
che dettero poi motivo al padrone di licenziarli dal podere ed alla massaia di
convincersi sempre più che il diavolo in forma di cane era stato in casa sua.
Quello stesso giorno fu veduto un
Colonnello d'artiglieria percorrere ansante le vie del paese, parlare concitato
con Pasquale e dopo poco, con aria lietissima, entrare con lui in un legno di
vettura e prendere la via della campagna.
Il vento della mattina,
impregnato del profumo dei fiori di mandorlo, si divertiva ad arruffare i folti
baffi del Colonnello, tutto buonumore, offrendo a Pasquale un sigaro d'avana
gli domandava:
«Che è molto distante?».
«Neanche quattro miglia. In una
mezz'ora siamo lassù.»
«E l'avranno sempre loro, ne
siete proprio sicuro?»
«Perdinci bacco! o che n'hanno a
aver fatto?»
In un trasporto d'allegrezza il
Colonnello abbracciò Pasquale; gli parlò dell'affezione di sua figlia per la
piccola Perla e dello stato di disperazione nel quale da tre giorni si trovava;
lodò il sistema toscano della mezzeria e parlò con entusiasmo dell'indole mite
e de' costumi semplici e patriarcali de' nostri contadini.
Il cavallo intanto divorava la
via a trotto serrato, e dopo poco, di sopra ad una svoltata a secco della
strada, dalla quale si dominava la vallata, Pasquale gridò:
«Eccola laggiù!».
«Chi?», domandò con impeto il
Colonnello.
«La casa...»
Dieci minuti dopo erano già
arrivati. Il Colonnello tirò fuori il portafogli perché era impaziente di
ricompensare, così diceva lui, quelle buone creature; saltò dal legno e tutto
lieto corse incontro alla massaia che era comparsa arcigna sulla porta. Dopo
che ebbero scambiato fra loro poche parole, la massaia rientrò in casa
brontolando e voltandosi indietro a squadrare sospettosa il Colonnello che
immobile e taciturno era rimasto a guardarla con le braccia incrociate sul
petto.
Pasquale, che aveva osservato
attento quella scena scacciando le mosche al cavallo: «Dio del cielo!», gridò a
un tratto spaurito, «o che è stato?».
«Queste buone creature!...»,
esclamò il Colonnello con angosciosa ironia. «Queste buone creature!» E
stringendo convulsamente il portafogli, tornò frettoloso alla vettura...
La povera Perla, sotto il nome di
Pillàcchera, già da tre giorni dormiva accanto alle radici d'un olivo, con la
testa fracassata da un colpo di vanga.
In quella casa ora ci si sente, e
nessuno dei dintorni s'azzarderebbe a dormir solo in una certa camera, nemmeno
per tutto l'oro del mondo. Eccone le cause.
Dopo quel fatto, ogni volta che
un cane passava davanti alla casa del contadino, tutti gli uomini gli erano dietro
per prenderlo: ma per qualche tempo fu possibile d'agguantarne nemmeno uno.
Finalmente uno si lasciò prendere, ma con gran fatica, e dopo aver addentato
ripetutamente il capoccia alle gambe ed alle mani.
Costui aspettò ansioso il
desiderato avviso su le cantonate, ma comparve invece un certo malarello che in
tre giorni lo mandò nel mondo di là, senza che nemmeno al Priore potesse
riuscire di fargli prendere l'ostia consacrata.
«Neanche nell'acqua! capisce?»,
mi diceva Pasquale con gli occhi stralunati dallo spavento, «neanche
nell'acqua, Dio del cielo! ci fu verso di fargliela ingozzare! E quando la
vedeva: mugli che pareva un liofante... Arrabbiato?... O senta, veh! il dottore
è padrone di dire quel che gli pare e piace; ma quello lì, e giocherei la testa,
è morto, Gesù ci liberi tutti, dannato!»
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