I tre soliti scoppi di frusta
convenzionali dati dal braccio robusto di Fiore si fecero finalmente sentire;
la vecchia e fida Gigia si mise al galoppo scotendo allegra la groppa umida e
fumante; Fiore sbadigliò pensando alla cena, e il sor Pasquale, levando per un
momento la destra, che il freddo gli aveva intorpidita, dall'involto che
gelosamente si teneva sulle ginocchia, s'asciugò con un moto rapido il naso, e
con altrettanta rapidità la rimise al posto, brontolando un «Oh!» di
compiacenza che voleva dire: «Finalmente siamo arrivati!».
In quello stesso momento, alla
quiete ordinaria che aveva regnato dalle ventiquattro in poi nella casa del sor
Pasquale, successe un movimento rumoroso: i ragazzi cominciarono a strillare,
Toppa s'avviò latrando incontro al calesse del padrone e la sora Flaminia corse
in cucina a buttar giù ogni cosa. Buttò giù nella pentola i taglierini fatti in
casa colle sue proprie mani; buttò giù nel paiolo che brontolava da un pezzo il
cavol fiore còlto nel suo campicello della fonte; buttò in padella quattro
manate di bròccioli saltellanti, pescati la mattina da' suoi ragazzi; buttò giù
quella po' di dose di malumore che aveva messa insieme nel veder passata d'una
quarantina di minuti l'ora solita del ritorno del suo marito dal mercato di
Cutigliano, e attese seriamente a dare l'ultima mano alla sua faccenda
prediletta.
Cinque minuti dopo la Gigia, che
fu tirata subito in rimessa per non lasciarla così sudata alla brezza tagliente
della montagna, rispondeva soffiando e dimenando gli orecchi alle sgarbate
carezze dei monelli di casa e alle linguate di Toppa, che non era tanto per
saltare addosso al padrone, a Fiore e al muso della cavalla.
Ma quella sera, o almeno in quel
momento, il sor Pasquale non voleva carezze né dai figlioli né dal cane.
Domandò che ore erano, brontolò una buona sera a' suoi ragazzi, dette
un'ombrellata a Toppa e corse subito in camera col suo misterioso fagotto.
La sora Flaminia, che lo
aspettava a stirizzirsi alla fiammata del fritto, restò sorpresa di non vederlo
comparire in cucina; ma pensando che fosse andato subito a levarsi da dosso i
panni fradici, continuò a soffiare nel fuoco e a tirare avanti la cena, che in
quel giorno, come in tutti gli altri di mercato, diventava un vero e proprio
desinare.
«Lo lascino stare stasera il
babbo», disse Fiore ai ragazzi mentre faceva il letto alla Gigia; «lo lascino
stare perché stasera non è serata.»
«O che ha? o che ha?»
«Che sappia io, nulla; ma mi pare
che abbia de' pensieri e dimolti.»
«Che t'ha gridato per la strada?»
«No, gridato no; ma tutte le
volte che aprivo bocca mi dava del bestione per nulla. Io l'ho lasciato sempre
dire, perché tanto lo so che è fatto a quella maniera: ma mi c'è voluta tutta
la mi' pazienza! Si figurino che m'ha avuto a mangiare perché gli ho detto che
l'oriolo vecchio di cima scala me lo giocherei con mezzo mondo.»
E lui a dirmi che ero un
bestione! e io a dirgli che in ventiquattr'anni che sono nella su' casa non
l'ho ma' visto né dal maniscalco né fare un minuto... O non l'ha detto tante
volte anche lui? Ma stasera, no! E lì a dire che non era vero nulla; e io a
lasciarlo dire. E lì brontola, e lì brontola!... O che lo so che abbia in corpo
stasera? Cecchino si fermi, lasci stare la cavalla! eppure l'altro giorno... se
n'avrebbe a rammentare!... Natale, codesto povero cane! Ecco! o se gli desse un
morso, o che non gli starebbe bene?... Ahi! no, Peppe, colla frusta poi s'ha a
fermare... ahi, permio!
«Ragazzi! Pasquale!»
«Sentono? la padrona li chiama a
cena. Via, via, si levino un po' di torno.»
«Pasquale! ragazzi! a tavola!»,
ripeté la sora Flaminia.
«Accidenti ai ragazzi!», disse
Fiore fra i denti, e rimettendo al suo beccatello la frusta, la fece vedere a
Toppa, che, capìta l'antifona, corse di galoppo in casa colla coda fra le
gambe.
Per liberare le tre eterne
vittime di quelle quattro forche di figlioli, non ci voleva altro. Corsero
tutti in salotto scapaccionandosi, e si piantarono a tavola tirando su col naso
e preparati alla solita osservazione, appena fosse scodellata la minestra:
«Così poca?».
Rimasero meravigliati di non
vedere ancora scodellato; si guardarono fra loro, tossirono, shignazzarono,
s'asciugarono coi tovaglioli la bocca e tutto il resto, e dimenandosi sulle
seggiole, domandarono tutti insieme: «O babbo?».
La sora Flaminia intanto, col
cucchiaione in una mano e la prima scodella nell'altra, aspettava guardando la
porta dalla quale doveva comparire il marito.
Era quasi un par di minuti che la
zuppiera mandava la sua nuvola di fumo appetitoso ad investire il lume a
petrolio attaccato al palco sul mezzo della tavola, quando compare Fiore nella
stanza, e appena entrato:
«O il padrone?», domandò.
«Ma dove s'è cacciato? che fà?
Signore Dio!», domandò impazientemente Flaminia. «Dategli una voce, via, Fiore;
mi pare di sentirlo su nello scrittoio.»
«Sissignora; senta! è su che
armeggia. Pare che metta delle bullette.... chi lo sa?»
«Sì, sì. Andatelo a chiamare e
ditegli che io intanto scodello, perché se no, questi taglierini mi diventano
un pastone.»
Il sor Pasquale in quel momento
era felice. S'era già alleggerito del misterioso fagotto che con tante pene
aveva portato intatto attraverso al freddo e al nevischio per quattordici
miglia di montagna, ed ora, prima di scendere a mangiare, contemplava attaccato
a una parete del suo scrittoio un ordinarissimo oriolo col cucùlo, che gli era
stato appiccicato da un imbroglione qualunque come un oggetto d'una rarità
favolosa. E pregustando le gioie della sorpresa che preparava ai suoi ragazzi,
ai montanini dei dintorni, al parroco e alla sora Flaminia, la quale in quel
momento pensava che il suo marito doveva avere per la testa qualcuna delle sue
solite grullerie, e pregustando, come dicevo, le gioie di tale sorpresa,
dimenticò perfino il malumore che gli avevano messo addosso alcune persone
incontrate in un caffè, le quali glielo chiamarono girarrosto, stimandogli
dodici lire quell'oriolo che lui aveva pagato quarantacinque, credendolo una
bazza.
«Eccomi, eccomi, Fiore; vengo
subito», rispose amorosamente al servitore che lo chiamava, e allegro come
quella pasqua dalla quale aveva preso il nome, tutto inzaccherato e con gli
stivali motosi sempre in piedi, scese in mezzo alla sua famiglia.
Nel movimento d'allegrezza che si
manifestò nei ragazzi alla vista del babbo, che in quel momento significava
«mangiare», un bicchiere schizzò, dopo avere empito di vino la tovaglia, a
stritolarsi in mezzo alla stanza, accompagnato da una sonora risata del sor Pasquale,
che due sere innanzi, alla stessa ora precisa, s'era mezzo slogato il pollice
della mano destra a scapaccionare Cecchino per un caso simile.
La sora Flaminia allora sempre
più si persuase che Pasquale doveva averla fatta grossa. Pensa tu, - per dire
come pensò lei, - pensa tu che razza di lavativo gli hanno appiccicato questa
volta!
E i timori della sora Flaminia
erano anche troppo giustificati, perché dai tre mercati ai quali era stato in
quell'anno, non era mai tornato colle mani vuote. La prima volta tornò con una
dozzina di pezzuole di seta tutte di cotone; la seconda. con la Bibbia del
Diodati per il priore che gli aveva ordinato quella del Martini: la terza, con
un par di calzoni bell'e fatti di casimirra inglese di Prato, che quando se li
provò gli arrivavano a mezza polpa.
«E questa volta? Dio me la mandi
bona!», pensò la sora Flaminia; e guardò pietosamente le pillacchere di
Pasquale, che ingozzava rumoroso la minestra ridendo da sé sotto i baffi.
«Dio me la mandi bona!», e in
tempo che raffreddava, soffiandovi, la prima cucchiaiata:
«Dimmi», domandò a Pasquale che
guardava il suo oriolo da tasca, «o quello delle castagne l'hai veduto?»
«Chi?... Ah!! zitta, zitta,
via!», rispose Pasquale indispettito. «Guarda con che mi viene fòra ora!»
«O non sei andato apposta al
mercato?»
«Fiore!», chiamò il sor Pasquale.
«Fiore!» E rispondendo alla moglie:
«Sì, hai ragione; ma credo che
l'abbia visto Fiore... Fiore!».
«Comandi sor padrone...»
«Ditemi, Fiore, che ci avete
parlato voi con Luc'Antonio?»
«Nossignore; siccome lei signoria
m'aveva detto che ci voleva parlar da sé...»
«Ma poi non v'avevo anche
detto?...»
«Sissignore, che se lo vedevo
l'avessi mandato da lei all'appalto, come di fatti alle dieci precise...»
«Non ce l'avete mandato!»
«Sissignore che ce l'ho mandato!
ma gli hanno detto che lei...»
«Avete ragione, sì, avete
ragione! Con tanti affari per la testa... Ma che ce n'avevo una stamani? Ci
avevo da veder Luc'Antonio... ci avevo... ci avevo da veder Luc'Antonio, eppoi
ci avevo... insomma ce n'avevo tante che questa m'è passata di mente. 'Gnamo,
'gnamo, finiamola con queste seccature! guardate se questo è il momento!...
Andate, andate, Fiore, e fate chetare quell'accidente di cane, se no vengo di
là e lo stronco. O a chi abbaia?»
«C'è il contadin novo...»
«Ah! ditegli che stia zitto anche
lui.»
La signora Flaminia stava zitta e
non alzava il capo dalla scodella.
«Andate, andate», disse poi
anch'essa a Fiore; «con Luc'Antonio ci ho parlato io. Ho mandato Cecco sulla
via maestra a aspettarlo, e l'ho fatto venir qui.» Poi cavandosi un foglio di
seno e mostrandolo al marito: «Tieni», disse; «il fattore delle monache t'ha
rimandato questa ricevuta perché tu ci faccia la data che ci manca».
Il sor Pasquale rimase sconfitto.
Guardò la moglie, guardò la ricevuta, adagio adagio rimise in tasca l'oriolo,
poi, con un movimento brusco, si rinsaccò nelle spalle, non sapendo come
giustificarsi, e ripeté a tutti che stessero zitti mentre nessuno fiatava.
L'ora solenne, intanto,
s'avvicinava a gran passi.
Il sor Pasquale, dopo aver
attaccato l'oriolo alla parete dello scrittoio, proprio di faccia alla sua
poltrona, l'aveva rimesso col suo da tasca già regolato scrupolosamente al
mezzogiorno di quello di Cutigliano, e fra due minuti doveva sonare le sei; fra
due minuti la sua famiglia avrebbe goduto della cara sorpresa, e la sua
vittoria contro gli eterni dubbi, contro il tormentoso malumore di sua moglie
sarebbe stata completa.
Voleva star fermo sulla sedia, e
non gli riusciva: avrebbe voluto mangiare e bere indifferentemente, e non
poteva: tantoché una volta si mise in bocca un tappo di sughero sbagliandolo
col pane; e un'altra, vuotò l'ampolla dell'aceto nel bicchiere di Cecchino,
credendo di mescergli il vermutte. Avrebbe voluto anche stare zitto, e questa
era la cosa più importante, ma anche quello non gli riuscì, e:
«Ragazzi, ci manca poco!», disse
non potendo più reggere! «Ci manca poco!» e dette un sogghigno e rimpiattò
furbescamente la testa fra le spalle e il petto, come uno spinoso al quale si tocchi
la groppa. «Ci manca poco!»
«A che? a che?», domandarono
tutti strillando, credendosi autorizzati da quella confidenza paterna a fare un
baccano del diavolo. «A che? a che?»
«A nulla!», rispose desolatamente
Pasquale mortificato da un sospiro della moglie, più sonoro di tutti gli altri.
«A nulla!», disse un'altra volta
il sor Pasquale; quando, cavato fuori l'oriolo sotto la tavola, sentì
rintuzzarsi il dolore che gli era costato quel sospiro, nel vedere che mancava
soltanto un mezzo minuto alle sei, e:
«Ora poi, zitti davvero!», disse
con voce tremante; buttò sotto la tavola un pezzo di lesso per chetare Toppa
che mugolava e con una mano alzata e guardando in estasi la sora Flaminia, che
mangiava distratta e più seria di prima, rimase ad aspettare.
Che tempesta di pensieri deve
aver attraversato la testa di lui in quel mezzo minuto! Cambiò due volte
colore, sorrise, aggrottò le ciglia spaurito come se guardasse in un
precipizio, gli occhi gli si inumidirono di tenerezza, poi tornò cupo un'altra
volta; tratteneva il respiro, ma il core gli si vedeva battere sotto il
corpetto di pelle d'agnello, quando ad un tratto mandò un urlo roco, i ragazzi
strillarono come anime dannate. Toppa cominciò ad abbaiare disperatamente, ma
fu subito chetato dagli scarponi del signor Pasquale, e il cuculo mandò a breve
intervallo tondo e sonoro, il suo secondo cuccù in mezzo al silenzio generale;
eppoi mandò il terzo, e il sor Pasquale arrantolò un «Ah!» di ruvida gioia
verso la moglie; e il cuculo, continuando, mandò il suo quarto lamento,
eppoi... rimase lì.
L'oriolo di cima scala, puntuale,
suonò in quel momento le sei.
La sora Flaminia guardò Pasquale,
e nel vederne tanto grottescamente stralunata la faccia, non si poté più
contenere e scoppiò in una larga risata che per un mezzo minuto almeno,
buttatasi indietro a braccia aperte sulla spalliera della seggiola, rimase con
la sua fresca bocca spalancata, ripigliando a stento respiro.
Il sor Pasquale era rimasto come
fulminato. I ragazzi avrebbero voluto fare allegria, ma un'occhiata della
madre, aiutata da un certo senso di paura che, a quel rumore nuovo che veniva
di su d'accanto alla camera dove era morto lo zio Nastasio, era entrato nelle
loro teste già riquadrate dalle novelle di quella vecchia che veniva prima a
fare il burro, bastò a tenerli al posto.
La sora Flaminia, intanto, dopo
aver cantato l'inno alla sua vittoria con quella omerica risata, si trovò a sua
volta sconfitta ad un tratto dal dolore del suo Pasquale, che cogli occhi
ammammolati guardava stupefatto ora i figli, ora la moglie, senza poter
pronunziar parola che accusasse il suo profondo turbamento.
Fiore interruppe quel silenzio
doloroso comparendo sulla porta a domandare a bassa voce, tutto spaurito:
«Hanno sentito nulla loro? O che
è stato».
«Fiore, accendetemi un lume»,
disse il sor Pasquale, facendo un movimento come per alzarsi: ma la sora
Flaminia lo prevenne, si alzò, e amorosamente gli disse: «Dove vuoi andare? sei
stracco; vado io». E preso un lume s'avviò allo scrittoio.
Passarono pochi momenti, alla
fine dei quali, avendo la signora Flaminia rimediato allo sbaglio che Pasquale
aveva commesso nella furia rimettendo l'oriolo, il cucùlo cantò allegramente le
sei.
Il sor Pasquale allora dette la
via a tutto il suo buonumore. Mangiò pochissimo, sorrise alla moglie, accarezzò
i figlioli, fece prendere una mezza indigestione a Cecchino che gli stava
accanto, empiendogli continuamente il piatto e il bicchiere; e lo stesso Toppa,
incalorito dagli ossi del lesso e dalle lische dei bròccioli che il sor Pasquale
gli dette e gli fece dare, insudiciò nella nottata anche il salotto bono, e
stette tutto il giorno dipoi nell'orto a mangiare il palèo che scaturiva di
sotto la neve.
Il contadin novo, che era venuto
per parlare di stime morte, fu fatto passare in salotto, e anche con lui il sor
Pasquale si sfogò quando poté. Lo chiamò sempre galantuomo, lo prese tre o
quattro volte per il ganascino, gli dette da bere, e poi gli parlò un po' di
tutto: di politica, d'orioli, di storia, di geografia e del lunario novo; gli disse
che le stelle eran mondi come il nostro, che dentro la terra c'è una fornace di
foco come in una carbonaia, e tante altre cose, con molto disordine, ma con
senno abbastanza; e soltanto perdeva la bussola quando il contadino gli entrava
nelle stime morte E allora, giù attraverso, mescolava stime morte e cucùli
vivi, e stime vive e cucùli morti, e durò finché i ragazzi, che avevan
cominciato a cascare addormentati per le seggiole e sulla tavola, non furono
uno dopo l'altro raccattati tutti, come feriti sul campo di battaglia, da Fiore
e dalla sora Flaminia, che li portarono a letto.
Allora il sor Pasquale si chetò;
licenziò il contadino, soffiò il lume della tavola, e, presa la sua lucernina,
s'avviò soddisfatto e rosso com'un pomodoro verso la sua camera, dove la sora
Flaminia l'aspettava per vedere se almeno fosse stato possibile cavargli di
sotto quanto l'aveva pagato.
Come son volati gli anni! e come
tutto è cambiato anche in quella famiglia di buoni campagnoli! Belli quei
giorni per il sor Pasquale! Che gioie sconfinate erano per lui quando dal suo
scrittoio, dove stava chiòtto chiòtto ad ascoltare, sentiva i contadini
aggruppati sul prato discorrere del suo oriolo d'autore e della somma favolosa
che doveva essergli costato e della impossibilità di trovare il compagno,
perché quello doveva esser venuto dicerto dall'Americhe di là dal mare. E che
risate di core, quando sentiva gli uomini far la baiata alle donne e ai bambini
che ad ogni canto del cucùlo correvano a rimpiattarsi dietro al faggio della
burraia tappandosi gli orecchi colle dita! Che carnevale fu quello per lui! Ma
quando lo vide per la prima volta il priore! O quando lo fece vedere al
cappellano che ebbe paura? O il sindaco che non ci voleva credere? Ma quel
prato, che cos'era quel prato le domeniche dopo le funzioni! Bisogna essercisi
ritrovati, via, se no, è inutile ragionarne.
Ed ora su quel prato un mucchio
di passerotti beccuzzano fra l'erba e si leticano tranquillamente, perché da
quella casa non parte nessun rumore che possa disturbarli.
Gli anni volano! Ne sono già
passati quindici da quella sera che fu tanto procellosa per l'animo del buon
Pasquale, e tutto è cambiato anche in quella casa di allegra e buona gente! I
due figli mezzani, Natale e Gosto, sono morti: Peppe è segretario in un lontano
comunello della Garfagnana, e non rimane in casa che Cecchino, ora giovinotto
di ventidue anni, destinato a continuare nell'amministrazione del piccolo
patrimonio.
E anche il povero Toppa non è
più! Morì di vecchiaia cinque anni sono, ed ora si riposa sotto al ciliegio
vìsciolo delle ghiacciaie, dove Fiore lo sotterrò pietosamente, pensando che
per due anni almeno lì non ci sarebbe stato bisogno di pecorino. Ogni cosa è
cambiata! Fiore è incanutito, la vecchia Gigia l'ebbe un barrocciaio di
Pracchia, e non se n'è saputo più nulla; la sora Flaminia ha perso quasi tutti
que' bei denti bianchi che metteva fuori fino agli ultimi quando rideva di core
e il sor Pasquale è su a letto malato: oggi sta un po' meglio, ma è malato
gravemente.
La sua forte costituzione, che
pareva dovesse condurlo senza difficoltà oltre la settantina, restò
profondamente scossa alla morte del primo figliolo, ma per allora il colpo più
forte lo risentì nel morale, poiché si fece malinconico e taciturno al punto
che solamente un giorno o due della settimana usciva di casa, standosene tutti
gli altri, tranne poche ore, ritirato nel suo scrittoio a leggere e a pensare.
Alla morte del secondo, poi, si ammalò. Passò fra letto e poltrona qualche
mese, e dopo non fu più lui.
Nella sua mente, insieme con gli
altri generi di turbamento, era entrata una specie di fissazione, per una di
quelle strane combinazioni che si crederebbero opera soprannaturale, se il caso
non ce ne fornisse esempi continui.
Fosse il tonfo di un uscio
sbatacchiato, fosse una dimenticanza di caricarlo o qualunque altra malaugurata
accidentalità, il fatto si è che il suo impareggiabile oriolo col cucùlo che,
sia detto fra parentesi, era riuscito una perla, in due anni si fermò due
volte, e quelle due volte erano state appunto alla morte del primo ed a quella
dell'altro figliolo.
«Quando si fermerà un'altra
volta, tocca a me!», diceva sospirando il povero sor Pasquale tutte le sere,
mentre lo caricava prima d'andarsene a letto. «Quest'altra volta tocca a me!» E
lo diceva con tanta convinzione che nessuno fu buono di levargli dal capo quel
pregiudizio che a poco a poco diventò una vera fissazione che finì di rovinare
affatto la sua indebolita salute.
La primavera era inoltrata, e
colle prime tepide brezze del maggio quella oppressione di respiro che lo
tormentava, si aggravò tanto, che il medico credé suo debito dire alla sora
Flaminia che pensasse a parlarne col parroco; e la sora Flaminia mandò un
sospiro e disse che l'avrebbe fatto. Ma la misura era presso a poco inutile,
perché il taciturno don Silvio, già da un paio di settimane, passava quasi
intere le giornate a capo del letto del suo vecchio amico, tenendogli
affettuosa compagnia quando quelli di casa dovevano allontanarsi per le loro
faccende.
«Ma che oriolo, don Silvio!»,
osservò un mattina Pasquale dopo che da diverse ore, oppresso dall'affanno, non
aveva aperto bocca. «Che oriolino è stato quello! Ha sentito le dieci? guardi a
cotesto costì della piletta.»
«Son le dieci precise», rispose
don Silvio.
«Ha capito?! Oggi finiscono venti
giorni che lo rimessi quando m'alzai e non ha fatto un minuto; ma quando si
fermerà...»
Don Silvio lo pregò di stare
zitto, e con una scusa si allontanò tutto contento in cerca della sora Flaminia
che era scesa a scaldargli una tazza di brodo, per dirle che Pasquale aveva
discorso tanto e che proprio stava veramente benino. E ritornò su dietro di lei
che, entrando in camera con la tazza, accennò subito sorridendo al marito che
non parlasse. Lo trovò infatti che stava un po' meglio; se non che un'ora dopo
Fiore correva ansante a chiamare il medico per il padrone che da un momento
all'altro aveva fatto un peggioramento da mettere in pensiero.
Quando entrò il medico, Pasquale
gli sorrise e gli disse: «Mi rincresce per lei, povero sor dottore, che l'hanno
fatto scomodare...». Eppoi, rivolgendosi alla moglie e a Cecchino: «Voi altri
badate che non resti scarico e non abbiate paura di nulla...». E rivoltosi di
nuovo al medico: «Che mi farebbe male quell'uscio e quella finestra aperta?».
«Anzi...», rispose il medico.
E Cecco e la sora Flaminia
corsero subito a spalancare ogni cosa, e alla folata di maestrale che inondò la
camera, Pasquale mandò un sospiro di contentezza e disse: «Ah! come mi fa
bene!».
I boscaioli cantavano nella
faggeta; il medico e il priore si misero alla finestra a contemplare silenziosi
l'orizzonte che di là si stendeva immenso sulla pianura lontana.
Dopo qualche momento, il priore,
sentendo sonare il mezzogiorno alla sua parrocchia, si ricordò del desinare, si
staccò dalla finestra andando verso Pasquale per congedarsi, e lo vide con gli
occhi fuori dell'orbita che, senza articolar parola, ma indicando di voler
parlare, stendeva un braccio tremante verso il suo oriolo da tasca appeso a
capo del letto.
Corsero là tutti, intesero,
staccarono l'oriolo dal muro e glielo mostrarono. Il sor Pasquale si alzò a
sedere sul letto, ci ficcò sopra gli occhi e cadde giù spossato balbettando:
«Anche l'ora di Pasquale è sonata... è sonata... è sonata!».
Erano le dodici e due minuti;
l'oriolo di cima scala le aveva sonate, e il cucùlo era rimasto in silenzio!
La sera dipoi, quando la campana
della parrocchia sonava alle forre della montagna l' Ave Maria della sera. il
sole mandò i suoi ultimi raggi a riflettersi sulle fronti aduste e madide di
sudore di un gruppo di boscaioli che, inginocchiati sui tronchi de' faggi
abbattuti, accanto alle loro scuri luccicanti, dicevano il primo De Profundis
all'anima benedetta del povero sor Pasquale.
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