Il benemerito signor canonico
Sinigaglia, capitato in paese per la solenne occasione, teneva quella sera la
presidenza dell'innocuo conciliabolo reazionario. Vestro aveva perfino fatto le
ballotte, ed aveva rifrustato con tanto calore la povera cantina da portar su
in bottega una mezza dozzina di bottiglie di vinsanto vecchio, colle quali tanto
si comunicarono i priori e i cappellani indigeni ed esotici del circondario, da
preparare più che comodamente il letto alla pappatoria della mattina seguente,
dovendosi festeggiare appunto il giorno dipoi, nella pievania, la festa del
titolare, il beato San Remigio martire.
La conversazione era stata briosa
fino dal principio, ma alla quinta bottiglia vi fu un momento di vero
entusiasmo a beneficio dell'illustrissimo signor Canonico. Ribevvero tutti alla
sua preziosa salute, parlarono della santa causa, lessero, fra le acclamazioni,
un articolo furibondo della Stella Cattolica , mangiarono un libero pensatore
per uno ed empirono il pavimento di gusci di ballotte biasciate.
Vestro schizzava dalla
contentezza trovandosi in mezzo ad un elemento così omogeneo ai suoi principii
ultracattolici, e si fece diventare il naso gonfio e rosso come un peperone
dalle gran prese di tabacco offertegli dal signor Canonico; regalo che non
volle mai rifiutare, quantunque non prendesse tabacco, per non disgustare
l'eminente personaggio che quella sera erasi degnato di onorare la sua povera
merceria.
E il Canonico gonfiava come un
tacchino, rosso scarlatto e tutto sudato per la commozione di vedersi fatto
segno d'un rispetto e d'una ammirazione, dalla quale i suoi colleghi del Capitolo
l'avevan divezzato già da un bel pezzo, «Birbanti!», diceva tra sé il povero
Canonico, ripensando alle sue amarezze, «birbanti!», e stringeva forte la mano
e si voltava sorridendo malinconicamente a Vestro, che, guardandolo estatico,
prendeva per emanazione del cielo le zaffate composte che gli dava nel naso il
buon reverendo, il quale non finiva mai di lodare a gloria il trattamento tanto
più gradito, quanto più semplice e spontaneo offertogli dal popolano esemplare.
Vestro sorrise tutta la sera imbambolato,
tacque e sospirò come l'innamorato novizio accanto alla bella, e fece sentire
per la prima volta la sua voce quando mostrò il suo merlo, tanto bravo, al
signor Canonico; il quale, dopo averlo esaminato con severa attenzione, si
compiacque assicurare l'uditorio che era maschio. E:
«Ditemi, Silvestro; in che
consisterebbe la bravura di questo animale?».
I priori e i cappellani esotici
ed indigeni dettero, a quella domanda, in una gran risata, per la quale la
dignità del Canonico restò alquanto offesa. Ma il Piovano che se ne avvide, gli
si accostò e sotto voce gli dette la spiegazione di quella risata, che fu
seguita subito da un'altra grossissima, alla quale anche il signor Canonico si
compiacque di prender parte battendo con una mano sulla zucca bernoccoluta di
Vestro, come per dire «Ah! gran cervello bizzarro c'è qui dentro! Che matto,
che matto!».
«Eppoi, sa? lustrissimo; il bello
si è che c'è quel calzolaro là difaccia... lo chiamano Ciuciante di
soprannome... è un liberale lui!.. che quando lo sente piglia certi cappelli!
perché dice che l'ho ammaestrato apposta per fargli dispetto. Ma che crede che
ci si faccia poche risate?... Eh Cappellano?»
«Ma ci s'è ammattito tanto a
ammaestrarlo!», osservò il Cappellano; «quante mattine ci s'è perso di là in
corte a fischiare perché imparasse...»
E tirato il Canonico in un
cantuccio, gli raccontò come Vestro e lui avevano davvero ammaestrato il merlo
a dire a quella maniera, perché «Deve sapere che quel vile ci ha il su'
figliolo più piccolo, al quale specialmente quando passa qualche sacerdote,
domanda: «Palestro», senta che nome! «Palestro chi ci stà lassù?»,
accennandogli il cielo. E il su' figliolo, una creatura di tre anni, signor
Canonico! gli risponde... gli risponde a quella maniera».
Il Canonico fece un atto
d'orrore, al quale corrisposero gli altri preti dando un'occhiata in cagnesco
alla bottega di Ciuciante, il quale era dentro a lavorare, e la cui ombra, come
un'apparizione infernale, si disegnava mobile e nera in grotteschi
atteggiamenti sui cristalli appannati della vetrata.
«E sa con che cosa, lustrissimo»,
riprese Vestro; «con le mosche! Me le porta Stefano droghiere, che le piglia a
manate sotto 'l velo de' pasticcini. Guardi che fogliata me n'ha portata
dianzi!»
Ne dette una al merlo che venne a
prendergliela in mano, e dopo una strizzatina d'occhi al Cappellano:
«Ma che gli si deve far sentire
davvero, Cappellano, al signor Canonico?».
«Per me, fate come volete,
Vestro; ma ricordatevi che son du' giorni che quel birbone è dimolto nero
perché ci ha 'l su' ragazzo a letto, malato. Badate che non gli salti il
ticchio di farvi qualche bravata.»
Ma Vestro, un po' pel vinsanto
che aveva in corpo e un po' perché si credeva inviolabile sotto la protezione
del signor Canonico:
«Si starà a vedere», disse, «se
quel mangiacristiani m'ammazzerà. Stasera s'ha a stare allegri».
E così dicendo prese la gabbia e,
dopo averla attaccata fuori a un chiodo di fianco alla porta, rientrò in
bottega ad aspettare il canto del merlo.
Ai preti garbò poco quella
faccenda, perché, sia detto qui fra noi, avevano una paura maledetta di quel
birbone, e furono contentissimi di sentire che il merlo non apriva bocca. Ma
Vestro non la intendeva così, e:
«Ora, ora sentiranno!», disse.
Prese il foglio delle mosche, lo svolse e sporgendo un braccio fuori
dell'uscio, lo fece vedere al merlo, il quale, volteggiando rapido per la
gabbia, fischiò subito, forte forte... a quella maniera.
Nell'istante si sentì aprire e
richiudere bruscamente la vetrata di Ciuciante, e nello stesso tempo una gran
botta nel muro e un sinistro sgretolìo di stecchi, come se la gabbia fosse
andata in bricioli.
«Me l'ha ammazzato,
quell'infame!», ruggì Vestro disperatamente. Corse fuori e rientrò in bottega
bianco come un panno lavato, tenendo in mano la gabbia sfondata dentro alla
quale, in luogo del merlo, stava immobile e grave una forma da scarpe quasi più
grande del vero.
Vestro rimase qualche momento con
la gabbia in mano a guardare tutti con occhi stravolti, dicendo con voce di
spasimo lenta e soffocata:
«Quell'infame, cosa m'ha
fatto!... Cosa m'ha fatto quell'infame!...».
I preti, inchiodati sui loro
panchetti dalla paura, non aprivano bocca.
Improvvisamente Vestro fu preso
come da una ispirazione divina: agguantò un lume e corse a guardare per terra
sotto al chiodo della gabbia... «Nulla! È volato!... Infame!» Chiuse la forma
dentro una cassetta, si ficcò il cappello, e: «Signori mi scusino... Signor
Canonico, mi compatisca... bisogna che chiuda. E lei, signor Piovano, se mai
domani quella bestia capitasse alla su' uccelliera... mi raccomando a lei
signorìa... Riconoscere lo deve riconoscere di certo anche lei dall'ugnòlo che
gli manca, se ne ricorda? qui alla zampa sinistra... ma per carità...».
«Non dubitate, Vestro: ma ricordatevi
che domattina presto abbiamo bisogno di voi.»
«Non mancherò, non dubiti. Felice
notte, signorìa.»
«Felice notte.»
«Buon riposo.»
«Buona notte, Silvestro.»
«Signor Canonico, buon riposo.»
«Buona notte.»
I preti sfilarono chiòtti chiòtti
al buio rasente al muro, e Vestro corse a dare le intese a tutti i tenditori
del vicinato.
Ciuciante, battendo il tempo col
martello sopra un tomaio, cantava a gargàna spiegata la vecchia aria:
Né lingua né becco, né gola non ha...
Povero merlo! come farà a canta'?
«Nulla, Filandro stamattina?»,
domandava il Piovano entrando groppon gropponi nel capanno dell'uccelliera.
«Non si vede nulla, signor
padrone. Du' stipaiole uniche, e c'è un merlo impaniato che andavo a pigliarlo
ora.»
«Giurammio baccaccio! o dunque come
si rimedia?»
«Che cosa?»
«Si resta corti coll'arrosto!»
«Che vòl che gli dica?
gliel'allunghi con un po' di maiale.»
«L'ho bell'e fatto prendere, che
tu sia benedetto! Ma se non gli do almeno un par di tordi e se' uccellini a
testa a que' ventri di lupo, son capaci d'andar a dire che non si son levati la
fame.»
«Mah! faccia lei, signorìa.»
«Va' a pigliare il merlo,
lesto...»
«Signor padrone!»
«Che c'è?»
«Eppure mi pare... Dio
onnipotente! ma dica, le combinazioni!... guardi quest'ugnòlo! eppoi è quasi
agevole! Figuriamoci la contentezza di Vestro quando gli dirò...»
«Dàmmi qua.»
«Tenga: ma badi... O che lo
schiaccia? No!.. ecco o perché?... lei signorìa fa celia, eh... Dio signore,
non s'è stato sugo!»
Il merlo, buttato in un cantuccio
del capanno, fece un par di capriole sbatacchiando le ali, aprì la coda a
ventaglio, la tòrse lentamente di qua e di là, tremò, spalancò il becco, lo
richiuse e s'allungò stecchito accanto alle due stipaiole.
Vestro ha già sonato cinque volte
la campana grossa, perché Filandro è alla tesa; ha già servito quattro messe e
ora serve la quinta. Ma si vede chiaro che quell'uomo oggi ha qualche cosa per
la testa, perché non la serve bene come gli altri giorni. Ha sbagliato un par
di volte, e dianzi ha fatto degli ammicchi a Perzillo, il tenditore del
Palazzi, che era laggiù in fondo dalla piletta. Ora fa lo stesso garbo al
Tentoni. E il Tentoni? Ha scosso il capo come per dirgli di no.
Ma!.. chi ne capisce nulla?
«Giurammio baccaccio! o quante
volte le devo dire io le cose? T'ho detto che te e Filandro dovete servire a
tavola, e lo Scopetani non deve uscire di cucina! L'hai capita, sì o no?»
«Sì, signore: l'ho capita. Ma
come fa quell'omo solo a bastare a tutto?»
«Non c'è nessuno che gli possa
dare una mano?»
«Si deve dire a Vestro?»
«Dillo anche al diavolo, ma
spicciati. La minestra è cotta?»
«Fra cinque minuti li mando a
tavola.»
«Dunque via!»
Questo dialogo accadeva in
sagrestia fra la serva e il Piovano, il quale, insieme col Canonico e con altri
due preti spiccioli si spogliava, finita la messa cantata.
« Prosit , signor Piovano.»
«Grazie.»
«Signor Piovano, signori, prosit!
»
«Grazie.»
«Grazie.»
I contadini benaffetti uscivano
di chiesa passando attraverso alla sagrestia dalla porticina della canonica,
dalla quale, ogni volta che l'aprivano, sbucava una nuvolata di fumo di fritto
a mescolarsi con quello dell'incenso; e tra la nebbia grassa si vedeva Vestro
accerito com'un gambero, con un gran grembiulone bianco, un tegamino d'olio e
una penna di falco in mano che, mogio mogio, ungeva l'arrosto. Teneva fissi gli
occhi allo spiede, e i suoi pensieri intanto giravano anch'essi lenti e
malinconici, quando gli parve... «Ah! che imbecille che sono!..» il girarrosto
andava, e le zampe degli uccelli si voltarono tremolando e sfrigolando dalla
parte del fuoco. Ma ricomparvero presto nere e intirizzite a turbare l'animo
del povero Vestro il quale... «Signore Dio», disse, «tenetemi le vostre sante
mani in capo, se no mi rovino!» Détte una lunga fregata con la penna e si
abbassò col viso per osservar meglio... Ma il girarrosto andava, e i buzzi dei
frolli s'erano già tolti alla sua vista, seminando unto e budella sui tizzi che
fiammeggiavano fumanti. Passarono i petti, passarono i capi, passarono le
groppe gialle, ripassarono i - tac - il girarrosto si fermò.
Filandro che in quel momento
rientrava in cucina carico di scodelle vuote, quando vide il girarrosto fermo e
Vestro che non alitava, con tanto d'occhi fuori, abbassato sullo spiede:
«È mi garba davvero cotesto lavoro!»,
disse a Vestro. «Ricaricatelo, e subito, se no vi brucia tutto da una parte.»
Vestro per tutta risposta, gli si
avventò al collo come una pantera, e:
«Chi m'ha ammazzato il merlo?».
«Ah... ahi!»
«Chi me l'ha ammazzato? Dillo,
dillo, dillo: se no ti strozzo, per la dannazione dell'anima mia!»
«Io no permio... ahi!»
«Dunque chi?»
«Il signor Piovano: ma io... No,
no, Vestro no, permio, lo sciupate! Ma che siete impazzato? Smettete, via,
troncherete ogni cosa... E ora?... Uh! pover'a noi! pover'a noi! pover'a noi!»
Era passata una ventina di minuti
dopo lo zampone, e l'arrosto non veniva in tavola. I commensali tutti, compreso
il benemerito signor Canonico, cominciavano a impensierirsi seriamente per quel
famoso cantuccino dello stomaco lasciato appositamente per il tordo. Per
fortuna a divagarli fu intavolata in tempo una disputa animatissima sulla non
ancora ben definita questione: «Se le anime dei dannati, intervenendo nella
valle di Giosafat, continueranno a soffrire ossivvero avranno, come opinano i
più, una breve tregua ai loro tormenti durante il supremo giudizio», nella
quale il canonico Sinigaglia, mi dicono, disse delle cose bellissime... ma
l'arrosto non veniva.
Il Piovano non era soltanto impaziente
pel ritardo, ma siccome gli era parso d'aver sentito poco avanti un certo
fracasso in cucina...
«Ma insomma, dico io, che siete
cascati morti tutti di costà?», gridò finalmente, picchiando a mano aperta una
gran botta sulla tavola.
«Giurammio baccaccio! ora passa
la parte!»
Filandro si affacciò tutto
arruffato e spaurito a far cenno al Piovano che andasse di là.
«Con permesso...»
«Faccia, faccia pure.»
E andò di là sbuffando e
reggendosi le brache sbottonate che non gli vollero arrivare, quantunque dopo
la lombata cogli spinaci avesse ammollato le serre fino all'ultimo punto.
Chi capitasse oggi nella merceria
di Vestro troverebbe parecchi cambiamenti, come ne troverebbe anche nell'indole
e nelle abitudini del cattolico merciaio.
Sulla mensola di legno che
sosteneva il tabernacolo dell'Immacolata Concezione c'è ora un busto di
Garibaldi, di gesso colorato; e i due mazzi di fiori secchi, uno di qua e uno
di là, sono sostituiti da due bandierine rosse ritagliate dal baldacchino del
tabernacolo.
La vecchia stampa dell'Arcangelo
San Michele che aveva in mano quello spadone lungo lungo di lingue di fuoco, ha
ceduto il posto a una cattiva litografia di Ugo Bassi, anche quella colorata; e
il palmizio della mostra e le quattro rappe d'olivo benedetto che erano sulla
vetrata, allo scaffale de' bottoni, a quello di faccia e sull'uscio che mette
nell'interno della casa, sono sparite. Del ritratto di Leone XIII non se n'è
saputo più nulla.
Quando le campane della Pieve
suonano a messa, quando passa la comunione, se una folata di vento porta fino
alle sue orecchie il suono dell'organo o le voci dei già suoi fratelli della
compagnia che cantano a coro, la faccia di Vestro si turba e la sua bocca si
atteggia ad un sorriso beffardo e quasi feroce, il quale, qualche volta, a poco
a poco si cangia prendendo un'espressione dolorosa di profonda malinconia.
Ciuciante, con tre o quattro
amici suoi, viene a veglia da Vestro quando Vestro non va da lui. Stanno
allegri che è un gusto, e per il 20 settembre hanno fissato una cena e un gran
bandierone da mettersi fuori la mattina.
Il Cappellano è un pezzo che non
si vede, ed anche il Piovano ha dovuto finalmente proibirsi di passare davanti
alla merceria, perché due volte che s'è provato a farlo gli è costato una
spietata amarezza all'anima il vedere Vestro che correva subito a prendere
sulle ginocchia il figliolo minore di quel birbone, e gli domandava ad alta
voce, perché lo sentisse: «Su, su, Palestro, diglielo a Tato: chi ci sta
lassù?». E il figliolo di Ciuciante, una creaturina di tre anni... Basta: Dio
gliela perdoni, perché questa è grossa davvero!
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