Il primo sole del novembre si
affaccia malinconico alle ultime cime della montagna, già biancheggianti per la
neve caduta di fresco e, mandando i suoi languidi raggi attraverso ai rami
brulli dei castagneti, tinge di rosa la croce di ferro del campanile e l'asta
della bandiera fitta sulla vecchia torre del castello.
Qualche nuvola bianca sta fissa
sui monti più lontani, uno strato bigio di nebbia allaga la pianura, e il
villaggio dorme ancora sotto un freddo e splendido sereno d'autunno.
I cacciatori sono già tutti
partiti, dopo che Doro ha sonato la campana dell'alba; vi è stato allora un
breve segno di vita, qualche latrato, qualche fischio, qualche colpo alle porte
per destare i compagni addormentati, eppoi deserto e silenzio turbato soltanto
ad intervalli dal fruscìo delle foglie secche dei platani della piazzetta, che
bisbigliano lievi lievi, menate in giro sul lastrico da radi sbuffi di
tramontana.
Ma stamani l'aspetto della
piazzetta non è quello degli altri giorni. Quintilio, per il solito, a
quell'ora aveva già aperto e spazzato la bottega; Graziano era già comparso in
maniche di camicia ad attaccar fuori dell'uscio il solito coscio di vitella al
solito gancio, e il barbiere, che viene tutte le mattine a lavarsi il viso in
mezzo di strada, aveva già mandato du' altri accidenti al cane della signora
Giuseppa, che appena aprono va abitualmente a pisciargli sull'uscio. Le altre
mattine a quell'ora tutti i «buon giorno» erano stati scambiati, i prognostici
sul tempo erano stati fatti, e ciascuno aveva già ripreso le sue stracche
occupazioni fumando, bestemmiando e dicendo male del prossimo fra uno sbadiglio
e l'altro.
Ma stamani è silenzio. Dormono
sempre per rimettere il sonno perduto, perché dalla mezzanotte, quando sono
stati destati da quel casa del diavolo, nessuno fino alle tre ha potuto più
chiudere occhio.
Ecco come sta la faccenda. Da
varî giorni v'erano state delle cose brutte e che minacciavano di farsi anche
peggiori, fra Pierone e Cecco del Birindi. Ma ieri, che era domenica, ci entrò
finalmente di mezzo il Priore, e le cose furono appianate con soddisfazione di
tutti. Pierone dette parola a Cecco che ormai, avendo tirato su basso e dovendo
andar via chi sa per quanto tempo, alla ragazza non ci avrebbe più pensato, e
gli promise che lui non avrebbe più messo difficoltà. Cecco lo voleva
abbracciare, ma Pierone si tirò indietro e non ne volle sapere, dicendo che
quelle eran ragazzate. Soltanto accettò di trovarsi la sera a cena all'osteria
di Giannaccio per bere il bicchiere dell'addio e per fare du' salti di
trescone, se fossero venuti anche que' giovanotti di Vallicella con la chitarra
e l'organino.
Alle tre famiglie interessate
nella faccenda parve di sognare e fu per loro una giornata di vera baldoria.
Polli e vino a cascare, e un viavai continuo d'amici e di conoscenti a
rallegrarsi e a bere, nel tempo che le donne erano tutte sottosopra in cucina a
friggere di gran padellate di frittelle di riso, che appena portate di là in
larghi vassoi ricolmi sparivano prima d'aver finito il giro della comitiva. La
mamma di Chiarastella stette tutto il giorno a ridere, a levar l'olio a'
fiaschi e a piangere di consolazione. I vecchi babbi poi non si lasciarono mai
un momento; e anche al vespro, dove andarono a braccetto, tutti e tre avvinati
che era un desìo a vederli, si misero accanto a berciare come calandre, per
mostrare a San Vitale martire, protettore della cura, la loro riconoscenza per
la grazia ricevuta.
Fu insomma un'allegrezza
generale, non tanto per veder felice e contento il povero Cecco e quella bona
figliola della su' ragazza, quanto per sapere che presto, se Dio vòle, si
levava di torno, e per un pezzo, quell'altro birbaccione, che anche giovedì
passato tirò una pedata, pezzo di figuro, al su' vecchio, perché quel
pover'uomo s'era azzardato a dirgli che mettesse giudizio!
«Basta. Anche questa è fatta»,
diceva il Priore compiacendosene, «e, per grazia di Dio, non ci si pensa più.»
Que' giovanotti di Vallicella,
che avevan risaputo l'affare, non mancarono di comparire verso l'un'ora coi
loro arnesi musicali; anzi l'orchestra era più numerosa del solito, perché per
la strada avevan raccattato due altri compagni, uno con lo scacciapensieri e
l'altro col treppiede, che lo sonava che pareva impossibile.
Andarono a prender Cecco a casa,
e sonando allegramente attraversarono spavaldi il paese, con gran sigaroni
accesi e cappelli sbertucciati, per andarsene all'osteria di Giannaccio, dove
trovarono anche Pierone che in compagnia di altri amici stava sull'uscio ad
aspettarli.
Fu lieto l'incontro delle due
comitive: abbracci, evviva, strette di mano cordialissime, e poi tutti a
tavola, dove Giannaccio aveva già preparato un catino di vermicelli al sugo e
un diluvio di braciole di maiale in gratella, che furono spolverate in un
baleno dalla chiassosa brigata. Finita la cena, comparvero le figliole di
Giannaccio per salutare la conversazione; alcuni della comitiva andarono a far
ragazze nelle case vicine; le tavole furono tutte portate in corte, meno quella
sulla quale montarono i sonatori, e cominciò la festa.
Il vino lavorava; ma lavorava
bene, perché tutti erano sempre nel periodo della tenerezza; e giù, baci a iosa
e strizzoni e carezze e pizzicotti e risate da strapparsi la pancia. E la festa
non era soltanto dentro, perché con l'uscio di strada aperto s'era formato lì
davanti un capannello di gente del vicinato e di contadini, sulle cui facce
estatiche, illuminate dalle tre candele di sego che Giannaccio aveva attaccato
con de' chiodi alle pareti, si rifletteva in boccacce, contorsioni e
smanacciate il movimento della stanza. Ed anche per loro erano risate da
crepare tutte le volte che una coppia delle più sfrenate, presa dal capogiro,
andava giù a rotoloni menando altre coppie nella rovina a fare un monte di
vestiti e di ciccia sudata fra le gore del vino versato e gli ossi delle
braciole seminati per la stanza.
Da un paio d'ore si deliziavano
in quel baccano, quando una voce propose d'andare a far la serenata sotto le
finestre di Chiarastella. La proposta fu accolta con urli di acclamazione, i
sonatori saltaron giù dalla tavola, e via, con un lume di luna magnifico, a
casa della ragazza.
Pierone, quando fu alla svoltata
che menava a casa sua, voleva andarsene, ma i compagni lo costrinsero a
seguirli. Cecco che era stato tanto allegro alla veglia, per la strada si
cambiò a un tratto, non fece più una parola e andò avanti solo, col cappello
sugli occhi e mordendosi i baffi distratto. Forse in quel momento ciascuno si
pentì dell'idea della serenata, perché il silenzio si fece generale, ma nessuno
ebbe il coraggio di proporre di tornarsene indietro. Sarà quel che sarà.
Chiarastella dopo le commozioni
della giornata, stanca era andata a letto prestissimo, e quando giunsero i
sonatori sotto la finestra della sua camera, dormiva. E forse sognava la sua
felicità allorché fu dolcemente svegliata dal suono degli strumenti. Si mise in
orecchi, ascoltò tremando la musica gradita, finché, cessati i primi accordi,
sentì bisbigliare e riconobbe la voce di alcuni della comitiva che si davano la
parola per improvvisare ottave o rispetti e per trovarsi d'accordo col
passagallo. Si alzò allora sopra un gomito e stette più attenta ad ascoltare.
«L'ottava.» «Lo stornello.» «Il
rispetto.» «Sì, sì, il rispetto.» «Lo canti te?» «No, non sono in vena.»
«Allora, te!» «No, no!» «Sì, sì, lui, lo canta lui!»
Vi fu una breve disputa, e
finalmente toccò a Cecco a cantare. Rimase qualche momento col capo basso a
pensare, alzò dopo gli occhi al vaso di geranio che era sulla finestra della
sua ragazza, e con voce da prima tremante ma poi sicura, cantò:
Sulla finestra tua c'è nato un fiore.
C'è nato un fior che non si cambia mai...
E i sonatori dettero nel
passagallo.
Verde la foglia speranza d'amore
E quando nacque, bella, tu lo sai...
Qui di nuovo il passagallo: ma
Cecco l'interruppe e andò in fondo ispirato:
E quando nacque lo sapesti, o bella,
C'innamorammo al lume d'una stella;
E quando morirà, speranza cara,
La croce avanti e noi dentr'alla bara.
Gli applausi furono pochi e
stanchi, perché se il rispetto era molto piaciuto, altrettanto aveva
rattristato gli amici. E già uno de' più accorti si preparava ad interrompere
con un allegro stornello il tono troppo malinconico che aveva preso la
serenata, quando la finestra fece spiraglio all'improvviso e comparve una mano
bianca che strappata una foglia di geranio, la tirò sul gruppo dei giovanotti e
disparve.
Tutte le braccia si stesero verso
la foglia che calava lenta girando per l'aria; ma, nella confusione, nessuno fu
buono d'afferrarla. Allora accadde una specie di zuffa e si buttarono tutti,
fra manate e spintoni, a cercare la foglia che era caduta per terra. Pierone
ebbe la sorte di trovarla. Cecco, che se n'avvide, diventato pallido, come la
morte, tentò di strappargliela: ma non bastandogli la forza, si avventò carponi
fra i piedi de' compagni a mordergli a sangue la mano. La foglia l'ebbe Cecco,
ma in quel momento balenò sinistro il lampo d'un coltello.
«Ah! cane vigliacco! Chi è stato
l'assassino che ha tirato fòri il coltello?!»
«Nessuno!», gridò subito Cecco.
«Era l'anello, era l'anello!» E alzò nell'aria la destra, nel cui indice
luccicava un largo anello d'argento.
Pierone rimise in tasca il
coltello e si allontanò succhiandosi il sangue al morso della mano.
La serenata non andò più avanti.
I sonatori tiraron diritto per Vallicella, e gli altri tornarono verso il
paese, affrettando il passo senza scambiare una parola. Alla svoltata che
menava alla casa di Cecco si fermarono un momento per i saluti, e da qualcuno
fu detto d'accompagnarlo, ma Cecco non volle e lì si lasciarono.
Appena solo, gli rincrebbe d'aver
voluto fare troppo il bravo rifiutando la compagnia degli amici, e se n'andò
innanzi adagio e circospetto, tenendosi in mezzo alla strada e guardandosi ora
alle spalle e ora spingendo avanti lo sguardo fra le siepi e giù per la
campagna lungo i filari degli olmi.
«Nessuno! meglio per me; meglio
per tutti!»
L'orologio della torre sonò i tre
quarti dell'undici, e Cecco, ormai rassicurato, si fermò a guardare e a
rimettere il suo; poi tirò fuori la pipa, ci trinciò una spuntatura, e:
«Corpo di Dio! ci siamo!».
Fece qualche passo avanti per
accertarsi meglio:
«Non c'è dubbio!».
Si fece animo sbacchiando in terra
la pipa, e con voce abbastanza ferma:
«Chi c'è costà?», gridò. «Fòri,
fòri dall'ombra.»
Nessuna risposta; ma una figura
d'uomo si staccò di dietro un albero e venne a piantarsi in mezzo alla strada a
gambe larghe e con le braccia incrociate sul petto.
«Non mi far del male, Pierone;
t'ho conosciuto; hai famiglia anche te, non ci facciamo del male!»
E Pierone zitto e immobile.
«Non ci roviniamo, Pierone;
pensaci; non mi ci mettere, fammi la carità, non mi ci mettere al cimento.
Pierone; le braccia l'ho anch'io, e le tasche non l'ho vòte.»
Così dicendo, Cecco era andato
sempre avanti nella fiducia di poter placare il suo nemico; ma quando gli fu a
una diecina di passi, Pierone gli si avventò com'una bestia, menando coltellate
a morte.
Cecco sopraffatto cominciò a dare
indietro tenendoselo distante con pedate negli stinchi e colpi nello stomaco;
ma non c'era riparo, e ad ogni scarica si sentiva toccato come dal fuoco, ora
nelle mani, ora nelle braccia, dove il coltello di quel furibondo lo poteva
arrivare.
L'orrore del pericolo dette a
Cecco il sangue freddo. Stette un istante con l'occhio alla lama, prese il
tempo e si avventò con le due mani al polso di Pierone, che se lo sentì serrato
come in una morsa. Con la rapidità del gatto, Pierone corse con la sinistra al
coltello per continuare a dare con quella; ma se la sentì abboccata da Cecco
che in quello stato d'orgasmo disperato gli affondava i denti nella carne fino
all'osso. Pierone si piegò su di lui e gli addentò l'orecchio.
Questi movimenti si successero
con la rapidità del baleno e i contendenti rimasero li zitti a contorcersi
soffiando e mugolando come bufali al laccio. Erano per cadere spossati, quando
Cecco lasciò andare improvvisamente la presa. Pierone fece altrettanto per
avventurarsi di nuovo; ma Cecco, agile come un tigrotto, gli scivolò via e si
dette a correre verso il villaggio. Pierone lo raggiunse alle prime case e gli
si avventò più furibondo che mai.
Cecco, difendendosi alla peggio e
rinculando sempre dentro al caseggiato, incominciò allora a gridare aiuto con
quella voce squarciata che ti dice tutto e ti ficca il gelo nell'anima e subito
si vide qua e là comparir luce alle finestre, e poi lumi che correvano incerti
per le stanze, e ombre umane che si allungavano fantastiche sulle case di
faccia; ma nessuno ancora usciva nella via e la lotta continuava feroce tra gli
urli fuochi di Cecco e quelli delle donne che spenzolate alle finestre
gridavano: «Assassini! correte! s'ammazzano! s'ammazzano!».
A un tratto s'udì un «Aah» di
rabbia disperata; uno dei contendenti cadde e l'altro si dette alla fuga fra le
imprecazioni degli uomini che incominciarono allora a sbucare mezzi nudi dalle
porte, armati di schioppi e di vanghe. Ma troppo tardi, perché Graziano
macellaro, che fu il primo a correre gridando e scotendo all'aria la mannaia
delle vitelle, quasi inciampò nel corpo di Pierone, che disteso attraverso alla
strada mandava l'ultimo fiato.
Nessuno è comparso ancora sulla
piazzetta. Su all'alto, dopo la levata del sole, s'è messo a nevicare, il vento
è rinfrescato, e giù pei poggi si rincorrono le ombre delle nuvole ad investire
il villaggio che ora brilla al sole e ora rimane bigio nella penombra,
prendendo un'aria di freddo e di tristezza, che s'intona perfettamente coll'aspetto
della piazzetta in fondo alla quale un cane della campagna passa arruffato dal
vento e fiuta sospettoso il terreno.
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