All'ordine del giorno c'erano
anche queste tre proposte: «Una gratificazione di cinquanta lire al medico pel
servizio straordinario prestato al tempo del colera; un sussidio di latte a
Ferdinando degl'Innocenti barrocciaio; e la consueta elargizione di cento lire
alla compagnia di Santo Stefano per i fuochi d'artifizio nella ricorrenza della
festa triennale del santo patrono». La compagnia di Santo Stefano ebbe la
consueta elargizione, ma il medico e Nando barrocciaio dovettero per questa
volta grattarsi il capo e stare zitti.
Questa decisione del Consiglio
comunale pare che a qualcuno piacesse poco; ma, come di solito accade, il
giorno dopo non se ne parlò più. Chi aveva della bile, se l'era già ingozzata;
chi aveva delle ragioni, s'era sfogato a dirle, e i più ormai guardavano quasi
in cagnesco il dottore che aveva dato di canaglia a tutti, e Nando, che dalla
finestra, mentre uscivano di Palazzo i consiglieri, s'era lasciato scappare di
bocca che, tanto, doveva andare a finire in legnate. E tutti facevano eco al
signor Girolamo sindaco, un già mercante d'olio arricchito, ma sempre mercante
più di quand'era mercante d'olio, il quale, senza mai parlare direttamente del
medico, calcava molto la parola co-le-ra , accennava a
dubbi gravi su un certo medicamento, che era stato dato a tutti quelli che
morirono, e inveiva furibondo contro i ciarlatani. Di Nando diceva che tutti i
poveri non li fa il Signore, che ci doveva pensare per tempo e non mettere al
modo quella conigliolaia di mangiapani. Questo lo diceva qua e là fra gli
amici; in Consiglio aveva dimostrato con cifre eloquenti che il Comune non
poteva assolutamente fare spese straordinarie, e sostenne che sarebbe stata una
vera barbarie levare anche un centesimo per uno di tasca ai contribuenti ormai
aggravati, povera gente, in un modo intollerabile.
Quest'ultima osservazione fu
trovata giudiziosissima, e non ci furono altro che i soliti quattro o sei
birbaccioni che seguitarono a brontolare. Il medico incominciò da quel giorno a
guardare nello Sperimentale se c'eran punte condotte vacanti, e Nando fissò con
un contadino un mezzo latte da scontarsi alla fine di marzo in tante vetture di
concio, se la creatura fosse campata.
Così fu sistemata ogni cosa, e la
mattina dipoi non si pensava ad altro che ad affrettare col desiderio il giorno
della festa, impensieriti che quella stagionaccia, se durava, l'avesse a
sciupare. Ed era, davvero, un freddo da crepare. Per la strada non c'era anima
viva, e tutti se ne stavano rintanati per le case e per le botteghe ad
aspettare che passasse quello strizzone di ghiacci, perché proprio un freddo
come quello, anche a detta de' più vecchi, sarà stato trent'anni che non s'era
fatto sentire.
La solita vita d'uggia pareva già
ricominciata stabilmente, quand'ecco che in fondo alla strada comparisce,
glorioso e trionfante, questo famoso terzetto: un uomo, una donna e un
giovanotto, che arrivavano a passo di carica non si sa di dove. Lui (si seppe
dopo che si chiamava il signor Fabio), lui a destra, secco allampanato, a testa
ritta, col cappello di paglia, con una valigetta di pelle scrostata in mano,
vestito da capo a piedi di tela chiara che gli sventolava da tutte le parti,
pareva Zeffiro in persona che tornasse dalle bagnature. A sinistra, il suo
figliolo Clementino, lungo anche lui come una pertica, anche lui mezzo nudo,
verde nel viso, con le spalle in capo e gli occhi incavati e lividi, pareva il
gran Turiferario dei sacerdoti d'Honan. Nel mezzo, la signora Matilde, grassa,
chionza, viscida come una pentola di sugna, la quale con un tronchetto alla
polacca, sfondato, nel piede destro, e nell'altro una ciabatta, veniva avanti
ponzando dietro alle gambacce di quegli omini, rinfagottata in uno scialle in
brandelli, di sotto al quale sbucava, fino alle calze gialle, una sottana
strapanata, piena di pillacchere secche. Pareva un trionfo di cenci da lumi.
Che voglia di ridere e che
ribrezzo squallido metteva addosso la vista di que' tre disperati! Eppure erano
allegri! Eppure, dai loro modi disinvolti pareva, in verità, che volessero
proteggere qualcuno e che de' caldi a quella maniera ne fosser venuti di rado
anche nell'agosto. Arrivati in piazza, si fermarono a dare un'occhiata in
tondo, poi entrarono nel caffè. Un mucchietto di disoccupati andaron dentro
poco dopo con una scusa o con un'altra, per vedere da vicino quello spettacolo:
ed anche io, non potendo resistere alla tentazione, mi avvicinai alla bottega.
Quando entrai dentro, il signor
Fabio, proprio lui! leticava con Gianni caffettiere, perché non ci aveva burro.
«Paesi barbari! paesi da lupi!»,
badava a urlare inviperito; e per avvalorare il suo nobile sdegno, gli ci
schioccò anche il suo bravo giuraddio .
Lui n'avrebbe fatto anche a meno,
diceva; ma la signora era abituata, e senza burro era impossibile che lei la
mattina potesse mangiare. E dava certe manate sulla tavola da spezzare il marmo.
«Soffro d'intestini, ha capito?»,
disse sorridendo a Gianni la signora Matilde con un vocione che pareva l'Orco.
«Che gli ho da dire, signori
miei?», osservò Gianni guardandomi. «Se voglion del caffè, non sarà una gran
bona cosa, ma ce l'ho; se voglion de' biscottini, ci sono anche quelli; se no,
un ponce o un bicchierino di qualche cosa... Ci abbiamo della bona coca, della
benedettina, del curassò...»
«Bistecche, carne, arrosto, ci
sarebbe da averne?», saltò su il signor Fabio.
«Eh! carne, nossignore, perché
ieri l'avevan già finita, e fino a sabato non ammazzano. Eppoi qui non si fa
cucina.»
«Uova bòne e fresche, nemmeno?»
«No, no, Fabio, lo sai, mi son
troppo calorose», ruggì amorosamente la signora Matilde.
«Cameriere!»
«Comandi?»
«Un bicchierino di mescolanza:
acquavite e rumme.»
«Da un soldo o da due?»
«Da uno.»
Poi attaccò discorso con noi. Ci
salutò tutti a uno a uno, volle sapere i nostri nomi, ci domandò dove si stava
di casa, si mostrò incantato delle nostre belle campagne e chiese informazioni
dell'agricoltura, delle industrie e della popolazione del comune. Quindi ci
raccontò una parte della sua storia. Ci disse che andavano in Romagna a dare
un'occhiata a certi loro possessi, che in una locanda erano stati derubati del
loro vestiario, che viaggiavano a piedi per diletto; e volle sapere se c'era
almeno un po' di teatro per passare la serata, se no avrebbero proseguito
subito il loro viaggio.
Il quel tempo la signora aveva
tirato fuori un pezzo di pane, e dopo averne dato a Clementino la metà, se lo
mangiava guardando il bicchiere del marito. E intanto mi accorsi che,
infreddati come erano, avevano una pezzòla da naso in tre e se la passavano fra
loro con elegante noncuranza. Soltanto, due o tre volte, un lembo dello scialle
della signora Matilde risparmiò a Clementino l'incomodo della passata.
Dopo quella che lui chiamò
colazione, ci chiese un sigaro perché i suoi li aveva nella valigia, della
quale, per maledetta disgrazia, aveva perduto la chiave. Gli fu dato, lo
dimezzò perché intero non tirava, cominciò a fumare saporitamente, poi chiese a
Gianni un mazzo di carte.
«Trovami il sette di picche!»
Gianni sfogliò il mazzo delle
carte, e il sette di picche non lo trovò.
«Ah! briccone. Mi davi un mazzo
di carte scompleto! Guarda dove se l'era ficcato questo birbante per
canzonarmi!» E gli levò con uno scapaccione il cappello di capo, dentro al
quale era il sette di picche.
Fu una risata generale. Gianni
restò confuso e tutti si accostarono al tavolino, domandando al signor Fabio
come aveva fatto (ormai cominciavano a prenderci confidenza) ed invitandolo a
fare qualche altro giuoco.
Il signor Fabio non si fece
pregare. D'una pallottola di midolla di pane ne fece sette, levò un dente al
su' figliolo, fece sparire un coltello e un cucchiaio che li trovarono in tasca
del Bandoni tabaccaio, mangiò una libbra di stoppa e un fiammifero e durò
un'ora a sputar fuoco e a tirarsi fuori nastri di bocca; e da ultimo, senza
destarla, levò un tappo di sughero dal naso della sua signora che s'era
addormentata ritta e russava come un trombone.
Intanto pioveva gente da tutte le
parti, e la bottega riboccava di ammiratori, molti dei quali, per veder meglio,
erano montati sui panchetti, sui tavolini e perfino sul banco, con grande
stizza di Gianni che lì su, poi, non ce li voleva un accidente.
«Silenzio! non lo vedete, lègge!»
Il signor Fabio lesse, fra la più
accigliata attenzione dell'uditorio, alcuni brani d'un libro di segreti da lui
composto. Smacchiò i panni a tutti con una boccetta di liquido che aveva in
tasca, e con una polvere bianca ridusse d'argento tutti i cucchiai, tutte le
forchette e tutti i coltelli di Gianni. Le occhiate, i gesti e le dimenature di
capo dicevano chiaramente che nessuno s'era mai trovato a veder fare delle
maraviglie a quella maniera. Qualche cosa di quel genere o più qua o più là,
parecchi l'avevan visto; ma a quel modo no.
A poco a poco era comparso in
bottega anche qualche pezzo grosso, e allora le acclamazioni erano ricominciate
e da ogni parte si chiedeva qualche cos'altro. E perché il signor Fabio aveva
la gola secca, gli fu fatto presentare un altro bicchierino d'acquavite e
rumme, e uno simile fu offerto a Clementino e alla signora; ma la signora volle
rumme solo, perché l'acquavite gli restava calorosa. Allora pel signor Fabio
non fu più possibile liberarsi: i giuochi più belli furono ripetuti, le
acclamazioni andarono al cielo, e l'entusiasmo e l'ammirazione arrivarono al
tal segno, che a mezzogiorno preciso il signor Professore, la signora Matilde e
Clementino, liberati dai volgari applausi della canaglia, sedevano alla mensa
del signor Sindaco, riveriti e accarezzati da quella rispettabile e brava
famiglia.
Mangiarono come lupi anche la
roba calorosa. Ma dopo desinare, Clementino e la sua signora madre si sentiron
male. Lei ebbe uno dei soliti disturbi d'intestini, e Clementino dei giramenti
di testa, come gli accadeva spesso, disse il signor Fabio, quando a pranzo
usciva dai tre consueti piatti di famiglia.
Il Professore, però, era in testa
e in gambe. Non aveva un soldo da far ballare un cieco; bisognava farne in
serata per andar via la mattina dipoi, e gli riuscì senza darsene tanta pena.
«Mi occorre da lei un piacere,
signor Professore», gli disse il Sindaco, tirandolo in disparte.
«Sono ai suoi comandi.»
«Ma non me lo deve negare.»
«Ripeto: signor Cavaliere, lei mi
comandi.»
«Allora senta. Il Proposto ha da
tre anni una sorella inferma d'un tumore, dicono, in corpo; hanno fatto venir
professori da tutte le parti e glien'hanno fatte di tutte senza poter ottener
mai nulla. Lei deve esser tanto garbato di venirla a vedere, eppoi sapremo
riconoscerlo...»
«No, no, non parliamo di queste
cose!...»
«Venga qui, non se n'offenda,
lasci fare a me perché il merito va ricompensato, e per arrivare a saper qualche
cosa, parlo per esperienza, so che il solo talento non basta e che ci vogliono
de' quattrini e dimolti.»
«Lei, signor Girolamo», rispose
il professore, «forse senza pensarci, mi ha colto nel mio debole: amare,
soccorrere il prossimo quando e finché si può... così sta scritto sulla mia
bandiera. Ed ora, prima d'andare dal signor Proposto chiedo un favore a lei.
Per consumare utilmente la giornata, vorrei dare qualche consultazione, e mi
abbisognerebbe una stanza...»
«Quella dell'elezioni giù in
piazza! Mando subito a prendere la chiave.»
«La ringrazio. Stasera, poi, per
finire allegramente, vorrei dilettare questi buoni popolani e questi gentili
signori...»
«Di là in sala. Benissimo,
benissimo! È tutto fissato, e ora andiamo.»
Chiesero notizie della signora
Matilde che stava meglio, e di Clementino che era uscito a prendere una boccata
d'aria, e se n'andarono dal Proposto.
Prima di buio aveva già
sganasciata mezza popolazione; vendé un cento delle sue boccette da smacchiare,
altrettante cartine di polvere bianca e una cinquantina di copie del suo libro
di segreti; tutto al modicissimo prezzo d'una lira e mezza lira, tranne i
numeri del lotto, che la signora Matilde li dava gratis a chi comprava uno
specifico qualunque o si levava un dente.
Nello sbuzzare un tumore, tagliò
un'arteria a un contadino che fu salvato generosamente dal medico, il quale
corse subito ad allacciargliela; più tardi andaron tutti a cena dal Proposto,
dove il signor Professore e la signora Matilde furono d'una lepidezza da
innamorare; e dopo, tutti dal Sindaco per l'accademia.
E fu quella, davvero, una serata
memorabile per la famiglia del signor Girolamo e per tutto il paese. Prima,
giuochi di prestigio nei quali il Professore fu, come al solito inarrivabile.
Dopo rinfreschi e colletta a favore del signor Fabio, e il signor Fabio diceva:
«A favore dei miei contadini più poveri». Ci furono giuochi di sala, e
Clementino fu impareggiabile per il brio, e per la novità di quelli che seppe
organizzare. Ci fu musica , e la signora Matilde, quantunque infreddata, cantò:
Addio mia bella, addio , con tal sentimento che tutti piangevano, disse il
signor Girolamo, come nel '59. In ultimo ci fu ballo, e il signor Fabio sonò il
pianoforte in tal modo che nessuno aveva mai sentito una cosa simile.
Insomma, fecero il tocco dopo la
mezzanotte e finì la veglia quando tutti credevano che non fossero né anche le
dieci.
«Ah! che peccato che quei signori
se ne debbano andare così presto!», diceva il signor Girolamo, mentre si
spogliava per andare a letto. «Quella è una famiglia che io la vedrei dimolto
volentieri stabilirsi qui. Che brav'uomo! che testa dev'esser quella!... Hai
sentito, Carlotta? m'ha dato due o tre volte di cavaliere!... Ma che ci sia
qualche cosa alle viste per me, e lui l'abbia già risaputo da quel su' amico di
Roma?!»
«Domandaglielo domattina»,
osservò sua moglie.
«Gliene voglio domandare davvero,
perché qualche cosa sotto ci deve essere... Glie l'hai messo il piumino bono?»
La mattina, non ci fu verso di
trattenerli: alle otto partirono. Il Proposto era alla finestra a sventolare la
pezzòla; un numero vistoso di ammiratori erano in piazza per salutarli; ci fu
anche qualche abbraccio, e a mezzogiorno i tre ospiti rimpianti, seduti sulla
spalliera d'un ponte, in mezzo alla campagna, mangiavano allegramente una
cartata di salame, e vuotarono un bel fiasco di vino, gongolanti come pasque
per la retata che avevan fatto quando meno se l'aspettavano.
Appena finito il salame, il
Professore tirò fuori un lapisse e, fatti pochi numeri sulla carta unta,
annunziò alla sua Matilde che, senza contare i regali di vestiario usato,
avevano in cassa centonovantasette lire e venticinque centesimi.
Fu un urlo di trionfo. La signora
Matilde poco mancò che in uno scatto di gioia non andasse di sotto al ponte;
Clementino sbadigliò sonoro, e il Professore, gridando: «Mòia l'avarizia!»
scagliò in aria il fiasco vòto che andò a rompersi fischiando sul greto del
torrente.
A quell'ora precisa, il medico
sfogliava gli ultimi fascicoli dello Sperimentale per trovarci qualche condotta
vacante, e Nando barrocciaio scordava la fame abballottandosi in braccio la sua
creaturina che rideva.
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