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Renato Fucini Le veglie di Neri IntraText CT - Lettura del testo |
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Scampagnata
È inutile, caro mio; ci sono certe occasioni nelle quali è impossibile dire di no. Ti pressano, ti conquidono, ti obbligano con tante premure che il rifiutare sarebbe lo stesso che commettere una vera sconvenienza verso persone le quali non hanno altro pensiero che di farti una gentilezza. Accusi gli affari? «Per un giorno», ti rispondono, «non cascherà il mondo.» Fa troppo caldo? «Venga la mattina pel fresco.» La via dalla stazione al paese è lunga? «Lo mando a prendere col barroccino.» Hai fissato di passar la giornata con un amico? «Meni anche lui...» Insomma, gli dissi di sì, e domenica mattina andai e la feci finita. Appena arrivato in paese tra la folla dei contadini che uscivano dalla prima messa e mi guardavano come una bestia feroce, domandai della casa del signor Cosimo, alla quale domanda otto o dieci mi si offersero per accompagnarmici. «Eccola lassù: la vede quella palazzina con una torricella sul tetto? è quella. Che lo conosce lei il sor Cosimo? Buon signore quello! O il su' fratello prete?! ah! o lui? O la su' moglie, la sora Flavia? Bona signora è quella, e quante elemosine fa! Ma anche la sor'Olimpia, veh! la sorella, si direbbe, del signor Cosimo... Ha le su' idee anche lei, diremo, come se uno dicesse che ha la gran passione de' libri che n'ha sempre uno per le mani e ci ha perso quasi la testa; ma dopo, vede? lo ridice tutto a mente che a volte non ci si crederebbe nemmeno. Gran bona ragazza però, anche lei! e per la su' famiglia, quando c'è da mettere in carta qualche cosa, se non ci fosse lei, non saprebbero da che parte rifarsi. Prima c'era Bistino, il su' figliolo maggiore del sor Cosimo; ma ora è a Volterra in Seminario, dove dice che si fa tanto onore che neanche per le vacanze non lo voglion mai rimandare. È dimolto bravo quel ragazzo! E quando c'era lui, anche il Cappellano alla su' tesa, col su' aiuto... pigliavan più uccelli loro in un giorno che tutte quest'altre tese in una settimana... Guardi; lei pigli di qui e su e ci va a battere il capo senza sbaglio.» Tutte queste notizie sui miei ospiti, che in parte già conoscevo, mi furono date per via dai contadini, i quali, uno dopo l'altro, facevano a gara a favorirmele, finché, messomi all'imboccatura d'un breve viale che menava alla villa, mi ebbero lasciato, salutandomi rispettosamente e domandandomi se m'occorreva servitù. «Non mette male!», dissi, dandomi una fregatina di mani. Era tanto che mi struggevo di passare una giornata di riposo in campagna, che affrettai il passo per anticiparmi la contentezza d'un'ora di pace fra le pareti patriarcali di questa buona famiglia campagnola, lontano dalle noiose etichette, dalle cordiali accoglienze fatte col compasso, dai freddi entusiasmi, dalla gretta ospitalità, infine, che spesso siamo costretti a ricevere e qualche volta, pur troppo! anche a dare fra le esigenze della vita di città. Appena sonato il campanello, un giovanotto in maniche di camicia e col grembiule bianco tirato su e fermato alla cinghia dei calzoni, mi venne ad aprire sorridendo. «Eh! sissignore. Passi, passi. Lei è quel signore di Firenze che ieri mandò a dire che facilmente sarebbe venuto, eh?» «Sì.» «E allora venga, venga. M'ha detto il padrone che lo faccia passare nel salotto bono, e ora vien subito anche lui. Bravo signore! Ha fatto bene, sa, a venire. Era tanto che lo dicevano e che l'aspettavano! Stanno tutti bene a Firenze? Guardi: passi qui dentro e s'accomodi. Con permesso.» «Andate, andate, giovanotto.» Mi misi a sedere, sotto la finestra, sfogliando un vecchio album di fotografie, e intanto potei accorgermi che il mio arrivo aveva destato, davvero, rumore, perché si sentiva su, al primo piano, un gran sbatacchio d'usci e un gran vai vieni di piedi calzati e scalzi pei quali cascava giù dal palco una pioggiolina fitta di bianco d'intonaco, e i vetri della finestra e la campana d'un Gesù bambino di cera, che si vedeva sulla cantoniera, trillavano come se desse il terremoto. Dopo qualche minuto sentii raspare alla porta, poi una gran pedata; s'apre ed entra un bambino di circa sei anni, con una mela in mano mezza rosicata, che si mette a guardarmi e con aria dispettosa mi domanda: «O che è vostro cotesto libro? L'avete a posare, se no lo dico allo zi' prete». Io poso l'album e lui séguita a guardarmi in cagnesco. «Che siete quel forestiero che doveva venire?». «Sì, piccirillo.» Affettando dolcezza per ammansirlo, stesi la mano per prendergli il ganascino. Lui si tirò indietro due passi, e mi accennò di tirarmi la mela nel viso. «V'avete a fermare colle mani, v'avete! O che ci siete venuto a fare quassù?» «Sìe, sìe, tanto lo so, 'un pensate, che ve l'aveva detto mi' padre; ma mi' madre nun voleva perché gli è toccato ammazzare tutti que' polli che li pela ora Gostino. Ma stasera ve n'andate?... Nun mi volete rispondere? Ma intanto ci ho gusto, sì; perché quando mi' madre v'ha visto per la strada v'ha mandato tanti accidenti...» La porta si spalancò e comparve in ciabatte la mole magnifica del signor Cosimo, il quale cordialmente sorridendo mi buttò le sue manone sulle spalle, dicendomi tre volte: «Bravo, bravo, bravo!». «E lei che ci fa qui?». «Cosa mi pare.» Con uno scapaccione lo mise fuori dell'uscio e m'invitò a sedere. Mi dettero subito nell'occhio le frittelle d'unto e le sgocciolature di vino e di caffè che il sor Cosimo aveva sui calzoni e sulla camicia. E, per dire il vero, provai un senso spiacevole come di poco riguardo verso di me; ma fui subito tranquillizzato dalle scuse che mi fece d'essersi fatto aspettare perché era andato su in camera a ripulirsi un poco. «Oh! ma le pare... Dio mio! signor Cosimo!» «O bravo, bravo, bravo! Ma che stagione, eh? Senta, lei deve aver bisogno di rinfrescarsi... Gostinooo! Che ne dicono, che ne dicono a Firenze di questa sementa?... Bravo, bravo, bravo! Lei s'è degnato e ci ha fatto veramente un regalo.» «Andate su, Gostino, fatevi dare dalla padrona le chiavi della credenza e portate da rinfrescarsi a questo signore.» E al bambino che era ritornato dietro al servitore: «E lei vada subito a lavarsi il muso e si pulisca il naso, porco!». E con un altro scapaccione lo rimise fuor dell'uscio. «E di frutte, caro lei, anche quest'anno, nulla!» «Ah!» «Eh! che vòl che gli dica? Da tre anni si vede che c'è entrata la malìa. Si figuri che prima ne rimettevo anche quattrocento libbre di parte, e ora... quando cinquanta, quando sessanta sì e no... Ma poi che roba! imbacan tutte! Scusi, venga con me in granaio... Ma, no... Sento il mi' fratello che scende: s'aspetterà lui.» «Aspettiamo lui.» «È un bell'originale, sa?... un brontolone!... Ma poi in fondo è bono, veh! L'altro giorno, per esempio, vede? lui soffre tanto di mal di stomaco e, con rispetto, d'un vespaio che ha qui...» Gli anticipati della presentazione furono interrotti perché entrò nella stanza don Paolo, facendo una profonda riverenza. M'alzai per andargli incontro, ma: «Non permetto; stia comodo, signore. Se non gli dispiace, tengo in capo perché è la mia abitudine. S'accomodi, s'accomodi pure». Ci fu un momento di silenzio, eppoi il sor Cosimo riprese la conversazione: «Vedete, Paolo, questo è quel signore che si diceva anche l'altra sera...». «Lo so, lo so; benedetto voi che non la fate mai finita. O quante volte le volete ridire le cose?» «No, vi volevo dire...» «L'avete fatto rinfrescare?» «L'ho detto a Gostino. Ora verrà.» «E lei è di Firenze, eh?», mi domandò il Cappellano. «Per servirla.» «Annataccia, caro signore. Se non piove non si fa la prima. Anno, in questo giorno d'oggi, alle dieci, n'avevo presi cinquantasei! e stamani... dianzi me ne son venuto all'otto per la messa, s'era preso tre uccellucci e un maledetto falco che m'ha rovinato, guardi, mezza questa mano. O a Firenze ne pigliano?» «Per dir la verità, non ne ho domandato.» «O il priore di San Gaggio ne piglia quest'anno, ne piglia?» «Che sappia io... non glielo saprei dire.» «Ah! perché venerdì passato mi mandò a dire che non aveva fatto nemmeno l'ingabbiature. Dice che c'è padre Lorenzo della Santissima Annunziata che non sta punto bene. Che è vero?» «Se debbo dirle la verità... non lo so.» «O dunque, o che non sa nulla lei?» «Le dirò... Parliamo piuttosto di lei. Mi diceva ora il signor Cosimo...» «Io torno un momento alla tesa. Il desinare, dite Cosimo, per che ora?» «Ditegliela voi a quelle donne l'ora che vi fa comodo.» «Ah! eccone una!», disse don Paolo che era sull'uscio per andarsene. «A che ora si mangia, Flavia? a mezzogiorno?» La signora Flavia, moglie del mio ospite, accennò di sì col capo entrando nella stanza, mentre il Cappellano, insalutato ospite, se n'andò alla tesa. Mi venne incontro pari pari, mi domandò come stavo, mi disse che ci aveva piacere prima che io le rispondessi «bene», e si piantò a sedere a guardarmi. Il sor Cosimo, che faceva tutte le parti: «Vedi, Flavia: questo è quel signore che ti dicevo l'altra sera...». E la sora Flavia daccapo. «Che fa? sta bene?» «Sissignora,» «O la su' sposa?» «La saluti.» Eppoi, guardando il marito come per domandargli se mi doveva dire altro, si rimise zitta a contemplarmi. Per fortuna il signor Cosimo mi levò dall'imbarazzo di trovare un tema per la conversazione e la riattaccò colla politica. Ed essendoci allora sul colmo la questione di Tunisi, naturalmente cascò addosso a Tunisi e s'arrabbiò, s'infiammò, e spiattellò sbuffando le sue idee sulla politica estera, e concluse che se lui e 'l su' fratello prete fossero stati al ministero, i Francesi a Tunisia non c'erano neanche per la misericordia di Dio, perché... Ma lo interruppe la signora Flavia per domandarmi se nella roba del mio vestito c'era cotone. Tenni dentro una risata e le risposi a caso di no. «E allora costerà dimolto, eh?» «Sì... mi pare sette lire il metro.» «Ah, fanno a metri loro! Dev'esser roba bona, però! Vedi, Cosimo, te l'avresti a fare compagno...» «Sìe, sìe, benedetto vizio di venire a troncare i discorsi in bocca! se ne parlerà poi... poi se ne parlerà.» E rivolgendosi di nuovo a me: «Perché se la Francia...». Ed era per riattaccare su Tunisi quando si vide aprire la porta e compare la sua sorella, la signora Olimpia, nubile sulla cinquantina, quella che i contadini m'avevan dato come una letterata. Aveva un vestito celeste chiaro sbiadito col cerchio, una mantiglia color pulce sul braccio, in capo una pamela di paglia giallo-sudicio guarnita con un tralcio d'ellera naturale, e due pendoni di capelli impecettati le scendevano con dolce voluta quasi fino sulle guance leggermente salsedinose. In una mano aveva l'ombrellino da sole e un mazzetto di vainiglia, e nell'altra un libro dentro al quale teneva l'indice per segno. Si avanzò con disinvoltura ostentata, e con un inchino a occhi strizzati: «Oh! signore», mi disse, «ella è benvenuto in questo modesto abituro». «Delizioso abituro, signorina, dove non vorrei essere importuno.» Strizzò gli occhi di nuovo e mi sorrise. E sculettando meglio che poteva, andò a sedere con le spalle voltate alla finestra. Le grossolane malizie di fanciulla molto matura le conosceva. Io la osservavo con la più grande attenzione, quando mi sento arrivare una gran manata sulle spalle, e il sor Cosimo mi dice: «Sentirà come scrive in poesia quella ragazza! Ce l'hai costì, Olimpia, quel sonetto che facesti domenica passata?». «Quell'ode, via, volevi dire.» «Sie... o sonetto o ode, è lo stesso. Ma sentisse!... colle rime e ogni cosa!! Ma gli dico!... Faglielo sentire, via.» «Poi, Cosimo, poi.» Dio mi tenga le sue sante mani in capo! E rivolgendomi alla signora Olimpia che teneva sempre il dito nel libro: «Che cosa legge di bello, signorina?». «Ah!... Ah...» «Lo conosce anche lei, signor Cosimo?» «Perbacchissimo! Ce lo lèsse domenica passata alle frutte che ci fece pianger tutti come bambini.» «No, Cosimo, avete inteso male. Il signore voleva dire di questo libro qui.» «Ah! io!? ché, ché, ché,! Dicevo del sonetto, io. Ma poi lo sentirà... E gli devi dire anche quello di quando vestirono abate il figliolo del Calamai. O quello! Eppoi... Ma che crede che ce n'abbia uno? Ce n'ha una cassettata tutta piena che, se uno è bello, quell'altro non canzona... Poi, poi sentirà.» Io che ero impaziente di sentire i suoi giudizi sul Leopardi: «Come trova cotesta lettura, signorina?» domandai alla signorina Olimpia. «Le dirò», mi rispose, «per dire la verità, in fondo non ci sono ancora arrivata... ma, se devo essere sincera, mi pare che ci sia poco interesse.» «Ah!» «Non le pare a lei?» «Eh! in certo modo... sì...» «Scusi; non c'è mai un episodio finito. Lei trova Consalvo (quella, già, è rubata dal Tasso: la scena di Clorinda e Tancredi); trova Consalvo, va bene? Consalvo muore; eppoi, almeno fin dove sono arrivata io, di lei non se ne sa più nulla. E lo stesso è dei caratteri! Ci sarebbe quello di quella Nerina, che sarebbe bello; ma, Dio mio, è così poco spiegato!... Ne conviene?» «Eh! sì, per dire la verità...» «Vedete, Cosimo, se avevo ragione, quando se ne parlò l'altra sera colla signora Amalia!» «Ma lo credo!», disse il sor Cosimo, approvando con una gran risata. «Ma che ti vorresti confrontare con quella superbiosa lì? Vada sett'anni alle Salesiane come ci sei stata te, eppoi venga a ragionare. Tanto è inutile», disse poi mezzo stizzito, «m'hanno a tirar fòri quanti gli pare; ma come il Metastasio... Che dico male?» «Tutt'altro...». «Ma che mi burla! Io scommetto che anche a mettersi in cento... se son boni di scrivere tanti libri... neanche la metà di quelli che ha scritto lui. Ma poi come bene! E non ce n'è stati altri, veh!
Chiama gli abitator dell'ombre eterne...
Ah! no; questo è dell'immortale Torquato...
«Sì, si; questo è vero», riprese, interrompendolo, la signora Olimpia che al discorso del fratello aveva sempre mosso la testa approvando. «Il Metastasio va lasciato stare; ma anche questo qui, badate, Cosimo, è carino dimolto. E anche lui ha scritto con que' versi uno più lungo e uno più corto che mi piacciono tanto perché c'è il comodo di metterci quanti vocaboli si vòle... Ma come son difficili! e come li tratta bene anche il Clasio!» «O quello», saltò su il sor Cosimo: «o quello, che è scritto poco bene, con tutte quelle sentenze!...
O sia bruco, o sia...
«O le Mie prigioni !?» Io ero rimasto rintontito. «Bravo, bravo Gostino! posa costì sulla tavola e mesci al signore», disse il sor Cosimo a Gostino che in quel momento entrò con una bottiglia e un vassoio di bicchieri. «Sentirà che questo gli garba», mi disse Gostino mescendomi. «Le fanno appassire loro l'uve?» «Andate, andate, Gostino», gli disse la signora Olimpia. «Lesto, Gostino», continuò il sor Cosimo, «andate a prendere du' altre bottiglie: una del '62 sulla tavola di cantina fonda e un'altra del '59 (l'anno della rivoluzione!) e sentirà», rivolgendosi di nuovo a me, «sentirà che come quello, non per fargli torto, ma come quello lei non n'ha mai bevuto.» «Ma... mi basta questo, signor Cosimo.» «'Gnamo, 'gnamo: smettiamo coi complimenti... Intanto un altro gocciolino di questo, eh?» «Grazie: non lo potrei bere, signor Cosimo. Non sono abituato...» «Guardi, ne ripiglio anch'io: per compagnia prese moglie un frate... Glielo mesco?... Lo butti via, ma glielo mesco.» «E allora, se vuole così, me ne dia un altro sorso per gradire... Basta... basta così...» «Nossignore! o pieno o nulla.» Ritornò Gostino con altre due bottiglie, e allora mi furon tutti addosso, cominciando dalla signora Flavia e non escluso il servitore stesso, perché assaggiassi anche di quelle. Il signor Cosimo mi reggeva il braccio. Cosimo mesceva, e le due donne mi scongiuravano con gli occhi perché non volessi far loro il torto di rifiutare quella gentilezza. Resistei un poco; ma finalmente mi toccò a cedere, ed ebbi la malaventura di lodarne la qualità e d'osservare che non solamente dovevano avere uve squisite, ma anche vasi e cantine eccellenti. Non l'avessi mai detto! «Gliele voglio far vedere», disse subito il sor Cosimo. M'infilò a braccetto, e, lasciate le donne in salotto, con Gostino avanti che ci faceva lume, mi trascinò in cantina, ora dicendomi «badi, c'è un altro scalino», ora «abbassi il capo», e mostrandosi finalmente più maravigliato di me di quella bellezza, la quale non era altro che una stanza tutta ragnateli, con quattro botti a una parete e due caratelli in un angolo. Bisognò che mi maravigliassi e che lodassi anch'io qualche cosa, e lodai, giudicandone dai muri di fondamento, la solidità della casa. Dalla cantina si risalì al piano terreno che mi fece girar tutto: salotto da pranzo, stanza da stirare, cucina, forno, dispensa, armadi a muro... Eppoi la scala nuova che prima era dove ora è la coppaia; eppoi lo scrittoio che il su' fratello prete lo voleva fare dove ci levarono la stalla, ma che c'era umido... Eppoi su al primo piano dove mi fece entrare di sorpresa nella camera della sora Olimpia che era allo specchio a provarsi la mantiglia color pulce. E via, tutte le altre camere, la sala, i salotti e perfino i due luoghi di comodo, che uno bisognava che lo levassero perché dava noia al pozzo... «Ora guardi che occhiata!... e quello è l'orto. Dopo s'anderà anche lì; ma prima gli voglio far vedere anche il secondo piano.» Andammo anche al secondo piano; e dopo avermi fatto girare una ventina di minuti, illustrandomi ogni stanza con gli avvenimenti più notevoli in quelle accaduti, dallo stanzone dove fanno i bachi allo stambugio dove il Cappellano mette in chiusa i fringuellotti da accecarsi, si fermò davanti a una porta per la quale, facendomi prima alcuni segnali che volevano prepararmi ad ammirare qualche cosa di veramente straordinario, il sor Cosimo m'introdusse in una cameruccia disfatta, dicendomi che indovinassi chi ci aveva dormito la settimana passata. «Che vòl che sappia, caro lei?» «Gliela do in mille... Nientemeno che il sor Angiolo!!» «Andiamo!», esclamai, così per dare un po' di soddisfazione ai suoi entusiasmi! E lui, presa sul serio la mia esclamazione, mi tessé sul tamburo il panegirico del sor Angiolo, il quale era, nientemeno che il fratello dell'arciprete Dòdoli e nipote del benemerito signor Canonico Sinigaglia, che era venuto con lui quando Monsignore lo mandò a fare i saldi alla fattoria delle Monache!... «Ha capito?... E ora deve vedere anche la piccionaia... Sta'!... Si vedrà poi, perché ora non c'è tempo da perdere. Sòna l'entrata e bisogna far presto, perché la messa cantata dell'undici la dice il Proposto delle Sièpole che è il Dio della furia. Bon omo, però, veh! Ah! E con lui ci troverebbe il su' pascolo anche lei perché, chieda e domandi, lui sa ogni cosa. Ne parli anche colla mi' sorella... qui ci dorme Gostino!... e sentirà che razza di talento è quello... E qui, vede? Prima c'era un uscio che metteva nel granaio; ma si fece chiudere per via de' topi. Poi gli farò vedere ogni cosa: ma ora bisogna andare, se no s'arriva che è entrata.» In fondo alle scale c'incontrammo col Cappellano che tutto sbuffante tornava dalla tesa, brontolando della furia del Proposto. «Che aveva paura di non essere a tempo a desinare, quello strippone? Avviatevi, Cosimo, fatemi il santo servizio, accidenti a questi lavori! e ditegli che si parino intanto loro e che io fra dieci minuti vengo; se no, se la cantino da sé e non mi scoccino...» «Vede?», mi disse il sor Cosimo, «lui è sempre a quella maniera. Quando non piglia uccelli diventa una bestia. Venga, venga; queste donne verranno da sé.» «Son bell'e andate, sor padrone», disse Gostino. E io, che avrei avuto tanto bisogno di sciorinarmi e di riposarmi un momento, mi misi dietro al sor Cosimo che, per paura del fratello, allungava tanto il passo da tenergli dietro a fatica.
Attraverso a una caligine grassa di sudore e di moccolaia, osservavo la scena. Nell'emiciclo del coro, i cantori, fra i quali il sor Cosimo, che s'era messo in prima linea a sinistra, per non restare invisibile dietro all'altar maggiore; intorno all'altare, i preti celebranti, imbacuccati nei loro piviali ricamati d'oro che mandavano riflessi abbaglianti secondo che si movevano, percossi da un raggio di sole giallastro e polveroso che da una lunetta semichiusa attraversava in diagonale la chiesa. Poi uno spazio libero, e dopo, due ali di panche per le donne; in mezzo, quattro o sei eleganti alla moda, dal fazzoletto bianco sotto i ginocchi, unti nei capelli e inchiodati nelle scarpe, e in fondo, gli uomini serî, i veri credenti senza ostentazione, le luccicanti zucche pelate, i catarri produttivi, le pezzòle da naso turchine. La signora Flavia, in una panca separata dentro alla cappella de' sette dolori, pregava calorosamente con la faccia quasi nascosta nel libro, e la signora Olimpia, che le sedeva alla destra, fantasticava sorridendo angelicamente verso qualche fantasma che pareva attirare i suoi sguardi su nella misteriosa penombra delle navate. I mantici dell'organo russavano, e dai pieni polmoni scappava fuori, di quando in quando, una nota sola e fuggiasca o un do-re-mi-fa bricconcello che faceva voltare subito lietamente il sor Cosimo verso di me e il Cappellano verso l'organo, con due occhi da basilisco che mettevan terrore. Le montagne stanno ferme e gli uomini camminano. Quando il sor Cosimo, infilando in fretta l'uscio della Canonica, m'ebbe lasciato sotto il porticato della chiesa, mi dette nell'occhio un uomo decentemente vestito, la cui fisionomia non m'era punto nuova; e nemmeno pareva che la mia fosse nuova a lui, perché nell'incontrarci che facevamo passeggiando in su e in giù, mi ficcava gli occhi in viso e quasi pareva che accennasse a un sorriso amichevole e a rivolgermi la parola. Io facevo altrettanto, quando, passandomi per la terza volta vicino, pronunziò a bassa voce il mio nome: mi venne allora subito in mente il suo, mi voltai e ci abbracciammo con una stretta e un bacio affettuosamente fraterno, che quando ci guardammo negli occhi, li avevamo umidi di lacrime. «Dopo diciannove anni! O come mai ti trovo qui?» «Sono medico di questo comune. E tu?» «Son qui per diporto.» «Verrai a desinare da me.» «Sono impegnato.» «Da chi?» «Poi se ne parlerà. Ora parliamo di noi; dimmi di te, de' nostri amici, della tua vita... Ah, perdio! quanto avrei bisogno di sapere da te, quante notizie da chiederti di tanti vecchi compagni d'Università... e quante avrei da dartene io!» E qui un assalto di domande: «E del tale che ne fu?... E il tal altro che fa?... Tizio è vivo?... Caio dove si trova?» E quasi ad ogni notizia reciproca corrispondeva una voce di rimpianto e una parola di commiserazione: «È morto!... È un disgraziato!... Scappò e non se n'è saputo più nulla... È in galera». E raramente: «Sta bene... Vive... È contento». «E tu come te la passi?» «E coi paesani?» «Male.» «Perché?» «Non sono una bestia come loro e sono un galantuomo.» «Ti capisco. E con le autorità locali?» «Male. Sono in odio al Sindaco e mi toccherà andarmene presto.» «La ragione?» «Ebbi l'imprudenza di contraddirlo in pubblica farmacia, quando, a proposito di galateo, citò monsignor Della Casa e Flavio Gioia.» «E chi è questo mostro di sapere?» «La più agiata, la più colta, la più rispettabile persona del paese: un certo signor Cosimo...» «Il mio ospite!» «Sei da lui?» «Sono da lui.» «O come mai?... Ma ora, no; dopo desinare verrai a trovarmi, mi racconterai tutto e staremo insieme fino alla tua partenza. Ho molte cose da confidarti, ti accompagnerò alla stazione col mio cavalluccio; ma ora entriamo in chiesa, perché la messa è cominciata... Sorridi?» «Penso che diciannove anni indietro un invito simile non mi sarebbe venuto da te.» «Ho sei figlioli!» Mi fece strada in chiesa mentre io, standogli alle spalle, osservavo rattristandomi la sua cambiata persona. Quante speranze svanite! Quante illusioni stavano raggrinzate giù dentro all'anima di quel corpiciattolo smunto, già più che mezzo canuto!... E quel provvidenziale egoismo stillato dalla natura anche nell'animo dei migliori, venne a soccorrermi; e le mie malinconiche riflessioni mi si convertirono in una spasimosa compiacenza confrontandomi con lui. «Ecco i miei padroni», mi disse sorridendo amaramente, appena ci fummo fermati in un angolo in fondo alla chiesa. «Sono tutti lassù. Conosci nessuno?» «La famiglia del signor Cosimo e nessun altro.» «Merita il conto di presentartene qualcuno, perché son degni della tua attenzione. Non sarebbero cattivi, se non li facesse pessimi la loro ignoranza orgogliosa. Tutti celebri, però! tutta brava gente; tutti ammirati, perché il resto è più ciuco di loro. Vedi quello che celebra? è un certo Proposto delle Sièpole. Teologo profondo, negoziante d'oli, confessore delle monache, mangiatore strepitoso e gran protettore delle molte sue nipoti. Non mi vuol bene, ma mi tollera dopo che lo curai d'una indigestione di cacio salato e baccelli.» Il Proposto delle Sièpole in quel momento sedeva tutto compunto, e dal suo stallo d'onore, stringendosi al petto le braccia incrociate, mandava occhiate e sospiri al cielo. «E vecchiotto però!», osservai. «Sopra la sessantina. E quello che gli sta alla destra», continuò il medico, «è il suo Cappellano, il quale mi fa una guerra accanita, spargendo nel contado che sono un eretico, perché mi rifiutai di fargli un certificato falso di malattia. Credo che fra loro non se la dicano molto per ragioni di nepotismo. Però non si lasciano mai; e l'occupazione del Cappellano, quando seguita il principale, è d'annacquargli i moccoli. A ogni primiera ammazzata, il Proposto, un «Giuraddio!» e il Cappellano un «Bacco». E così vanno avanti, salvando l'apparenza e l'anima; ma il Proposto qualche volta la crede una umiliazione e se n'ha per male, e lo rimprovera; e allora, nella stizza, i «perdii» gli scivolan giù come chicchi di corona sfilati; e il Cappellano coi suoi «bacco, bacco» ripara a tutto, impassibile alle minacce e pronto al martirio piuttosto che cedere. È il primo cacciatore di lepre dei dintorni e giuocatore di briscola da sfidare la piazza. I popolani l'adorano perché dice la messa in dieci minuti, confessa a maniche larghe, e a chi gli fa de' soprusi, legnate da olio santo. Quel cosino magro dalla parte di qua è uno de' così detti preti spiccioli; è un buon figliolo, povero in canna, che con una salute da far pietà s'arrabattta a tirarsi avanti con una sorella vecchia e due nipotini che educa e istruisce da sé, facendo da maestro, da zio e da babbo; e intanto s'aiuta con altri quattro o cinque scolarucci che può raccapezzare a una lira al mese, e campa non si sa come, mantenendosi, nella sua miseria, illibata la reputazione di cittadino onorato e di sacerdote esemplare. E quel che più monta, egli, rara avis , non invoca la maledizione di Dio sulla sua patria. In paese, come è facile a capirsi, o non se ne occupano o lo rammentano con disprezzo. Quell'altro è il fratello del sor Cosimo, che tu conosci. Ti dirò qualche cosa anche di lui; ma ora inginocchiamoci, perché siamo all'elevazione.» Tutto il popolo si prostrò in un solenne raccoglimento, e l'organo, allargandone il tempo, travestì da adagio maestoso l'allegro del Trovatore : «Di quella pira l'orrendo fuoco». Alla cerimonia della consacrazione tenne dietro il solito rumore confuso di stropiccio di piedi, di tintinnìo di medaglie e l'indispensabile scarica di tossicone generale. E l'aria si faceva sempre più pesa e nauseante, quando il medico riattaccò sotto voce la conversazione. «E il fratello del sor Cosimo, detto di soprannome Cotenna, è quel tale che, nientemeno...» E qui mi si accostò all'orecchio e mi disse: «...». «Andiamo!», esclamai meravigliato. «Tutti i giorni?!» Il sor Cosimo mi sorrideva in fondo alla chiesa e mi accennava all'organo come per dirmi: «Ha sentito, eh? che razza di strumento e che sonatore!». «E quello con quel ciarpone di seta nera al collo, che è inginocchiato accanto al sor Cosimo», continuò il Dottore, «è lo Stelloni mugnaio, assessore della pubblica istruzione. Il sor Cosimo lo prescelse alla carica, perché, vista l'antipatia che fin da bambino lo Stelloni aveva dimostrato per le scuole, poté tranquillizzare il Consiglio che lui delle spese inutili non ne avrebbe fatto fare. E l'assessore Stelloni, fedele al suo mandato, non ha mai messo piede in una scuola. Lui dice per non compromettersi, perché le cose non vanno a modo suo; la canaglia dice che ha paura di dovere interrogare i ragazzi. È un buon diavolo, però, e non ha odio con altri fuori che col maestro comunale, quel giovanotto pallido lì dalla piletta, perché sopra un componimento del suo figliolo corresse appetito divoratore dove era scritto appetito divoratrice . Lo Stelloni lo compatì benignamente finché la questione rimase dubbia; ma quando fu accertato che il maestro aveva ragione, il benigno compatimento dell'Assessore si convertì in odio implacabile, e ora cerca tutte le gretole per poterlo mettere nella strada a morire di fame. Quel vecchietto magro, in capo fila a destra, è uno dei più ricchi possidenti del paese, cavalocchi e notaro in ritiro e già Sindaco prima del sor Cosimo. La sua passione è di schiacciare le noci colla testa e di contraddire sistematicamente in Consiglio tutto quello che il signor Cosimo propone. Si è immortalato con due iscrizioni che ha fatto porre col proprio nome in lettere maiuscole durante la sua gestione: una al pozzo pubblico quando ci fece mettere la pompa, e un'altra, che eccola laggiù dove è quello scalcinato, quando fece ridorare a sue spese il ciborio alla cappella de' sette dolori. Braccò il sindacato per far passare un braccio di strada obbligatoria dalla sua villa; ma poi, non avendola potuta ottenere ed essendogli stata imbiancata la proposta pel cavalierato, si ritirò fremendo, e ora si sfoga a fare opposizione in Consiglio, manda via un contadino l'anno e dice ira di Dio del Governo in ogni occasione, non esclusa quella che la brinata gli sciupi nell'orto i pomodori primaticci.» «E tu sei alle mani di questa gente!», osservai. «Sono alle mani di questa gente.» L'« Ite, missa est » interruppe il nostro colloquio. Il Proposto delle Sièpole lo annunziò a occhi chiusi, a giugulari iniettate e a gote livide sull'ultimo, sollevando la testa per trovare note di voce più poderose, in mezzo agli altri preti che stavano reverenti ai suoi fianchi. E se lo patullò per due minuti buoni, finché dopo un i... i... i... i... che pareva non dovesse finir più, rotolò sfiatato: « issa est ». Il sagrestano s'avventò collo spegnitoio alle candele; i preti allicciarono verso il desinare, e il popolo, dopo un breve raccoglimento, s'affollò alla porta per uscire. Quando fummo sotto il porticato, il medico mi lasciò subito per fuggire l'incontro de' suoi padroni, non senza avermi prima ripetuto caldissimamente che dopo desinare fossi andato da lui, che mi avrebbe accompagnato alla stazione e che aveva cose importantissime da dirmi. Il sor Cosimo venne correndo a ritrovarmi, accompagnato da varie persone alle quali mi presentò, dandomi di gran manate sulle spalle, scansando il lei e dicendomi un monte di villanie per dare a credere che con me ci aveva confidenza. Aspettammo un momento il Cappellano e le donne, e tutti insieme ci avviammo, come disse il sor Cosimo e ripeté la signora Flavia, a far penitenza.
Al momento d'andare a tavola il sor Cosimo mi disse, dandomi uno strizzone: «Oggi si deve stare allegri! Bravo, bravo, bravo!». La signora Flavia mi ripeté per la sesta volta che avrei fatto penitenza, perché non avevano alterato per nulla il solito desinare delle altre domeniche. «Dio mio!...», esclamai, fingendomi di esser mortificato, ma in realtà perché non ne potevo più di ogni cosa. E con la signorina Olimpia che ci precedeva sculettando, dopo avermi presentato un'occhiatina ladra e un mazzetto di gelsomini, entrammo nel salotto da pranzo, tutto parato per le grandi occasioni, in un ambiente odoroso di biancheria, levata allora allora di fra le mele cotogne e lo spigo. «Ecco qui», ribatté il sor Cosimo, «noi non si fa complimenti; un po' di minestra, un po' di lessuccio, du' altri gingilli come il solito, e s'è finito.» Si segnò e recitò il Benedicite . Il bambino, che appena entrato in salotto era rimasto a bocca aperta guardandosi d'intorno, quando ebbe visto i preparativi tutti e specialmente una tavola in disparte tutta piena di crostini, dolci e bottiglie, non poté più reggere, e, rivolgendosi a me, urlò battendo le mani sulla tavola: «O Dio, bene! Guardate, oggi che ci siete voi, quanta bella roba c'è!». Il signor Cosimo gli lasciò andare un calcio di sotto la tavola, che per fortuna non lo prese; ma fra i commensali si sparse istantaneamente un silenzio glaciale. Le donne sospirarono; gli uomini rimasero a guardare il bambino con due occhi da incenerirlo, e io mi voltai al signor Cosimo a domandargli che cosa il bambino aveva detto. Il mio stratagemma riuscì perfettamente, e tutte le fisionomie erano già rasserenate quando comparve Gostino in maniche di camicia a mettere in tavola la zuppiera. La signora Flavia lo chiamò subito e gli disse qualche cosa all'orecchio. Al fritto Gostino tornò con la cacciatora e col cappello in capo. La signora Flavia lo chiamò di nuovo, e quando tornò col lesso comparve senza cappello. interrogando con gli occhi la padrona come per domandarle: «Ora va bene?». La signora Flavia gli rispose di sì col capo; ma il signor Cosimo gli disse con un'altra occhiata che quelle cose avrebbe dovuto saperle da sé. Gostino con una spallucciata gli fece capire che l'avevan seccato, e mi disse che pigliassi un altro po' di pollo. Questa gentilezza di Gostino fu il segnale dell'attacco. Il vino aveva cominciato a rallegrare la comitiva e più che altri il sor Cosimo. Un contadino venne a dire che al paretaio del signor Cappellano avevano fatto un tiro di sette frusoni, per cui anch'egli rallegrò il suo umore, e mi trovai investito allora in pieno dalla spaventosa valanga delle cortesie di cotesta buona gente. Gostino mise a sdrucciolo il piatto del pollo sul mio, e giù una frana di ciccia da sfamare un can da pagliaio, fatta rovinare dalla forchetta del sor Cosimo e da una gran manata del Cappellano nel gomito di Gostino. «Non lo finisco.» «È impossibile.» «Dunque è segno che il pollo non gli piace!» E giù, anche una targa di manzo. E bisognò che mangiassi ogni cosa, tormentato a doppio dal pensiero che ancora non s'era a nulla! Infatti cominciò subito la succulenta dinastia degli umidi. Sette ne comparvero! Due di pollo; uno di vitella di latte; due di carne grossa; uno d'animelle, e l'ultimo di tacchino coi maccheroni... Scoppiavo!... E bisognò assaggiarli tutti!... tutti! Quello bisognò prenderlo perché era col cavol fiore, una primizia! quell'altro perché se no si sarebbe guastata la relazione; questo perché è con gli spinaci che ora sono una rarità; quest'altro perché ci ha fatto la salsa la signora Olimpia... Dio signore! non ne posso più. E crepavo di ripienezza e di caldo, e, come se tutto il resto non bastasse, le mosche insistenti dell'autunno mi finivano di conciare impaniandomisi al sudore che mi colava a gore giù per le gote!... E il sor Cosimo, sempre più feroce, m'assaliva con una cucchiaiata d'erba perché era roba leggiera, e il prete con una stiappa di ciccia che mi buttava nel piatto da lontano; e in quel tempo Gostino badava a predicarmi di dietro che non mangiavo nulla, e la signora Flavia a lamentarsi che non mi fosse piaciuto il desinare! «Ecco l'arrosto! ora siamo in fondo; coraggio!» Ma coll'arrosto cominciarono le bottiglie. Il prete n'agguantò per il collo una di vin santo, il sor Cosimo una d'aleatico e Gostino una di vermùtte spumante. «Aspettate! no... no... aspettate, Gostino!», gridavano le donne parandosi coi tovaglioli. E il sor Cosimo, posato l'aleatico: «Ah! permio!», esclamò, «qua, qua, mi ricordo dell'altra volta. Guardi», volgendosi a me, «guardi che chiosa nel soffitto. Ora sentirà che lavoro è questo. Qua, qua, Gostino, la voglio stappare da me». Il sor Cosimo in piedi, con la bottiglia spianata, cercava un posto nella stanza dove rivolgerne impunemente la bocca, ma non lo trovava. Su c'era il soffitto dipinto; giù la stoia nova; di faccia le donne che s'eran buttate il tovagliolo in capo e si tappavano gli orecchi con le dita; a destra il prete e la credenza bona... «Alla finestra, sor padrone!», gli gridò Gostino. «Bravo Gostino!» E andò alla finestra dove, dopo che ebbe lavorato un pezzo, adagio adagio e colla massima precauzione, si sentì a un tratto un gran: «Giurammio! o come mai?...». E per assicurarsi meglio continuò a mandare in su col dito pollice il tappo che finalmente cascò a piombo ai piedi del boia come la testa d'un decapitato. «Un'altra, Gostino; subito!» E quell'altra venne; ma appena tagliato lo spago, fu una catastrofe. Il vino schizzò via soffiando come un gatto arrabbiato; e il sor Cosimo che girava in tondo per scansare ogni cosa, infradiciò invece ogni cosa, fra i sagrati del Cappellano che aveva avuto una zaffata nella nuca e gli strepiti delle donne che s'eran ficcate col capo sotto la tovaglia. «Un'altra, Gostino!» «Cosimo, per carità!...», esclamaron le donne. «Mi parete diventato un ragazzo!», brontolò don Paolo. Ma il sor Cosimo ormai, visto compromesso il suo decoro di enologo premiato da se stesso alla mostra che fecero per la fiera anno di là, voleva andare in fondo, e ci arrivò finalmente con onore. Gostino portò una terza bottiglia, la quale lavorò stupendamente, e la pace fu ristabilita. Ma la tempesta delle gentilezze si scatenò addosso più furibonda che mai dopo il buonumore suscitato nei miei aggressori dalla riuscita dell'ultima bottiglia. Mi trovai il piatto pieno a cupola di uccelli che mi piovevan da tutte le parti; e uno me ne tirò nel viso il bambino fra le risate dei parenti che restarono sorpresi dello spirito di quel ragazzo. E anche quelli mi toccò mangiarli!... «Senza pane!» «Sissignore; accidenti a' fornai!», dissi ridendo in un certo modo che doveva parere che volessi mordere. La signora Olimpia volle poi che accettassi da lei una stipaiola. «Un uccellino di becco fine, signore», mi disse, «è tanto delicato!» «Da lei, signorina, non posso ricusarlo.» «È l'ultimo!» gridai nel fondo del petto, «sacrifichiamoci per uscirne.» «Grazie, signorina; ma si accerti che faccio un gran sacrificio.» «Gliene sarò riconoscente per tutta la vita.» E guardò sorridendo dietro alle mie spalle. Mi voltai e vidi il Cappellano che, branditi due bravieri per le zampe, rigido come la statua del Fato, me li affondava nella faccia, dicendomi freddo e arcigno: «Questi non li rifiuterà di certo. Gli ho presi io stamani, e freschi e grassi così, lei a Firenze non li trova; o, se li trova, per meno di quattro palanche l'uno non glieli dànno». Me li posò nel piatto e rimase a guardarmi con gli occhi stralunati da un accesso di simpatia avvantaggiata dall'ultimo bicchiere d'aleatico, che secondo me, cominciava a lavorare a vele gonfie. Poi venne l'insalata coll'ova sode, poi le frutta, poi i dolci, poi altre bottiglie, eppoi... perdio! fu finita. Ma credo che anche i miei vincitori avessero poco da cantar vittoria. Era uno sbracalìo generale di calzoni, di panciotti e di fascette: sbuffate da tutte le parti e ceffi infiammati e occhi rossi, tranne la signora Olimpia, la quale, vivendo tutta di spirito, s'era mantenuta inalterata, posando sempre in attitudini soavi e mostrando qualche volta, nei momenti più serî, una gentile pietà per la mia posizione. E i nostri discorsi durante il pranzo? Nulla! Fu una lotta sorda e continua di offerte, di repulse e di nuove offerte; di «pigli» e di «grazie»; di «lei non mangia, lei non beve», e di risa sgangherate tutte le volte che avevano inventato un nuovo tranello per farmi scoppiare. «Le poesie, Olimpia, le poesie!», urlò il signor Cosimo alla sorella, «il sonetto del Calamai!» Io mi volsi subito alla signora Olimpia per leggerle negli occhi la gravità di quello che mi minacciava; e la vidi atteggiata a una espressione che mi fece pena. La signora Flavia mi destò lo stesso sentimento e perfino nella faccia del bambino mi parve di scorgere qualche cosa che sapeva di paura. Guardavano tutti il signor Cosimo in aria pietosamente interrogativa, eppoi si volgevano in un punto verso il fondo della tavola, alla sua destra. In quel tempo il signor Cosimo chiamò con voce alterata Gostino, il quale comparve con due contadini, che, agguantato don Paolo sotto le braccia, lo trascinarono quasi di peso fuori della stanza. Io m'alzai di scatto per prestarmi in aiuto; ma il sor Cosimo mi trattenne dicendomi in aria mista di dolore e d'umiliazione che non mi spaventassi perché era cosa consueta. «Fra un paio d'ore non è altro. Insulti di core. Quando lui s'aggrava un po' di cibo...» «Ma perché non cerca di moderarsi?» Il sor Cosimo si rinsaccò nelle spalle. «E gli accade spesso?», domandai. «Tutti i giorni, povero zio!», mi rispose la signora Olimpia. «Ah! è un grand'incomodo quello!» «E il medico che dice?» «Ah!», esclamò il sor Cosimo. «Giusto! lei lo conosce quel... quel... Il medico ride, glielo dico io quel che dice il medico: il medico ride; e quando si mandò a chiamare la seconda volta per una di queste solite mancanze, dopo che gli ho fatto avere io la condotta, io capisce? io gliel'ho fatta avere! ebbe l' audacità di dire a quel pover'omo: «Cappellano, un'altra volta l'annacqui». Ha capito cosa dice il medico? Ma in casa mia non ci ha messo più piede, e spero bene... eh, Flavia?» Gostino venne a dire qualche cosa nell'orecchio al padrone, il quale gli rispose indispettito che ci buttasse un po' di segatura, che ci ripulisse subito e la facesse finita. «Ooooh! allora allegri, perché tanto non è nulla, Flavia, il caffè dove ce lo dài? qui o nell'orto?» «Lasceremo decidere al signore.» «Nell'orto, nell'orto!», dissi subito io, desideroso d'uscire da quelle strette e di godermi una boccata d'aria autunnale, tanto più che, a maggior contrasto col mio compassionevole stato di prigioniero, era una giornata incantevole. E da due ore invidiavo i fringuelli del paretaio, che si sentivano nel poggio di faccia tirare i loro versi boscherecci, e le lodole di passo che trillando si allontanavano giù nella caligine del piano dalla parte di mezzogiorno. Il signor Cosimo si allontanò dicendomi che tornava subito. La signora Flavia corse dietro a Gostino che era venuto a chiederle le chiavi della legnaia; il ragazzo s'era addormentato attraverso a due seggiole, e anche la signora Olimpia mi lasciò frettolosamente, dicendomi che una forte necessità la costringeva ad allontanarsi. Ma io non connettevo quasi più. Gonfio come un rospo e con un cerchio di ferro alla testa, accesi un sigaro, allungai le gambe sotto la tavola, e mi lasciai andare col capo all'indietro sulla spalliera della seggiola, dove avrei schiacciato tanto volentieri un pisolino, perché proprio ero fatto. Quando sentii una gran strappata al campanello che avevo suonato io la mattina arrivando, e i miei ospiti, meno don Paolo, tornarono di corsa nella stanza, annunziandomi che c'era que' signori al cancello dell'orto e che bisognava andargli incontro. «Vengo, vengo subito», dissi quasi in sogno; e mi mossi automaticamente dietro a' miei ospiti. Gostino s'avviò di corsa ad aprire, e vidi venire avanti, su pel viale, un gruppo sciamannato di cinque persone, tre preti e due secolari rossi come gallinacci, che urlavano e smanacciavano gesticolando come anime dannate, mentre una turba di ragazzi e di contadini erano rimasti di fuori, parte arrampicandosi sul cancello e parte col capo tra i ferri, a guardare a bocca aperta quello che si faceva dentro. Il sor Cosimo mi prese per un braccio, e portandomi avanti, mi presentò al Proposto delle Sièpole, poi al suo Cappellano e al Piovano del luogo, e da ultimo all'assessore Stelloni e al Segretario comunale. Fummo subito condotti sotto la pergola dove i contadini avevan disposto delle sedie intorno a una tavola di pietra, e dopo poco arrivò Gostino, colle maniche rimboccate perché aveva principiato a rigovernare, a portarci il caffè. Pareva che la conversazione avesse dovuto continuare animatissima; ma invece si raffreddò per una certa soggezione credo, che io forestiero davo a' quei signori; e fu uno stento di domande brevi e di risposte a monosillabi, finché il Segretario non entrò negli affari del Comune. Prima un po' di maldicenza, eppoi tirò fuori due fogli da far firmare al sor Cosimo, il quale chiese subito a Gostino il calamaio. Firmò mettendosi gravemente gli occhiali, e dopo rimase qualche momento a guardare di traverso la propria firma con quell'aria dell'uomo soddisfatto che dice a chi lo sta a vedere «Ma che ne sistemo uno, io, degli affari in capo all'anno!?». «Pare che si promulghi sempre di più, caro signor Cosimo. E, quel che è peggio, si fa maligno», rispose lo Stelloni, tirando in su col naso e accavallando le gambe. E qui il colloquio cominciò a farsi animato. E quasi che lo Stelloni con quel «promulghi» avesse gettato la prima pietra d'un grande edifizio, il Proposto delle Sièpole cominciò a parlare de' suoi fiori estatici , che lui li aveva già messi in casa per paura delle brinate. Il suo Cappellano mi disse che lui non era agrario , perché limoni nell'orto non ce n'aveva mai tenuti; e lo Stelloni mi fece anche sapere che qualche anno fa andava molto a caccia, ma ora s'era fatto astemio , un po' perché le gambe non gli dicevano più il vero, e un po' perché il su' cane più bravo era rimasto alienato nella vista degli occhi, pare, dal grand'umido preso in padule. Riguardo a scuole miste mi osservò che eran molto economiche; ma che a lui quel misticismo di maschi e di femmine tutti insieme non gli garbava né punto né poco. Il signor Cosimo, poi, per non restare al disotto, deplorò di non potermi far vedere gli scherzi acquatici che aveva fatto intorno alla vasca, perché le chiavi dei macchinismi le aveva nel cassettone don Paolo. La signora Flavia ci guardava smemorata, con gli occhi tra 'l sonno, che spalancava tutte le volte che veniva più forte il rumore de' cocci dalla cucina dov'era Gostino a rigovernare. E la signora Olimpia, forse disgustata da quella conversazione indegna di lei, girellava pel giardino, accarezzando con lo sguardo i suoi fiori, finché fermatasi davanti ad una rosa d'ogni mese, tra le cui foglie due api si abbaruffavano dolcissimamente:
Nauseata, disprezzante... Ahi! dicea...»
«Sempre poetessa la signora Olimpia», gridò il Proposto delle Sièpole, «sempre poetessa! Son suoi cotesti versi, signora Olimpia, son suoi?» «Ora poi, Olimpia, non se n'esce, se no si fa tardi», saltò fuori il sor Cosimo. «Il sonetto del Calamai, e subito, perché quello è una bellezza...» «È una meraviglia», osservò il Proposto. «E io, guardi, l'ho qui... l'ho tutto qui, che lo ridirei come se l'avessi davanti stampato... Non n'ho sentiti altri!
Gioisci, o giovin garzon: t'attende intanto
«Ah! perdio!...» «Bacco!» Il Proposto delle Sièpole dette un'occhiata in tralice al Cappellano; e la signora Olimpia si preparava a dire il sospirato sonetto, quando s'affacciò all'uscio di casa don Paolo con gli abiti, le braccia, la bocca, gli occhi, i capelli e ogni cosa a grondaia, che si fermò sulla soglia a guardare fisso in terra. Tutti gli andammo incontro a congratularci e a domandargli come stava... «Còre, signori miei, còre.» E si portava le mani alla parte sinistra del petto, strizzando gli occhi e accennando a bocca stravolta come una puntura che gli levava il respiro. E: «Alla tesa, Cosimo, hanno fatto altro?». «Altri cinque, don Paolo!», gridò Gostino di cucina. «Cinque? Dunque siamo arrivati a quindici oggi!», gridò don Paolo, rianimandosi come per incanto. «Gostino, la mazza e il cappello.» Il sor Cosimo ci fece d'occhio per dirci che bisognava andare alla tesa anche noi; un'attenzione che sarebbe stata graditissima al suo fratello. Ma i tre preti, adducendo che fra poco sarebbe sonato a vespro, si disimpegnarono bravamente, e andammo noi quattro: il sor Cosimo, il Segretario, l'assessore Stelloni e io, con gran compiacenza di don Paolo, il quale, precedendoci a sbalzelloni, mi raccontava che aveva fatto serbare un bel frusone maschio pel Priore di San Gaggio e che io gli avrei fatto il favore di portarglielo. Ma il tempo passava, eran già sonate le tre; alle sei il treno partiva, dal paese alla stazione c'eran tre quarti d'ora e io volevo, volevo in tutti i modi stare un po' col mio amico dottore, volevo sentire quel che aveva da dirmi, volevo rinfrescarmi l'anima nei ricordi della nostra giovinezza, volevo, sopra tutto, liberarmi da quella tortura che da qui avanti cominciava un po' troppo a passare la parte. «Io... signor Cosimo, mi scusi, ma ho necessità di arrivare in paese.» «Le occorre qualche cosa?» «Sì... non ho più sigari.» «Eccogliene mezzo!», mi disse a bruciapelo l'assessore Stelloni. «Ma... avrei anche da scrivere una cartolina...» «Badi», osservò il Segretario, «che ora l'appalto lo troverebbe chiuso.» «Gliela do io, e la scrive ora quando si torna a casa», mi disse il sor Cosimo. Era inutile! Dirgli che avevo un appuntamento col medico era lo stesso che tirare uno schiaffo ai padroni di casa. «Andiamo alla tesa. Ma se non dispiacesse a questi signori, vorrei far presto.» «In una mezz'ora si va, si sta e si torna», disse don Paolo. E su, come pecore dietro a lui che, rimettendosi a vista d'occhio dell'insulto di cuore, animato dalla sua passione, ci faceva sfiatare su per una viottola tutta sassi e ripida come un calvario.
Al capanno accadde una scena violenta perché trovammo il tenditore addormentato. Si stette lì una mezz'ora senza prender nulla, in tempo che don Paolo, senza mai levar gli occhi dal finestrino e dicendo ogni tanto: «Zitti, ecco roba!», non si chetò mai a raccontarci sotto voce tutti gli importantissimi perfezionamenti che aveva introdotti nel suo paretaio, e finalmente, quando Dio volle, si venne via. Ma non tornammo diritti a casa, perché il sor Cosimo volle farmi vedere la coltivazione nuova, eppoi il bosco disfatto; e di lì don Paolo volle passare dal paretaio vecchio per farmi fare il confronto con quello nuovo. Lo Stelloni, per quattro passi di più volle che arrivassimo in cima al poggio per farmi vedere di lassù la sua casa; e chi sa dove diavolo m'avrebbero menato, se le campane benedette non cominciavano a sonare a vespro fitte fitte. E allora tutti giù a gran furia, perché senza il sor Cosimo e senza lo Stelloni, in coro non avrebbero neanche principiato. A casa bisognò ribere; le donne ci aspettavano già preparate; Gostino domandò per che ora doveva esser pronta la cavalla, e andammo al vespro a passo rinforzato perché s'era fatto tardi. Nell'attraversare la piazza, in mezzo al gruppo dei miei ricattatori, avendo a braccetto la signora Olimpia, vidi da lontano il medico sulla farmacia, che mi faceva cenno come per domandarmi: «O dunque?». Io gliene feci un altro come per rispondergli: Scosse la testa sorridendo e riprese la conversazione interrotta con un contadino che gli sedeva accanto. In coro mi piantarono nel posto d'onore in mezzo al gruppo dei cantori, e lì sbercia che ti sbercio, e zaffate d'aglio stantìo, e urli a bruciapelo, che parevan legnate nelle tempie. E anch'io in mezzo a quegli energumeni, cominciai a boccheggiare dietro ai cantori, tanto per dare un po' di soddisfazione ai contadini che a occhi sgranati, in giro in giro al leggìo, stavano a guardarmi senza batter ciglio, aspettandosi di certo da me qualche cosa di strepitoso come, in quella occasione, avrebbe dovuto fare un forestiero per bene. Ma ero fioco in verità, e anche il sor Cosimo mi tenne scusato quando rifiutai di entrare terzo con lui e lo Stelloni nelle antifone. E i miei ammiratori devono esser restati male sul serio allorché, stando sempre a guardarmi dopo che era finito ogni cosa, mi videro sfilare con gli altri in canonica, dove il Piovano volle per forza, se no se ne sarebbe avuto per male, che si pigliasse un dito d'aleatico. Il Proposto delle Sièpole attaccò la briscola con tre contadini, e noi ci movemmo per venircene... «A meno che», mi disse il sor Cosimo, piantandomisi in faccia a squadrarmi con occhi supplichevoli, «a meno che per una nottata, lei non voglia...». «E impossibile!» E lo dissi con tanta forza che dopo me ne rincrebbe, perché a questo rifiuto che gli tirai in faccia come un insulto, rimase lì mogio mogio senza alitare. «Non credevo... d'averlo offeso... mi scusi.» Povero diavolo! aveva ragione. Gli feci due carezze scherzevoli, e mi ci volle poco a rimettergli l'animo in pace. Infatti, appena usciti sul cimitero, si fermò al primo banco di brigidini e volle per forza empirmi le tasche, ficcandoceli da sé a manate. L'ora si faceva tarda. Attraversando di nuovo la piazza, il dottore mi salutò accennandomi che ormai ci saremmo riveduti a Firenze e tirai avanti come un reo d'alto tradimento che di mezzo alla forza vede i parenti e gli amici che gli tendono addolorati le braccia, e non gli è concesso né un bacio né un abbraccio prima di lasciarsi forse per sempre. Mi voltai indietro e vidi da lontano l'amico che mi diceva: «Addio, addio!». Gostino aveva già attaccato, e a quella vista mandai un sospiro di tale compiacenza che mi parve di sentirne subito i benefizi anche nel fisico. E veramente ne avevo bisogno perché ero in uno stato da far compassione. Non mi reggevo quasi più ritto da quel moto ozioso e continuo di tutta la giornata; non stavo bene di stomaco e la ragione si capisce; la testa mi bruciava e me la sentivo come impiombata. Ma il sospiro m'ebbe a restare attraverso quando, nel tempo che m'accomodavo sul calesse la signora Flavia mi si accostò tranquilla tranquilla, e cominciò a dirmi, stando gli altri di casa immobili a sentire: «Ecco, giacché lei è tanto garbato, vorrà farci un piacere. Guardi, qui gli ho fatto anche la noticina perché non s'abbia a scordare di nulla». E lesse alla luce del crepuscolo: «1° Portare da quell'occhialaio dal Canto alla Paglia gli occhiali della sora Amalia perché ci rimetta il vetro rotto... Gli ha in tasca Gostino e alla stazione glieli darà. 2° Quattro metri... o se no sette braccia... come crede meglio... di roba come quella del su' vestito, e mandarla giovedì per il procaccia... ». «O della pania gliel'avete messo, Flavia?» «Ci ho messo tutto. Ora state zitto... per il procaccia che rimette subito fuori della porta San Frediano dove sopra c'è scritto: Rimessa e stallaggio.» «O del vino?», domandò il sor Cosimo. «Eccolo qui subito: 3° Dire allo Scatizzi vinaio di Borgognissanti - lei lo conoscerà di certo - che se volesse un 'altra barrocciata di quel vino, ora ci sarebbe ». «Ma dunque della pania e del frusone ve ne siete scordata!», disse impaziente don Paolo. «Eccovi servito anche voi: 4° Tre libbre di pania da quello in quella traversa di via Calzaioli che va in Ghetto... Il pentolo l'avete messo in cassetta, Gostino?». «Sissignora; ma si spiccino, se no si fa tardi.» «5° Un frusone da portarsi al Priore di San Gaggio. L'avete preso, Gostino?» «Padron Paolo, sì. È lì sotto legato alla sala.» «E me lo saluti, sa?», mi disse don Paolo; «e glielo dica che io n'ho presi quindici oggi, e che mi mandi a dire che cosa fanno a quelle tese laggiù.» «E qui», disse la signora Flavia, accennandomi un fagotto voluminoso dietro al calesse, «qui gli ci ho messo un po' d'insalata di campo, che lei ha detto dianzi che anche a casa sua gli piaceva tanto.» «Ma io... veramente... Grazie, signora Flavia... grazie, signori...» «E questo», accostandomisi la signorina Olimpia, «questo vorrà tenerlo per mio ricordo.» E mi consegnò un foglio piegato in quattro, stringendomi con tre scosse la mano, e: «Buon viaggio!...». «Arrivederlo.» «Buon viaggio.» «Si ricordi di noi.» «Ci compatisca.» «Torni presto...» Gostino dette un pizzocotto alla cavalla, e via di galoppo. «Come vòl che vada? Dieci lire al mese, eppoi vorrebbano anco la pelle, Dio der Cielo!» «Il tempo è bono, sissignore.» Appena fuori del paese, detti un'occhiata al ricordo della signorina Olimpia, e lasciai libero il petto a una di quelle risate capaci di rimettere a nuovo un cristiano. Era l'autografo del sonetto di quando vestirono abate il figliolo del Calamai.
Note:
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