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Renato Fucini Le veglie di Neri IntraText CT - Lettura del testo |
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Dolci ricordi
Ed anche lui è morto! Sotto quell'aspetto mite e sereno, sotto quel sorriso che, tra gli amici, gli brillava fisso nei piccoli occhi azzurri, tutti credevano ad un'anima lieta e spensierata; nessuno, tranne io, ad un carattere pensoso e forte. A dodici anni lasciò, per gli studi, la casa paterna e, solo, lontano da' suoi, in quell'età nella quale, pur vagheggiando lo spazio, sentiamo sempre il bisogno d'esser covati dalla mamma come rondinotti prima di fidarsi al volo, dovette avventurarsi nel turbine della vita a farvi da uomo quasi innanzi d'esser ragazzo. «Ma fu la mia salute e vinsi!», mi diceva spesso con orgoglio, «vinsi, perché armato, fino dall'infanzia, di quell'educazione larga ma onesta, qualche volta romantica ma sempre vigorosa, che i nostri vecchi liberali davano ai loro figli, allevando uomini forti d'animo e di braccio, non ganimedi parrucchieri ed isterici.» «O senti», mi diceva una notte mentre lo vegliavo ammalato, «senti un saggio originale del metodo, una scenetta di famiglia che, dopo tanti anni, ho sempre fresca qui nella memoria fra i miei ricordi più dolci. Mio padre, medico in un comunello di montagna, guadagnava, quando io ero ragazzetto, cinque paoli al giorno, che oggi sarebbero due lire e ottanta centesimi. Coi miseri incerti di qualche consulto, di qualche operazioncella e di qualche visita fuori della condotta si può calcolare che il suo guadagno arrivasse a circa quattro lire, piuttosto meno che più. Con queste doveva mantenere decorosamente la sua famiglia, un cavallo, un servitore, e me all'Università... Vado per le leste e perché sento che il discorrer troppo mi aggraverebbe il petto e tu forse ti annoieresti. Una sera dopo le vacanze del Natale, avevo allora diciassette anni, torno a Pisa con la mia mesata d'ottanta lire nel portafogli. Il rivedere gli amici mi mette allegria, vado a cena con una brigata di quei bontemponi, bevo, mi elettrizzo, giro cantando per le vie della città fino ad ora tarda, e da ultimo casco in una casa da giuoco, dove in un paio d'ore lascio tutta la mesata, più trenta lire di debito con un amico che me le prestò. Una piccolezza, se vogliamo, ma una piccolezza che per le condizioni della mia famiglia era grave, forse troppo grave. Arrivato nella mia cameruccia, mi buttai sul letto, ma non potei dormire. Sbuffai, mi svoltolai continuamente senza trovar riposo. Ebbi qualche breve dormiveglia, ma fu peggio. Brillanti, assassini, miniere d'oro, coltellate, mostri paurosi, corse a perdita di fiato per deserti a perdita d'occhio, urli, fischi, imprecazioni... sognai un po' di tutto; e finalmente un grande scossone e tanto d'occhi spalancati, grondante di sudore. «Che si fa?», pensavo. «Chiedo a qualche amico? Scrivo a qualche parente? a mia madre? a mio...? Ah!... qui bisogna uscirne presto. Un atto di contrizione, un po' di dramma, quattro urlacci, due tonfi, magari... e perché no? magari una fitta di scapaccioni, e tutto è finito, e non ci si pensa più.» Salto giù dal letto, mi faccio prestare pochi soldi dal primo amico mattiniero che incontro, mi rincantuccio in un vagone di terza classe, e via a casa. Il viaggio mi fece bene. Parlai continuamente di politica, di guerra e di donne con un associatore di libri che andava a Signa, ed ebbi dei momenti nei quali, sognando sul serio gloria, armi ed amori, in faccia al mio associatore che mi guardava, stava zitto e fumava la pipa, dimenticate le mie miserie, mi sentii quasi orgoglioso d'aver anch'io la prima bravata da raccontare. Ma quando vidi spuntare fra i boschi la torre del mio paesello, eppoi il tetto della mia casa e il fumo che usciva dalla torretta del suo cammino, la baldanza mi cadde e sentii le gambe che mi tremavano. Quand'arrivai a casa, mio padre non c'era. Mia madre si spaventò perché, vedendomi pallido, mi credette malato. «Non ho nulla, sto bene... proprio sto bene.» Il suo viso si rasserenò subito e, fatta forte da questa buona certezza, ascoltò abbastanza tranquilla, mentre preparava il desinare, il racconto che le feci dal canto del fuoco, dove m'ero rannicchiato, scaldandomi alla fiamma che schioccava allegra sotto un paiolo di rape. Quando ebbi terminato: «Figliolo!... io ti domando come si deve fare a dirlo a quell'omo!», esclamò guardandomi sgomenta. Poi dopo una lunga pausa pensosa: «È impossibile! Come vuoi che faccia a renderti ora una mesata, se ce n'ha appena tanti per andare avanti noi?!... Trovarli!... E dopo?... Non c'è carità, in questo momento non c'è carità... Gli sta peggio quel malato e pare che vada a morire...» Io stavo zitto a guardarla, lei si chetò. Il tepore del mio nido, la stanchezza e il mugolìo del vento su per la gola del camino mi conciliarono il sonno e, senza accorgermene, mi addormentai col capo appoggiato sulla spalliera della seggiola. Quando mi destai, vidi mio padre seduto dall'altra parte del focolare, che si asciugava alla fiamma i calzoni fradici di pioggia. Pareva stanco ed era pallido. Tossiva malamente ed aveva schizzi di fango fino sulla faccia. Sentendomi muovere, alzò la testa. «Buon giorno, babbo.» «Buon giorno», mi rispose. E non mi disse altro. Dopo qualche momento si alzò, disse a mia madre d'affrettare il desinare perché aveva bisogno d'escir subito, e andò in camera sua. «Glie l'hai detto?», domandai trepidante a mia madre. Essa mi accennò di sì. «Che ha detto?» «Ha domandato come stavi e s'è messo a leggere.» Il desinare fu nero. I miei vecchi barattarono fra loro poche parole d'affarucci di famiglia, ed io, sempre aspettando una tempesta, che mi avrebbe fatto tanto bene al core per votarlo d'urli, di bile e magari di pianto; per vedere se in una sfuriata trovavo la gretola di non avere tutto il torto io, ebbi a rimanere gelidamente trafitto dalle poche parole che nel tòno usuale e quasi con amorevolezza mi rivolse mio padre. «Beppe l'hai veduto?» (era un suo vecchio compagno di studi che io avevo sempre l'incarico di salutare quando andavo a Pisa). «No...» «Domattina partirai col primo treno... Ti chiamerò presto perché dovrai andare alla stazione a piedi... Del cavallo ne ho bisogno io.» «Sì.» Finito il desinare, andò via. Tornò a sera inoltrata, prese un boccone e andò a letto, dopo avermi fatto con gli occhi stanchi una burbera carezza. La mattina dopo, mi svegliò alle cinque. Era buio, freddo, vento e nevicava forte. Quando uscii di camera, mia madre, già alzata, mi aspettava per dirmi addio. «Gli ha lasciati a te i quattrini?» le domandai sotto voce. «È là fòri che ti aspetta.» Corsi sulla porta e alla luce della lanterna con la quale il servitore ci faceva lume, lì davanti, mio padre già a cavallo, immobile, rinvoltato nel suo largo mantello carico di neve. «Tieni» mi disse, parlando rado e affondandomi ad ogni parola un solco nell'anima. «Prendi... Ora è roba tua... Ma prima di spenderli!... Guardami!...», e mi fulminò con un'occhiata fiera e malinconica. «Prima di spenderli, ricòrdati come tuo padre li guadagna.» Una spronata, uno sfaglio, e si allontanò a capo basso nel buio, tra la neve e il vento che turbinava.
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