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Giuseppe Giacosa Una partita a scacchi IntraText CT - Lettura del testo |
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PROLOGO
Di questa fiaba in versi ho tolto l'argomento Da una romanza scritta circa il mille e trecento. A dire il vero, in calce la data non ci sta, Epperò nei cent'anni spaziate in libertà. Mezzo secolo prima, mezzo secolo poi, A me non giova nulla, e poco importa a voi. La romanza era scritta in lingua provenzale, In quel metro monotono, cadenzato ed eguale, Che infastidisce i nervi qual tocco di campana: Ma in quella cantilena, per dissonanza strana, C'era un fare spigliato, un'andatura snella, Che mi costrinse a leggerla ed a trovarla bella. Qui calza una parentesi. - Non vorrei che il lettore Avesse per sua grazia a credermi impostore, Pensando che allo scopo di accrescere l'effetto, Accollassi ad un altro le mende del soggetto. - Benché un poeta in genere a nessun sia secondo Nel mestiere invidiabile di fare il gabbamondo, E benché di siffatti artifizi dolosi Anche Manzoni adopri là nei Promessi Sposi, E benché se allo scritto mi tornasse efficace, Io pure vi confessi che ne sarei capace, Tuttavia questa volta vi prego, e son sincero, Di credere che quanto v'ho raccontato, è vero. Era un giorno d'autunno. - Singolare stagione Che v'annebbia il cervello in barba alla ragione, Sia vapor di vendemmia che impregna l'atmosfera, Siano i fumi che i prati esalano alla sera, Sia la pioggia imminente che vi serpe nell'ossa, O sia un presentimento lontano della fossa: Fatto sta che i pensieri mutano di colore A sembianza di foglie sovra il ramo che muore. - Ero solo, adagiato, - ma che dico: adagiato! Nella lunga poltrona stavo lungo sdraiato Cogli occhi semichiusi e con un libro in mano, Semichiuso ancor esso. - Mi giungeva di lontano Grida, canti e clamori di villici. - Imbruniva. - Pei fessi delle imposte filtrava un'aria viva Che pareva dicesse: L'inverno è qui che viene. - Io non muovevo palpebra, quantunque nelle vene Mi serpeggiasse il freddo, ma, sia pigrizia o grillo, Sopportavo quei brividi, pure di star tranquillo. La stanza parea enorme, tanto era vuota e bruna. - Di tratto in tratto, a sbalzi, una mosca importuna Borbottava per l'aria misteriosi metri, Poi dava scioccamente della testa nei vetri - Le tende alla finestra frusciavano inquiete... Racconto queste cose, perché, se nol sapete, Noi poeti, sovente, non siam noi che scriviamo, È il vento che fa un fremito correr di ramo in ramo, È una canzon perduta che pel capo ci frulla, È il fumo di un sigaro, è un'ombra, è tutto, è nulla, È un lembo della veste di persona sottile, È la pioggia monotona che scroscia nel cortile, È una poltrona morbida come sera d'estate, È il sole che festevole picchia alle vetriate, È delle cose esterne la varia litania, Che fe' rider Ariosto e pianger Geremia. - Stavo dunque soletto, cogli occhi semichiusi E la mente perduta in fantasmi confusi, Aveo smesso di leggere per sonnecchiare, ed era L'autunno, ve l'ho detto, e per giunta, la sera. Il libro raccontava storie vecchie e infantili Di castelli, di fate, di valletti gentili. Talora licenzioso nei motti, ma coll'aria Di un nonno che sorrida con malizia bonaria. È strano come in quelle pagine polverose L'amor sia schietto, e tutte le vicende festose. - Si direbbe che il tempo, inflessibile a noi, Abbia corso a ritroso per tutti quegli eroi. Le mura dei castelli son corrose e infrante, E suvvi ci si abbarbica l'edera serpeggiante. Son mozzate le torri, i merli son caduti, Le sale spaziose i bei freschi han perduti; I camini giganti dall'ali protettrici Son colmi di macerie, stridon sulle cornici I più grotteschi uccelli: ma sereni, sicuri, Più forti che le torri e più saldi che i muri. Quelli uomini di ferro d'ogni mollezza schivi Si parano alla mente baldi, parlanti e vivi. - Son là, coll'armi al fianco, col grifalco in mano, Ieri: leon di guerra, ed oggi: castellano. Ignoranti di patria, di libertà: capaci Di morire per un nome od un paio di baci. Con tre motti stampati nel cuore e nella mente: Il Re, la Dama, Iddio; e su questi, lucente Come un sole a meriggio, una grande chimera, Legge informe, malcerta, prepotente, severa, Assoluta giustizia o generoso errore, Inflessibile al pari del cristallo: L'onore. - Allora tu dell'armi infra i disagi grevi Santa della famiglia religion splendevi. Allor, scoperto il capo e muti i circostanti, Il Padre, il vecchio, il sire, colle mani tremanti Benediceva al figlio, padre a sua volta, ed era Quell'atto più solenne di qualunque altra preghiera. E sapeva il vegliardo, chiudendo a morte il ciglio, Che presso alla sua tomba c'era un marmo pel figlio, E che il figlio del figlio, lattante bambinello, Dell'avo un dì sarebbe sceso anch'ei nell'avello; E pareva dicesse con sorriso estremo: Non sospiri, non lacrime, un dì ci rivedremo. E che vivi racconti nelle sere invernali! Fanciulle dai capegli d'oro, draghi coll'ali, Visioni, fantasmi, amori sventurati Che chiamavano le lacrime su quei volti abbronzati. O storie di battaglie, d'amor, di cortesie, Nuvolette vaganti per quelle fantasie, O sereni riposi dopo l'aspre fatiche, O cortili ingombrati dai cardi e dalle ortiche, O gotici leggii, o vetri istoriati, O figlie flessuose di padri incappucciati, O sciarpe ricamate fra l'ansie dell'attesa, O preludi dell'arpa, o nenie della chiesa, O mura dei conventi malinconici e queti, Celle di sognatori, di santi di poeti, Voi dell'arte e dei sogni siete i lucenti fuochi, Voi vivi solamente nel rimpianto dei pochi. Il tempo onde nessuna umana opera dura, Ammorbidì i profili della vostra figura, Ma il secolo correndo nella prefissa via, Voi, soavi memorie, voi, caste fedi, oblia. A poco, a poco intorno la notte era discesa. Scossi via la pigrizia. - Dalla lampada accesa Piovve un raccolto lume sulle pagine mute Che aspettavano il frutto di tante ore perdute, Ed io dalla romanza scritta il mille e trecento Di questa fiaba in versi ho tolto l'argomento.
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