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Anton Francesco Grazzini
La strega

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ATTO SECONDO

 

Scena prima - Taddeo padrone, Farfanicchio ragazzo

 

TADDEO. Tutte le pene, tutte le catene e tutte le sbarre del mondo non mi terrebbono che io non andassi via oggi: costoro mi menano per la lunga, credendosi avere a fare con qualche Neron; che ne di' tu, Farfanicchio?

FARFANICCHIO. Dico di sì, padrone: mostrate pur loro che voi sete un uomo, e non un'ombra.

TADDEO. L'arme sono in punto?

FARFANICCHIO. Signor sì, nette e pulite.

TADDEO. Or sì, Farfanicchio, tu cominci a frizzare; dammi pur di quel signore per la testa; ma che diavol vuol dir questo, che quando io son teco ognun ride?

FARFANICCHIO. Non lo so io.

TADDEO. Togli! e pur ridono: questo non mi avveniva però quando io andava fuori col Gonnella; io ho voglia di cacciarti via e di ritor lui.

FARFANICCHIO. Fatene come di vostro.

TADDEO. Questa risata non mi piace: a dispetto del vermocane, per la puttana del canchero! che, se io avessi l'arme a canto, io farei qualche gran male. Oh, che maladetto sia il cielo! Farfanicchio, tu mi debbi far dietro qualche chiacchera!

FARFANICCHIO. Mi maraviglio della signoria vostra: credete voi però che io sia matto?

TADDEO. Che ne so io? poiché io veggio ognuno ridere, egli è forza che tu mi dia il pepe, la monna o il gongone, o che tu mi faccia dietro bocchi, ceffo o grifo.

FARFANICCHIO. Misericordia! che diavol dite voi? nessuna so far di coteste cose: elle dovevano usarsi già al tempo di Nicolò Piccinino, o al tempo di Bartolomeo Coglioni.

TADDEO. A tempo mio s'usavano, che non son però l'antichità di Brescia, innanzi l'assedio, che io era fanciullo.

FARFANICCHIO. Tant'è: nonché io sappia far cotesti giuochi, io non gli ho mai più sentiti ricordare.

TADDEO. Vuoi tu che io te l'insegni?

FARFANICCHIO. Di grazia, io ve ne resterò obbligato.

TADDEO. O stammi a vedere, e pon mente bene: questo è grifo; così si fa ceffo, e questo è bocchi.

FARFANICCHIO. O buono, o buono, o buono!

TADDEO. A questo modo si da il pepe o le spezie; questa è la monna; e così si il gongone.

FARFANICCHIO. Gala! disse il Frizzi: queste sono altre che chiacchere e novelle!

TADDEO. Io te ne farei mille, tutte più belle l'una che l'altra.

FARFANICCHIO. Cacalocchio! per fare cose da fanciulli e da bambini voi dovete essere il Teri.

TADDEO. Che vuol dire il Teri o non Teri? e chi fu questi Teri?

FARFANICCHIO. Che ne so io? dovette essere qualche grand'uomo filosofo, dottore o poeta.

TADDEO. Tu lo sai bene! Il Teri giocava agli aliossi a suo tempo meglio che giovane di Firenze, come faceva io a' ferri, che non si diceva altro che Taddeo; ed aveva una detta che squillava gli aguti cinquecento braccia discosto.

FARFANICCHIO. Ah, ah, ah, ah!

TADDEO. Tu ridi?

FARFANICCHIO. O chi non riderebbe ai giocacci che voi contate?

TADDEO. Giocacci gli aliossi e i ferri?

FARFANICCHIO. Dalle carte e i dadi in fuori...

TADDEO. Che carte e che dadi? Il giuoco de' ferri ha tanti capi che tu ti meraviglieresti, e tra gli altri il buco a capo alla punta, e in terra peggio, e poppa lo stecco, passano battaglia. Ma favellare con chi non intende è uno gettar via le parole, perché questo bel giuoco, con molti altri, è ora spento affatto.

FARFANICCHIO. Che? voi ne avete degli altri begli simile a questo?

TADDEO. O caro! Che mi di' tu? e a tempo mio erano i giuochi ordinati secondo le stagioni e i mesi: chiose, spilletti, trottola, paleo, soffio, giglio o santo, mattonella, meglio al muro, verga, misurino, aliossi, rulli, ferri, e cento altri, che tutti erano giuochi da perdere e da vincere; ma quegli che si facevano per passatempo e per piacere erano bellissimi, che sono oggi quasi tutti quanti perduti.

FARFANICCHIO. Deh! contatemene qualcuno, che voi mi fate strabiliare.

TADDEO. Si bene; ora ascoltami.

FARFANICCHIO. Dite pure.

TADDEO. Salincerbio, salta la spiga, metti l'uovo, mosca cieca, pigliami topo, alla foglia, al becco manomesso, a gallinenvenvella, a bicicalla calla quante corna ha la cavalla; che diavol ne so io?

FARFANICCHIO. Cacasevo! oh! voi sete sì innanzi? oh! voi potresti gagliardamente fare una lettura a veduta, e leggerla a mente nell'Accademia.

TADDEO. Che parli tu d'Accademia? egli è un tempo che io ne sarei stato, se io avessi voluto: lo Stradino mi pregò cento volte che io volessi entrare negli Umidi, allora che ella era favorita daddovero, ma non v'ebbi mai il capo.

FARFANICCHIO. Che lo avevate alla guerra?

TADDEO. All'amore e alla Geva, alla Geva e all'amore ebbi sempre volto il cuore; e per dirti, io vo ora alla guerra per non potere far altro; o io morrò glorioso morendo milite, o io ritornerò bravo, bravo di sorte che ella arà di grazia di essere mia; e forse mi uscirà della mente; qualcosa fia: a questo modo non posso io stare.

FARFANICCHIO. Voi la discorrete bene e saviamente.

TADDEO. E vo' che noi andiamo or ora a vedere se noi troviamo due cavalli per Bologna; e avviatigli alla porta, torneremo a sciolvere, armerenci e anderen via.

FARFANICCHIO. Buona, anzi ottima pensata ha fatto la signoria vostra.

TADDEO. Ahi, Farfanicchio mio, quella signoria ha il buono: non te la sdimenticare. Ma che diavolo mi fai tu dietro? tu vedi come costoro ridono di cuore.

FARFANICCHIO. Mi par ch'egli abbino riso sempre.

TADDEO. Vanne un po' dinanzi.

FARFANICCHIO. Ah, ah, signore, non si conviene alla signoria vostra andar dietro al ragazzo.

TADDEO. Andianci con Dio almeno.

FARFANICCHIO. A vostra posta.

TADDEO. Su, alto, andianne alle faccende, seguitami di buon passo, e chi vuol ridere rida.

FARFANICCHIO. Pur l'avete intesa, la signoria vostra.

 

 




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