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Giuseppe Mannarino La ragion d'essere della filosofia IntraText CT - Lettura del testo |
Ci si presentano ora altre tre possibili accuse alla Filosofia, le quali, pur venendo da uomini di studio, non possono elevarsi dalla volgarità per l'unilateralità con cui vengono formulate: a) La Filosofia è atea o almeno irreligiosa perché la Religione non può rinunziare ai suoi dogmi che trascendono necessariamente l'attività del pensiero - mentre la Filosofia, essendo attività costante del pensiero, ripugna dal fermarsi in alcune formule che, costituendo il pensato, non possono aver più valore filosofico; b) La Filosofia è antiartistica, perché il pensiero, per la sua coerenza e concretezza, deve necessariamente imporre alla sua attività un rigore logico che esclude ogni attività fantastica che, come tale, si esprime nell'irrazionale; c) La Filosofia è antiscientifica perché la Scienza si propone come fine immediato l'assoggettamento della Natura all'Uomo pei bisogni di questo, mentre la Filosofia, per il suo carattere di universalità, deve necessariamente prescindere dalla immediatezza di questo fine.
È necessario a questo punto ricapitolare le conclusioni cui siamo giunti, non per fissarle in formule e fermarci su di esse, ma per procedere oltre nella nostra esposizione. Se noi infatti siamo finora riusciti al nostro assunto, è chiaro: a) che la ragion d'essere della Filosofia trova la sua spiegazione nella identificazione della Filosofia stessa con l'Umanità e quindi col pensiero; b) che l'Umanità e quindi il Pensiero, per il fatto d'essere attività contante, sono Storia; c) che il Pensiero, per la sua coerenza e concretezza, non può svolgersi disordinatamente, caoticamente, ma ha un suo rigore logico consistente nel suo ordinarsi in sistemi, cioè nel suo concretizzarsi storicamente; d) che la successione dei sistemi ha un valore logico, ma non cronologico - come vorrebbe il Comte, male interpretando il Vico - essendo possibile anzi necessaria la coesistenza nel tempo ed anche nello stesso pensatore di diversi atteggiamenti del pensiero - anzi derivando l'originalità stessa del pensatore non già dal cristallizzarsi in un atteggiamento (ché in tal caso sarebbe un mediocre) ma dal modo in cui il pensiero accorda questi atteggiamenti diversi.
Ora noi abbiamo presentato come atteggiamenti fondamentali del pensiero, cioè come principali sistemi filosofici, quattro momenti storici dell'attività del pensiero stesso: il dogmatico, lo scettico, il critico ed il conclusivo o idealista, facendo però le nostre riserve - su cui adesso è necessario insistere - sul significato classificazionista che potrebbe attribuirsi a questa pretesa distinzione e su queste riserve insistiamo sia per l'impossibilità di classificare degli uomini i quali, per il fatto che pensano, classificano e non possono essere classificati, sia perché - ripetiamo - è impossibile la non coesistenza nello stesso pensatore dei quattro momenti su cennati.
Tornando ora all'accusa di ateismo, di irreligiosità rivolta in tutti i tempi dai fedeli delle Religioni positive a tutti i filosofi, da Socrate a Bruno, al Gentile, essa non ha che il valore di un'opposizione tra Filosofia e Religione e pertanto può reggersi solo se e fintantoché si regga questa opposizione.
Ma, avendo noi provato che la Filosofia si identifica con l'Umanità e col Pensiero, l'antitesi tra Religione e Filosofia si risolve in un'antitesi fra Religione ed Umanità e Religione e Pensiero, cioè in un'antitesi assurda in quanto non potrebbe esser posta che dal pensiero in quanto pensa: in tal guisa infatti verrebbero a coesistere nel pensiero in quanto attività la Religione ed il Pensiero - considerati entrambi come pensato - e quindi l'antitesi si risolverebbe, sia pur negativamente, in un superamento della Religione e della Filosofia da parte del Pensiero. Ciò è quanto dire che l'accusa verrebbe ad essere più... atea della Filosofia stessa.
Ma antitesi fra Religione e Filosofia non può esservi, non solo storicamente, perché i più grandi religiosi furono contemporaneamente i più grandi filosofi e viceversa, ma neanche logicamente perché la Religione - sia guardata sotto il suo aspetto universale di sentimento religioso, sia sotto quello particolare dl religione positiva - non ha valore se noi la consideriamo indipendentemente dagli uomini che la professano, cioè indipendentemente dalla loro attività teoretica e pratica; cioè non ha valore se non la consideriamo concretizzata nella Storia, cioè ordinata nelle Religioni positive e la riduciamo in formule catechistiche ed in un culto esteriore che non trova rispondenza alcuna nel pensiero.
Partendo quindi da una premessa che oppone Religione a Filosofia, noi siamo invece arrivati ad identificare l'una e l'altra sul terreno positivo, perché come la Filosofia - considerata come attività del pensiero - è Umanità, è Pensiero, è Storia; così la Religione, interpretata come attività del pensiero che sente la sua debolezza e si autolimita con la credenza in un'autorità superiore, è Umanità, è Pensiero, è Storia. Umanità perché l'Uomo non possiede il Sapere di cui come abbiam detto, va continuamente in cerca ed è convinto di questo non possesso (convinzione che vale riconoscimento della propria limitatezza, il che non sarebbe possibile - per dirla col Cartesio - senza la presenza nell'uomo e quindi nel pensiero della certezza dell'illimitato, cioè di Dio); Pensiero perché fuori del Pensiero non può esistere - se pur esiste indipendentemente dal Pensiero - che il pensato, cioè le formule che, nel caso della Religione, consisterebbero nell'esteriorità del culto; Storia perché, come abbiam detto, la Religione si concretizza storicamente nelle Religioni positive, senza di che sarebbe alcunché di astratto e di caotico, perché è impossibile considerare la Religione fuori del suo ambiente storico e geografico in cui sorse ed ebbe il suo sviluppo.
Raggiunta quindi l'identificazione sul terreno positivo, crediamo opportuno rinunziare al suo raggiungimento sul terreno negativo poiché crediamo di far torto al nostro buon lettore, tediandolo colla dimostrazione che il culto esteriore osservato sia pure scrupolosamente, indipendentemente dall'atto del pensiero che lo pensa, esula completamente dalla Filosofia, ma esula anche e completamente dalla Religione, riducendosi alla famosa morale di padre Zappata.
Ora, raggiunta l'identificazione fra Filosofia e Religione, sarà bene vedere i termini dell'identificazione stessa: perciò ritorneremo un po' sui fondamentali atteggiamenti dello spirito, fermandoci sui primi due: il dogmatico e lo scettico.
Ripetiamo che, se per noi tutto ciò che ci offrono i sensi è vero, indipendentemente da ogni nostra considerazione sulla nostra attività sensoriale, sarà vera ogni proposizione ed il suo contrario, data la imperfezione dai nostri sensi e l'unilateralità delle sensazioni (si veda a pag. 12 l'esempio del nano e del gigante): cioè sarà vero tanto il vero quanto il falso. Ma qui è implicito lo scetticismo che con Protagora affermerà che l'Uomo è misura di tutte le cose per cui vi sono tante verità quanti individui, anzi vi sono tante verità quante sono le sensazioni di ogni individuo. Viceversa dallo scetticismo noi siamo subito ricondotti al dogmatismo perché, una volta ammessa la relatività della conoscenza, noi cadiamo in una concezione assolutistica della relatività (pag. 18): per cui nulla ci vieta di invertire i termini e di definire scettici Talete, Anassimandro, ed Anassimene, dogmatici Protagora o Gorgia.
Da tutto ciò si vede che il pensiero ha bisogno di credere e di dubitare: di credere perché è impossibile che ogni uomo empirico faccia da capo tutta l'esperienza che è tutta la Storia, di dubitare perché lo stesso continuo svolgimento storico del pensiero ci avverte che il pensiero ha infinite tappe da percorrere, ma non ha alcuna meta prestabilita da raggiungere e tende a superare sempre se stesso; ma è anche evidente che nel credere è implicito il dubitate come nel dubitare è implicito il credere - e ciò anche prima che lo avessero detto S. Agostino e Cartesio.
Ora questi due momenti storici dell'attività del pensiero, li ritroviamo alla base di ogni religione positiva per il fatto che ogni Religione ha come movente, sotto l'aspetto negativo, il dubbio in quanto presuppone l'autoriconoscimento da parte del pensiero della propria limitatezza, e la credenza nell'esistenza dell'illimitato; ma dubbio e credenza, cioè momento scettico e momento dogmatico sono intimamente legati fra loro al punto da costituire un momento unico perché il pensiero non potrebbe aver la certezza del proprio limite se non fosse in esso immanente l'idea dell'illimitato, cioè, in parole povere, non avrebbe ragione di dubitare delle proprie forze senza avere un criterio di certezza che giustificasse il suo dubbio. Parimenti questa certezza dell'esistenza di alcunché d'illimitato che, pur trascendendo il pensiero, è in esso immanente non avrebbe ragion d'essere senza che il pensiero avesse motivo di dubitare delle proprie forze.
Ma, se ogni Religione ha il suo momento dogmatico ed il suo momento scettico, essa non può confondersi con uno o più di quelli che sono i suoi momenti storici essenziali, proprio come la Filosofia non può confondersi coi sistemi Filosofici (si veda a pag. 19): pertanto i dogmi non possono costituire l'essenza della Religione, come le formule filosofiche non costituiscono l'essenza della Filosofia. Sono piuttosto gli uni e le altre delle tappe che il pensiero deve percorrere, ma ove non può arrestarsi.
Ché infatti, come dicemmo, è impossibile valutare le formule filosofiche indipendentemente dal processo del pensiero di cui esse sono il prodotto: o esse si ripensano ed allora tornano ad essere pensiero che pensa, oppure si considerano come dei punti fissi che il pensiero non può superare ed allora diventano pensato che non è più pensiero. Lo stesso dicasi del dogma: o esso lo si accetta con convinzione, cioè in seguito ad un processo del pensiero, ed allora esso non è più qualche cosa di estraneo e di superiore al pensiero stesso - oppure lo si accetta come punto fisso insuperabile dal pensiero, ed allora l'accettazione è una pura finzione che nasconde quella tale paura d'indole empirica di... andar contro corrente, non accettandolo.
Ciò perché le formule filosofiche i filosofi non le trovarono belle e fatte, ma vi pervennero pensando, ed esse sono spesso delle proposizioni, grammaticalmente parlando, le più ingenue che i pseudo-filosofi trasformarono in formule. Così i dogmi non possono essere estranei all'attività del pensiero religioso che li ha creati esclusivamente per potersi svolgere storicamente: nel caso contrario la Religione non potrebbe storicamente svolgersi, avendo i passi sbarrati da ciò che doveva invece facilitarglieli.
Riconoscere dunque la fissità, l'eternità del dogma, ritenerlo cioè insuperabile da parte del pensiero è come porlo fuori dell'attività del pensiero, cioè come esteriorità, è - in altri termini - trasformare la Religione in un esteriore cui più non corrisponde l'assenso da parte del pensiero, cioè in un culto storicamente superato.
La Storia infatti ci dimostra come il Paganesimo fosse virtualmente finito - assai prima dell'avvento del Cristianesimo - allorché il Console Claudio Pulcro, lanciò nel mare i polli sacri che non volevano mangiare (indizio evidente della sciagura militare) esclamando: «Che bevano allora!». Infatti ciò prova come la Religione Pagana, fin da quel tempo, si fosse risolta in un culto esteriore che tutti rispettavano per non urtare la suscettibilità di chi fingeva di credervi, ma al quale nessuno prestava più fede.
Cosicché, in conclusione, come non basta la ripetizione meccanica di alcune formule filosofiche - prodotto dell'altrui pensiero, cioè pensato - per essere filosofi o seguaci di un pensatore, così non basta l'accettazione puramente verbale dei dogmi - senza l'atto di assenso da parte del pensiero - né la pratica più scrupolosa del culto religioso con l'osservanza più rigorosa di preghiere, riti ed esorcismi, quando ciò non risponda ad un atto del pensiero, per essere seguaci di una religione positiva od anche semplicemente religiosi, ché anzi il più delle volte avviene il contrario, e quanto più ci si attacca alla lettera, cioè al dogma di una Religione positiva, tanto più si è lontani dallo spirito.
Avendo identificato la Religione con la Filosofia, essa dunque non può essere identificata da noi col dogma: la Religione, come la Filosofia, è Storia; il dogma è semplicemente un momento storico di una determinata Religione.
E ciò perché la Religione è, come dicemmo, l'atto con cui il pensiero limita se stesso in rapporto all'illimitato che è, al tempo stesso, trascendente ed immanente al pensiero - mentre i dogmi sono i prodotti storici, cioè momentanei, di questo atto limitativo.
Ora la Religione, essendo Storia, è eterna perché il pensiero tende sempre a superare se stesso, sempre si realizza e mai è realizzato: il pensiero dunque allargherà sempre i suoi limiti, ma non raggiungerà mai l'illimitato, ché in questo caso sarebbe periodo storico che può cominciare e finire, non Storia che non ha né principio né fine.
I dogmi, anche quelli cristiani, sono invece prodotti storici, cioè momentanei, dell'attività del pensiero che hanno - come tali - valore per un determinato tempo: sono dati storici della Religione. Alla formulazione dei dogmi non si pervenne - ce lo insegna la Storia - che dopo discussioni tutt'altro che serene nello stesso seno della Chiesa, dopo numerosi Concili in cui invano si tentò un accordo, dopo lotte fra Ariani ed Atanasiani, Manichei cristianizzati e Pelagiani, dopo scomuniche e ritrattazioni fino all'accettazione del quid medium tomista da parte Chiesa. Ora tutto ciò prova che essi non son nulla di estraneo e di superiore all'attività del pensiero, ma sono l'attività stessa del pensiero dei Padri della Chiesa, che diviene poi il pensato del tomistica e della neo-tomistica e neo-scolastica moderna.
Se però nella Religione noi non trovassimo che i due soli momenti dogmatico e scettico, non potremmo parlare ancora di identificazione con la Filosofia: ma in realtà il fatto che la Religione non è nulla di diverso dal Pensiero e che il Pensiero è critico nel senso che tende continuamente a superare le contraddizioni del pensato (pag. 11) - c'induce a credere che anche nella Religione noi possiamo trovare e troveremo il momento critico.
Noi infatti abbiamo detto che la Religione è Storia. Ora come si potrebbe giustificare la storicità della Religione se non con la sua criticità o autocriticità? Non solo la prassi, ma neanche la dottrina religiosa è alcunché di fisso e stabilito una volta per sempre, cioè per tutti i tempi e per tutti i popoli; e la necessità dell'organizzazione giuridica delle varie Chiese prova che - se apparentemente nulla può essere così contrario alla Religione come la critica - in realtà la vitalità della Religione è proprio nel suo potere autocritico che la rende attuale nel tempo e nello spazio. Ciò perché - ripetiamo - il Pensiero non può rinunziare alla critica senza rinunziare a se stesso e, identificandosi la Religione col Pensiero, o essa accetta la critica o si pone fuori del Pensiero, diventando esteriorità. Così allorché il Paganesimo rinunziò al momento critico - la critica si svolse all'infuori di esso con la Filosofia di Socrate, di Platone, di Aristotele che, se non è ancora Cristianesimo, non ha più i caratteri del Paganesimo, cioè il politeismo e l'antropomorfismo; così allorché il Cristianesimo, attaccandosi al pensato di Aristotele e della tomistica, tenterà opporsi alla critica - questa si porrà contro il Cristianesimo, nella sua forma cattolica, con Bruno e Telesio in Italia e con la Riforma in Germania.
Del resto il dogma considerato come prodotto storico dell'attività del pensiero è la migliore prova della presenza del momento critico e di quello conclusivo o idealistico nella Religione: poiché al dogma si perviene appunto attraverso il processo critico del pensiero che è evoluzione della coscienza religiosa dell'Umanità ed esso non può aver valore se non é accettato da questa coscienza stessa che è pensiero, cioè storia e quindi critica.
Ma in quanto il dogma conclude il processo storico esso è idea, prima di essere dogma: cioè la coscienza religiosa dell'Umanità, prima di tornare al momento dogmatico da cui era partita, deve necessariamente attraversare il momento idealista.
Se dunque il processo religioso dell'Umanità segue il suo stesso processo filosofico, cade la prima accusa alla Filosofia relativa al suo preteso ateismo, alla sua pretesa irreligiosità.
Ma, pur non reggendo al lume della logica, l'accusa di irreligiosità alla Filosofia, fondata naturalmente sulla pretesa antitesi tra Filosofia e Religione, l'accusa esiste e lo prova una lunga serie di elementi che va dalla condanna di Socrate per empietà, attraverso l'ostilità verso la Filosofia apertamente manifestata dai primi Padri della Chiesa latina, alle scomuniche di quelli che non la pensarono alla maniera ortodossa, al rogo di Bruno e di Huss, alle accuse di ateismo o simili che tuttavia si lanciano agli nomini di pensiero, cioè al pensiero in quanto avrebbe il torto di.... pensare. Ed è evidente che, se l'accusa esiste, deve esservi la ragiono che la giustifichi, ragione che se non è, né può essere nella Filosofia e nella Religione, per quel che abbiamo provato, sarà certo nella posizione mentale dei cosiddetti filosofi e dei cosiddetti religiosi in quanto uomini-empirici, cioè individui che nulla vedono e nulla vogliono vedere fuorché le proprie formule filosofiche o i dogmi ed i riti propri della credenza che dicono di seguire.
Dicevamo infatti a pag. 19 che, essendo in ogni sistema un residuo di dogmatismo, essi, (gli astri di seconda grandezza del Cielo filosofico) incapaci di creare a di sviluppare quelle che sono le parti vitali del sistema, trovano assai più facile e più comodo fermarsi su questi residui, cioè sulle formule, e dogmatizzare tutta la dottrina di un pensatore originale.
Ora, nel campo religioso, non avviene diversamente, poiché ad un certo punto dell'evoluzione storica di una determinata Religione positiva - e sarebbe precisamente il punto in cui questa Religione positiva, avendo espletata la sua funzione storica, si rivela incapace di ulteriore sviluppo e quindi di vitalità - i suoi sostenitori non hanno altro da fare che segnare il passo e prepararsi a dar l'alt.
Ora, quando si tien conto di ciò che del resto è implicitamente o esplicitamente ammesso da tutte le Storie delle Filosofie e delle Religioni, è più che ovvio che accordo in questo senso tra Filosofia e Religione non può esservi se non a patto che le formulo filosofiche ed i dogmi teologici coincidano perfettamente; ma ciò è assolutamente impossibile non solo perché le une e gli altri sono prodotti storici, e Storia significa sviluppo, significa dinamica e quindi nulla può concretizzarsi nella Storia, immobilizzandosi, ma anche e soprattutto perché - una volta provato il carattere storico delle formule e dei dogmi - bisognerebbe ammettere un moto isocrono del pensiero perché si avesse una perfetta coincidenza: di guisa che il cercar la conciliazione su questo terreno tra Filosofia o Religione è qualcosa che può far comodo a qualche filosofo militante che vuole sfruttare i vantaggi della conventicola senza andar contro la corrente religiosa, a qualche cosiddetto religioso che non intende rinunziare ai... benefici della propria fede senza pregiudicarsi la possibilità della cattedra - ma che non può trovare attuazione se non nel sacrificio della Religione alla Filosofia come nei cosiddetti Gentiliani o nel sacrificio della Filosofia alla Religione come nella Scolastica e nella Tomistica con le relative sfumature. La conciliazione reale si può raggiungere soltanto, secondo il nostro processo, nella identificazione di Filosofia e Religione, attraverso un risalire al principio fondamentale della dottrina filosofica o religiosa di un Maestro: ma, come abbiam visto, filosofi militanti e religiosi militanti non possono riconoscere alle loro dottrine rispettive quel carattere dinamico e genetico che le fa Storia perché, attraverso un processo siffatto, finirebbero col trovarvi la negazione e la condanna non solo della prassi, ma perfino della loro dottrina.
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Procediamo oltre: «la Filosofia è antiartistica perché il pensiero, per la sua coerenza e concretezza, deve necessariamente imporre alla sua attività un rigore logico che esclude ogni attività fantastica che, come tale, si esprime nell'irrazionale».
In questo momento di aspre polemiche nei riguardi dell'Arte, sarebbe assai comodo per noi, e non ci sarebbe forse difficile, toccare il Cielo con le mani, tenendo nelle medesime uno dei due.... Vangeli che, come ognuno che si diletti di Filosofia sa, sono «l'Estetica» del Croce o la «Filosofia dell'Arte» del Gentile: preferiamo invece mantenerci sul nostro livello terreno e non terremo conto di nessuna delle teorie estetiche oggi più o meno di moda.
Ora l'incompatibilità tra la Filosofia e l'Arte avrebbe la sua ragion d'essere nella coerenza e nella concretezza del pensiero, nel rigore logico cioè che il pensiero impone alla sua attività, cioè in altri termini la incompatibilità tra la Filosofia e l'Arte si risolverebbe in un'antitesi tra pensiero e fantasia.
Senza staccarci dal nostro metodo di dimostrazione per assurdo, diremo che una tale antitesi presuppone il fatto che la fantasia sia qualche cosa di estraneo, anzi di diverso e di opposto al pensiero; ma questo carattere dl estraneità, di diversità di opposizione non lo si può notare che pensando, per cui - essendo questo carattere stesso immanente al pensiero - non possono poi essere rispetto ad esso trascendenti i termini della estraneità, della diversità dell'opposizione, cioè il pensiero e la fantasia. Ed allora noi avemmo nel Pensiero immanenti il pensiero e la fantasia, come termini incompatibili tra loro, cioè avremmo un assurdo in quanto il primo pensiero (quello che abbiamo scritto con l'iniziale maiuscola) non è più un'antitesi colla fantasia, mentre il secondo non solo è in antitesi con la fantasia, ma è diverso anche dal primo pensiero cioè è pensato. Sicché l'antitesi tra fantasia e pensiero si risolve in antitesi tra prodotto dell'attività fantastica e pensato.
Passeremo ora alla parte positiva, alla identificazione cioè della Filosofia con l'Arte; difatti è ovvio che, se la fantasia non è nulla di estraneo, di diverso, di opposto al pensiero, essa non può essere altro che «pensiero».
Ma all'espressione «la fantasia è pensiero» noi non intendiamo attribuire il significato volgare secondo cui fantasia e pensiero sarebbero la stessa cosa perché in questo caso l'»espressione» diverrebbe definizione, cioè formula, e perderebbe quindi ogni valore filosofico, e quindi l'Arte costretta ad ubbidire alla logica rigorosa del Pensiero - non sarebbe più Arte, né la Filosofia, vagando nel campo dell'irrazionale come prodotto dell'attività fantastica, sarebbe più Filosofia perché il Pensiero perderebbe la sua concretezza e la sua coerenza.
Per raggiungere l'identificazione tra Filosofia ed Arte, sarà necessario precisare il valore dell'identificazione, per cui dobbiamo tornare ai quattro momenti storici essenziali dell'attività del pensiero, non però senza insistere sul fatto che a questa distinzione non si può dare alcun significato cronologico cioè empirico, né alcun significato classificazionista perché - come abbiamo dimostrato la successione dei vari momenti dell'attività del pensiero ha un valore logico, data la necessità della loro coesistenza nel tempo e nello spazio.
Sarebbe per noi indubbiamente più comodo, utilizzando ai nostri fini gli studi più recenti del Croce e del Gentile, partire dal concetto dell'Arte come imitazione degli antichi opponendolo a quello dell'Arte come creazione dei moderni, ma ciò renderebbe più difficile l'intelligenza della trattazione perché ci costringerebbe ad una lunga serie di citazioni. Seguiremo perciò la nostra via.
È dunque fuor di dubbio che i due primi moventi dell'Arte siano l'entusiasmo ed il dolore in quanto senza entusiasmo e senza dolore avremmo l'indifferenza e quindi l'opera d'arte verrebbe a mancare. Ora l'entusiasmo non e che il momento dogmatico dell'attività fantastica in quanto l'artista è, nello entusiasmo stesso, pervaso dalla sua rappresentazione che per lui non può che essere realtà obbiettiva, esteriore: certamente la critica, o meglio la pseudo-critica, specialmente quella filologica, troverà che la realtà obbiettiva (sic!) è diversa dalla rappresentazione dell'artista il quale ha completamente trasformato quella realtà, magnificando il valore di alcuni particolari, sminuendo l'importanza di altri, sopprimendo, aggiungendo - ma questa critica, anche se fu per lungo tempo ed è ancora padrona delle cattedre di Letteratura Italiana, non può che tradire ogni concezione dell'Arte, sottomettendo questa ai propri schemi mentali, peggio, alla propria mentalità. Perché il reale non è la pretesa realtà obbiettiva che l'artista si rappresenta, ma è lo stato d'animo dell'artista, è, in altri termini, l'attività fantastica; e l'obiettività della rappresentazione non dove essere intesa nel senso di un'adaequatio della rappresentazione stessa all'oggetto rappresentato ma una rispondenza di essa allo stato di animo. L'opera d'Arte è in altri termini reale in quanto è il prodotto di uno stato d'animo reale; è obbiettiva in quanto questo stato d'animo viene esteriorizzato sulla pagina scritta, sulla tela, sul marmo, nelle note musicali.
V'ha dunque un momento storico dogmatico nell'Arte che è costituito dall'entusiasmo, e che risponde perfettamente, nell'atto del pensiero, al momento dogmatico della Filosofia in quanto anche in questo campo, come abbiam visto, l'adaequatio intellectus et rei è solamente apparente e non reale.
Così diciamo del dolore che rappresenta il momento scettico nell'Arte in quanto nel dolore è la sintesi della irraggiungibilità di una meta: ora, benché il dolore nell'Arte soglia esteriorizzarsi nel lirismo, in realtà la sua vera esteriorizzazione avviene nella satira che è la rappresentazione della insoddisfazione dello spirito dell'artista. Giustamente oggi, per es., in mezzo alle panzane che la critica ha detto intorno al Leopardi, condannandolo all'incomprensione anche dopo morto, vi è qualche critico serio che parla di ironia leopardiana in quanto lo scetticismo artistico non può esprimersi che nell'ironia dissolvente e negatrice.
Ma, se noi guardiamo a fondo questi due momenti storici dell'attività fantastica, il dogmatico, caratterizzato dall'entusiasmo ed espresso soprattutto (ma non unicamente) dall'epica, e quello scettico caratterizzato dal dolore ed espresso soprattutto (ma non unicamente) dalla satira, non possiamo fare a meno di riconoscere che i due momenti si integrano e che non possiamo avere entusiasmo senza dolore, né dolore senza entusiasmo, non possiamo avere epica che non sia satira, né satira che non sia epica (ed è appunto ciò che c'induce a negare il valore classificazionista alla distinzione dei generi letterari). Infatti entusiasmo e dolore non sono termini antitetici, anzi essi hanno come elemento in comune l'opposizione della indifferenza, in quanto l'entusiasmo comprende e giustifica il dolore per il fatto che esso ha luogo solo in quanto alcune condizioni immanenti all'attività fantastica dell'artista ai sono verificate, ma presuppone necessariamente che queste condizioni potevano non verificarsi e che, non verificandosi, avrebbero dato luogo al dolore; così il dolore ha luogo in quanto non si sono realizzate alcune circostanze di cui l'artista è fervidamente entusiasta.
Per spiegarci con un es.: in Dante, il poeta della fede e dell'entusiasmo, noi non possiamo non notare il dolore che si esprime nelle sue invettive contro Pisa ed anche contro l'Italia - e ciò perché egli, fortemente amando, doveva fortemente odiare allorché l'oggetto del suo amore se ne rivelava, almeno momentaneamente, indegno; e così il Leopardi piange sui destini della Patria o dell'Umanità in quanto ha presente una Patria ed un'Umanità diverse da quel che vede e delle quali non può non essere entusiasta.
L'epica è dunque satira nel senso che, magnificando l'Ideale della propria attività fantastica, impiccolisce in un meraviglioso contrasto tutto ciò che all'Ideale si oppone: e così pone di fronte Agamennone, re dei prodi, ed il vile e comico Tersite; Menelao e Paride che sfugge alla sua vista; Ulisse l'eroe della volontà umana, e Polifemo che, nella sua brutale potenza è incapace di stritolare l'ingegno umano, e così via.
Dunque l'Arte nasce appunto in questo contrasto tra l'entusiasmo ed il dolore, e l'opera d'Arte non si può concepire se non come prodotto di questi due elementi che, apparendo opposti, si integrano invece; ma il contrasto nell'Arte si esprime nella drammaticità. L'elemento drammatico nell'Arte è il momento critico nella Filosofia, perché, come l'attività critica del pensiero ha luogo allorché si tratta di superare l'antitesi tra dubbio e certezza e la supera affermando, come abbiam visto, che la certezza è il dubbio di ciò che non è, mentre il dubbio è la certezza dello stesso «ciò che non è» - parimenti il dramma ha luogo nell'attività fantastica allorché essa si trova davanti alla Antitesi dell'entusiasmo e del dolore e cerca questa antitesi di superare in una superiore sintesi, in una superiore armonia.
Nell'Arte greca, per esempio, sarà il contrasto fra la volontà umana ed il fato, in cui la prima rimane soccombente, ma questo contrasto si risolve nel dolore dell'artista per l'impotenza della umana volontà e nell'entusiasmo del medesimo per l'onnipotenza del fato cui tutti, anche Giove, allorché pesa nella bilancia i destini di Ettore e d'Achille, debbono inchinarsi. Lo vediamo nella tragedia sofoclea in cui non può non suscitare dolore il crudele destino che incombe su Edipo e su tutta la sua discendenza, mentre anche noi - che non crediamo alla trascendenza del destino - siamo presi da entusiasmo per questo fato che si compie pur contro la lotta spietata degli uomini.
Ed è infine, attraverso la drammaticità, che si arriva ad affermare una idea che è quella cui l'artista tende e cui ispira tutta la sua opera: e siamo al momento conclusivo, idealista.
Ma ben guardiamoli insieme questi momenti storici dell'attività fantastica se sono qualche cosa di diverso e di distinto, tali cioè da poter giustificare la distinzione dei vari generi letterari: abbiamo detto che l'entusiasmo ed il dolore, l'epica e la satira non possono considerarsi come due momenti distinti nello spazio e nel tempo, in quanto debbono necessariamente coesistere nello stesso artista purché sia un vero artista. E ciò perché entusiasmo e dolore sono i termini estremi della commozione, ed è necessario che questa commozione l'artista la senta tutta, cioè che essa sia immanente nell'artista; ma, appunto per questa immanenza nell'artista della commozione, cioè per l'immanenza dell'entusiasmo e del dolore, è anche immanente il contrasto fra questi due termini estremi, cioè il dramma che deve necessariamente avere una sua soluzione, una conclusione nell'affermazione di un'idea.
Resta dunque la questione dell'irrazionale artistico che si opporrebbe al razionale filosofico; ma, prima di affrontar questo problema, è necessario esaminare il valore dei termini razionale ed irrazionale.
Abbiamo infatti ammesso che il pensiero deve imporre un rigore logico alla propria attività per la propria coerenza e concretezza e ciò implica necessariamente la razionalità del pensiero; ma questa razionalità non deve intendersi nel senso tradizionale, cioè aristotelico della parola, nel senso cioè che da alcune verità già date - siano esse leggi o fatti, universali o particolari - si debbano ricavare con i procedimenti classici della deduzione e dell'induzione dei fatti e delle leggi che poi sarebbero implicite nelle premesse stesse da cui siamo partiti: in tal guisa il pensiero sarebbe condannato ad un circolo vizioso, come lo fu dalle opposte e pur identiche scuole dello empirismo e del razionalismo, finché Emmanuele Kant non ruppe quel circolo con la sua sintesi a priori di pensiero ed esperienza.
La razionalità del pensiero non consiste nel tracciare la linea che il pensiero deve percorrere perché questa linea non può segnarla se non lo stesso pensiero - consiste invece nella coerenza e nella concretezza con cui il pensiero si sviluppa, si svolge storicamente: ché se noi abbiamo ammesso questo svolgimento storico del pensiero, il quale si arricchisce continuamente di elementi che prima eran fuori di esso - cioè trascendenti - è ovvio ammettere che delle volte al pensiero la realtà che è - come abbiam visto trascendente ed Immanente al tempo stesso - si rivela per altre vie che non siano la pura ragione, il sentimento cioè e l'intuizione. Ecco perché noi non dividiamo l'avversità dei filosofi militanti italiani contro la dottrina del Bergson che, pur presentando i caratteri dell'unilateralità come del resto anche l'attualismo ed il neo-tomismo, ha il merito della sua grande originalità e soprattutto quello di aver detto in questo momento di mimetismo-filosofico delle verità nuove di cui la Storia della Filosofia non potrà non tener conto.
L'intuizione non può infatti spiegarsi come l'attualismo la spiega, e cioè come un momento culminante dell'attività logica del pensiero - in quanto, se così dovesse spiegarsi, e se il pensiero non avesse altra via da percorrere che quella della sua logicità, la libertà del pensiero che è il cavallo di battaglia degli attualisti, se non del Gentile, verrebbe negata dalla sua razionalità. Infatti, una volta ammesso che la razionalità debba spiegarsi matematicamente, cioè tale che, dati alcuni elementi se ne debbano ricavare necessariamente degli altri, é ovvio che il pensiero non avrebbe alcuna possibilità di pensare, ed inoltre, il pensiero essendo storia, si dovrebbe, in base a questa pretesa razionalità, prevedere lo svolgimento avvenire del pensiero od anticipare la storia sino al suo termine. Ed allora la razionalità del pensiero consiste nel continuo superamento, da parte del pensiero, dell'antitesi tra razionalità ed irrazionalità, fra Filosofia ed Arte.
Né d'altro canto l'Arte è la manifestazione dell'irrazionale, ma piuttosto la razionalizzazione dell'irrazionale in quanto, ripetiamo, l'opera d'Arte non deve essere valutata e giudicata reale in base all'adaequatio intellectus et rei, ma solo in base alla rispondenza dell'opera stessa con l'attività fantastica dell'artista che, nel suo entusiasmo, nel suo dolore, nell'intimo suo contrasto dell'entusiasmo e del dolore, ha creato un mondo diverso da quello esterno, e quindi si è scostato dalla razionalità; ma che è sempre nella razionalità perché quell'entusiasmo, quel dolore, quell'intimo contrasto hanno la loro logica spiegazione nel suo stato d'animo.
In questo modo crediamo di esser giunti all'identificazione di Filosofia ed Arte.
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Indubbiamente le maggiori, le più aspre, le più apparentemente fondate - benché le più ingiuste - critiche alla Filosofia vengono dai cosiddetti scienziati e dai cosiddetti cultori di Scienze (e teniamo a dire che il termine cosiddetti non è da noi usato casualmente, perché la tradizione storica da Talete allo Spencer prova che non si può esser vero scienziato se non a patto di essere filosofo).
Ora lo straordinario numero o l'asprezza delle critiche che provengono da questo campo, lungi dal rendere più arduo il nostro compito, lo facilitano o lo semplificano.
Infatti, per parlare di un carattere antiscientifico della Filosofia, son necessarie due cose, e cioè porre prima di tutto un'antitesi fra Filosofia e Scienza e stabilire, nel modo scientificamente più preciso, il valore di quest'antitesi. Ora porre empiricamente un'antitesi è la cosa più facile di questo mondo, non incontrandosi mai alcuna difficoltà a trovare degli elementi che rendono incompatibile la coesistenza di due o più cose; ma stabilire scientificamente il valore di questa incompatibilità, il che vale trovarne il fondamento scientifico, è tutta altra cosa.
Opporre dunque la Filosofia e la Scienza è trovare gli elementi che le distinguono: quali sono questi elementi? - La coerenza della Scienza opposta alla contraddittorietà della Filosofia? - Ma di questo argomento ci eravamo sbarazzati nei primi due capitoli, provando con una specie di chiamata di correo che, posta la questione sul terreno della mera empiricità, la Scienza é contraddittoria quanto la Filosofia, e non può - sotto questo aspetto - essere Scienza senza essere contraddittoria; mentre, posta la stessa questione sul terreno veramente scientifico, la Filosofia è rigidamente, rigorosamente coerente quanto la Scienza, se non più coerente della Scienza - in quanto la coerenza della Scienza non può consistere e non consiste nella pretesa immutabilità delle sue leggi fisse e stabilite una volta per sempre, ma nell'accordo di queste leggi con le leggi del pensiero che si esprimono nell'esperienza.
La concretezza della Scienza opposta all'astrattezza della Filosofia? Ma anche di questo argomento ci eravamo sbarazzati negli stessi due capitoli perché mentre sul terreno dell'empiricità su cui evidentemente si eran posti i nostri ipotetici contraddittori l'astrattezza è risultata il carattere precipuo della Scienza che non può organizzarsi, cioè risalire dai fatti alle leggi senza astrarre alcune particolarità, forse necessarie, dai fatti stessi - sul terreno scientifico invece la Filosofia si è rivelata concreta per eccellenza appunto per il suo carattere di universalità che comprende tutti i particolari concreti.
Ed allora si potrebbe aggiungere un altro elemento: l'utilità della Scienza e la inutilità della Filosofia che sarebbe da definire quella Scienza per la quale, con la quale e senza la quale si resta sempre tale e quale. Ma anzitutto di questa asserzione che è volgarissima tra le volgari potremmo sbarazzarci anche subito, rinviando i lettori al nostro quarto capitolo in cui abbiamo provato che alla Filosofia non si può rinunziare se non a patto di rinunziare alla propria umanità, cioè, in termini volgari, ad esser uomini, poi - se valesse la pena discuterne - potremmo molto facilmente obbiettare che il criterio dell'utilità non può esser valutato che dal pensiero in quanto attività, cioè in quanto si concretizza storicamente - dato che l'utile varia secondo il tempo il luogo e le circostanze, per cui ciò che in determinate condizioni è utile in altre si rileva inutile quando non addirittura dannoso. E, posta così la questione, l'antitesi si risolverebbe a vantaggio della Filosofia e contro la Scienza - allorché si affermasse, per es., che la scoperta della dinamite da parte di Nobel è utile come prodotto dell'attività del pensiero, che mira a superare gli ostacoli che si frappongono all'attività pratica dell'uomo, cioè é utile come Filosofia ma è dannosa come Scienza in quanto agli uomini é servita come strumento di distruzione; oppure che la conquista dell'aria da parte dell'Uomo, mentre prova l'attività costante del pensiero, che non conosce ostacoli alla propria espansione, prova d'altro canto che la Scienza è l'elemento più pericoloso ai danni dell'Umanità.
Ma noi possiamo anche far generosamente grazia ai nostri ipotetici contraddittori di simili argomentazioni di natura empirica, i quali si rassomigliano ai dilemmi della filosofia aristotelica che si potevano sempre rovesciare e conducevano al risultato sofistico di provar vera una tesi e la sua antitesi; e veniamo ad un'argomentazione più seria:
Ammesso l'impossibile di una incompatibilità, anzi di un'antitesi fra Filosofia o Scienza - basata sopra uno dei criteri di cui ci siano già sbarazzati o sopra un altro qualsiasi criterio - possono darsi due casi, e cioè che l'antitesi sia considerata come presupposta al pensiero oppure che essa sia considerata come attività del pensiero che la produce. Nel secondo caso l'antitesi distruggerebbe se stessa come quella fra Filosofia e Religione e tra Filosofia ed Arte, perché essa, risolvendosi nel pensiero, non sarebbe nulla di diverso dal pensiero; nel primo caso essa, non essendo posta, ma presupposta dal pensiero, arriverebbe ad una conclusione che certo non poteva essere nelle intenzioni degli assertori, e cioè all'affermazione di un dogmatismo scientifico opposto ad un criticismo filosofico.
Or dunque è evidente che la Scienza, non solo non è incompatibile col Pensiero, cioè con la Filosofia, ma è Pensiero ed è Filosofia - come risulta dalla nostra dimostrazione per assurdo; ma con ciò non può negarsi che la medesima prova possa raggiungersi partendo da punti diversi e seguendo altre vie. Facciamo anche grazia ai nostri buoni lettori della prova cosiddetta storica da cui risulterebbe che, nel corso dei secoli, Scienziati non vi furono che non fossero Filosofi ad un tempo, come non vi furono Filosofi che non furono anche Scienziati - perché non v'ha scoperta od invenzione che non presupponga un atto del pensiero che scopra od inventi, e d'altro canto non operi a sua volta un rivolgimento nel campo dell'attività pura del pensiero. Ma non intendiamo rinunziare alla prova logica della identità tra Filosofia e Scienza, e diremo che questa identità si trova nel carattere storico, cioè nella storicità del Pensiero che è Filosofia in quanto è Scienza ed è Scienza in quanto è Filosofia.
Per giungere però alla identificazione è necessario precisare la posizione ed il valore della Scienza, e cioè, in parole povere, stabilire se la Scienza è quel complesso più o meno vasto di nozioni, più o meno razionalmente organizzate più o meno bene esposto in un libro di testo o, sia pure, in un trattato scientifico, oppure se essa non sia piuttosto l'attività del pensiero umano che mira a superare continuamente le difficoltà che pur continuamente si oppongono all'esplicazione di quell'attività medesima. In altri termini il problema consiste nell'assodare se la Scienza debba essere considerata come insieme organico di nozioni oppure come Storia; dal che deriva che, nel primo caso, la coerenza della Scienza consiste nella coerenza delle nozioni con se stesse e la concretezza nella concretezza dei suoi oggetti di studio; nel secondo caso, ripetiamo, la coerenza consiste invece nell'accordo fra le leggi enunciate dalla Scienza e l'esperienza attuale dell'Umanità come attività costante del pensiero e la concretezza nella concretezza di questa esperienza che, nello sforzo per il superamento delle contraddizioni fra i prodotti dell'attività scientifica tradotti in nozioni e la realtà che è Storia, concretizza, armonizzandola con la Vita, la Scienza stessa.
Non v'ha dubbio che il problema debba esser risolto nel secondo senso perché, ammettendo anche coi nostri ipotetici contraddittori che la ragion d'essere di una determinata cosa debba fondarsi su di un criterio di utilità, non crediamo utile né dal punto di vista teoretico, né da quello pratico che il principio d'Archimede sia per es., coerente con quello d'Avogadro o di Lavoisier, se esso non è per nulla coerente con l'esperienza attuale che può averlo superato.
Ammessa la storicità della Scienza, ci resta da vedere se essa sia diversa da quella della Filosofia oppure se sia la stessa storicità della Filosofia perché in funzione di essa.
La Scienza intanto, essendo Storia, non può più riguardarsi come un prodotto dell'esperienza, ché altrimenti sarebbe nozione, ma come l'esperienza stessa che è costante, a perciò attività; ma, intendiamoci bene su questo punto, l'esperienza non è né può essere la Natura - materialmente e quindi dogmaticamente intesa - che si rivela da sé al pensiero umano che come tale sarebbe qualche cosa di passivo e di inerte. Questo, se potesse esser dimostrato, sarebbe un fondamento validissimo per stabilirvi, se non l'antitesi, almeno una distinzione tra la Filosofia e la Scienza in quanto la prima reputerebbe attivo il Pensiero e passiva la Natura su cui si esplica l'attività del pensiero, mentre la scienza sarebbe fondata sul principio opposto; ma in realtà presenta delle difficoltà gravissime, e cioè il dover supporre che il pensiero subisca passivamente la rivelazione della Natura, mentre questa supposizione dovrebbe poi farla il pensiero, pensando, cioè essendo attivo, ed il dover supporre - per il fatto che la Natura si rivela al pensiero gradualmente (diversamente la Scienza non potrebbe essere Storia) e con una rigorosissima logicità - che essa sia dotata di un pensiero che questa rigorosa logicità possa conferirle, ma in questo caso - che d'altronde ricorda uno stadio superato dalla Filosofia - noi avremmo che la vera attività non appartiene alla Natura, ma al Pensiero che sarebbe in essa immanente, in quanto sarebbe proprio il Pensiero immanente nella Natura che le permetterebbe di rivelarsi. Ed allora se l'esperienza non è la Natura, materialmente e dogmaticamente considerata, e quindi non è nemmeno lo strumento con cui si esperimenta perché esso è, come dice la stessa parola strumento dell'esperienza e non esperienza, è ovvio che questa esperienza non è altro che l'Uomo che esperimenta cioè il Pensiero in quanto attività. Resta quindi provato che la storicità della Scienza è in funzione della storicità del Pensiero, cioè della Filosofia..
Ma se la storicità della Scienza è la stessa storicità della Filosofia, noi non possiamo non trovar nella Scienza gli stessi quattro momenti fondamentali dell'attività del pensiero, solo che insisteremo pochissimo per non ripetere quanto dicemmo nel nostro capitolo su «La Filosofia, i Filosofi ed i Sistemi Filosofici». Ora lo Scienziato non può - benché empiricamente parrebbe il contrario - non essere dogmatico allorché accetta i dati dell'esperienza elaborati dagli altri, allorché, ponendosi davanti alla Natura che egli vede sotto un solo aspetto e cioè unilateralmente secondo la propria branca scientifica, dimentica quasi il suo io come soggetto dell'osservazione; ma egli è al tempo stesso scettico perché ricerca in quella Natura delle proprietà che altri non aveva ancora scoperto e pone in esperimento le proprietà già da altri sperimentate, il che prova il suo dubbio continuo; ed è critico perché i dati dell'altrui esperienza e della propria continuamente confronta con la Natura che ha davanti per superarne la contraddittorietà; idealista in quanto giunge ad una conclusione che poi é il punto di partenza di quelli che verranno dopo di lui, cioè un nuovo momento dogmatico.
Ed è anche evidente la coesistenza e quindi il carattere logico e non cronologico della successione dei suddetti momenti in quanto nella certezza stessa dei dati dell'esperienza altrui, come prodotto della attività dell'esperienza, è il dubbio circa la coerenza dei dati stessi con la Natura; ed il dubbio sulla validità dei dati è certezza che essi possono trovarsi, certezza e dubbio che si rivelano nella ricerca stessa (momento critico) attraverso cui si conclude (momento idealista).
L'identità tra Filosofia e Scienza è più che sufficientemente provata.
Concludiamo dunque affermando che questa pretesa antitesi, come le altro due, non sono nella Filosofia o nella Scienza che, in quanto attività di pensiero, si identificano, ma nella posizione mentale dei Filosofi militanti o del cosiddetti Scienziati: dei primi che, attaccati alle loro formule fisse, si estraniano completamente dalla Vita che vive e vuol vivere fuori delle formule stesse; e poiché la Vita non può rinunziare ad organizzarsi scientificamente sotto ogni suo aspetto, si pongono contro la Scienza appunto perché sono contro la Vita (quella del pensiero, s'intende, e non è poco per dei.... filosofi); dei secondi perché concepiscono la Scienza come complesso di dati o non come Storia (e lo vediamo chiaramente allorché dicono di non vedere nella Filosofia delle leggi fisse come due e due che fan quattro) e cioè perché conoscono un manuale od un testo relativo ad una branca scientifica, ma non la Scienza. E pure gli uni e gli altri potrebbero identificarsi fra loro all'infuori della Filosofia e della Scienza, perché gli uni e gli altri si attaccano ai dati elaborati dai loro Maestri o li ripetono per tutta la vita come un sacro rito.