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Giuseppe Mannarino La ragion d'essere della filosofia IntraText CT - Lettura del testo |
Tra le critiche che numerose ai muovono alla ragion d'essere della Filosofia da non pochi cultori di ogni branca del Sapere, neppure una abbiamo potuto rintracciarne che provenga, non diremo dai Giuristi, ma neanche dai più modesti, dai più semplici cultori delle discipline giuridiche. Indubbiamente ciò rende più difficile il nostro compito poiché ci priva di un ottimo punto di partenza, muovendo dal quale giungeremmo, attraverso il procedimento ormai a noi familiare della dimostrazione per assurdo, alla identificazione del Diritto e della Filosofia: ma il fatto ha una sua spiegazione che riteniamo necessaria dare.
La nostra tradizione vuole che il popolo romano, essenzialmente pratico per ragioni geografiche, abbia cercato di subordinare ogni attività intellettuale ai fini utilitari della propria conservazione ed espansione nel mondo: ora questa concezione dell'attività intellettuale non poteva non costituire un ostacolo alla libera esplicazione dell'attività medesima, o almeno ad alcune forme di essa, come la forma religiosa, quella fantastica e quella scientifica. La Religione non poté esser concepita che come in funzione dello Stato, che era l'unica realtà in quanto la conservazione e l'espansione si rendevano impossibili senza un organismo coordinatore ed organizzatore delle energie dei singoli: il Paganesimo fu così religione di Stato; né Costantino ed i suoi successori interpretarono diversamente il Cristianesimo, perché altra mira non ebbero - di fronte al dilagare trionfatore della nuova fede - che quella di amicarsi questa forza, poderosa e capace di crear dei martiri, per puntellare l'Impero; e successivamente la Chiesa nell'Occidente si organizzava con le stesse gerarchie e le stesse leggi di uno Stato. Non diversamente dobbiamo affermare per l'Arte in cui manca quasi completamente l'entusiasmo, il dolore e qualsiasi drammatico contrasto che sia qualche cosa di intimo nell'Artista e di cui l'Artista si possa dire che viva, perché nel Romano mal si nasconde una preoccupazione a cui viene subordinata l'attività fantastica, la preoccupazione di servire allo Stato: lo vediamo in Livio che dà parvenza di realtà a quelle leggende che possano educare a sentimenti di abnegazione e di sacrifizio per la patria; in Virgilio che nelle Georgiche espone il modo dl bonificar la terra perché l'Italia basti a se stessa e non si renda tributaria economicamente delle provincie; che nell'Eneide perde di vista il suo protagonista e non vede che tutto il popolo romano cui spetta il diritto di governare e dominare il mondo. La Scienza non esiste che in poche nozioni frammentarie, ed è anch'essa considerata al servizio dello Stato: Archimede non è romano, ma il console Marcello vuole che egli abbia salva la vita, perché egli ha messo la sua scienza al servizio della sua patria. D'altronde il «Salus patriae suprema lex» ed il «Chi vuol salva la Repubblica mi segua» del Dittatore nell'estremo momento del pericolo caratterizzano tutto lo spirito romano: i Romani non vivevano che per lo Stato e tutto era in funzione dello Stato.
Ma lo Stato e un'organizzazione giuridica e, come tale, deve avere i suoi organi giuridici che non possono esser quelli degli altri Stati del tempo per il fatto che Roma è un organismo sui generis: non ha nulla a che vedere con la polis greca che è in lotta con la polis sorella per questioni di egemonia commerciale, od anche di territorio, in quanto Roma non fa questioni di egemonia, ma più esplicitamente di dominio; non può confondersi coi grandi Imperi delle antichità perché questi sono organizzazioni militari. Così Roma, non potendo prendere a modello gli ordinamenti giuridici degli altri Stati, deve elaborare un nuovo diritto o, per esser più esatti, dove creare il Diritto; e, mentre in essa le scuole che mirino alla specializzazione nelle arti, nelle scienze mancano oppure limitano il loro programma ad elementari rudimenti, le Scuole del Diritto fioriscono e restano acquisite alla Storia.
Ora gl'Italiani malgrado tutte le immigrazioni ed infiltrazioni eterogenee del Medioevo, non possono non risentire dell'influenza della tradizione, e così il Diritto che fu la vita stessa del popolo romano, continua ad essere l'orgoglio della nostra stirpe.
Con ciò non intendiamo dire che le altre forme di attività intellettuale furono trascurate in tutti i tempi, il che sarebbe un'eresia troppo grave per poter essere presa sul serio dal più mediocre degli uomini, ma solo abbiamo voluto spiegarci modestamente la ragione per cui quella superficialità, quella unilateralità così diffuse in Italia nelle altre branche dello scibile, - per cui i cultori, grandi e piccoli, delle branche stesse non hanno voluto vedere nel loro campo di attività nulla fuorché il prodotto della loro attività medesima - esulano completamente nello studio del Diritto, l'unico profondo, l'unico che non ha visto in nessun tempo dei cultori mediocrissimi e per nulla originali divenire depositari monopolistici dello speciale ramo di attività e disponitori di cattedre.
La ragione della mancanza di una sola critica alla ragion d'essere della Filosofia da parte anche dei più modesti suoi cultori è appunto in questo, nella profondità, nella serietà con cui il Diritto si è sempre studiato in Italia, ché non è possibile l'altra spiegazione per cui i Giuristi si sarebbero mantenuti nei riguardi della Filosofia in uno stato di voluta ignoranza per quello che andremo vedendo.
Anzitutto - come la Religione ha i suoi dogmi, l'Arte le sue espressioni, la Scienza le definizioni, e la Filosofia le formule - il Diritto ha le sue norme giuridiche (Codici, trattati, Statuti, leggi speciali) che ne costituiscono il «pensato». Ora la prima questione da affrontare è il vedere la possibilità di concepire questo pensato indipendentemente dal pensiero che lo pensa, cioè nel caso specifico, se è possibile considerare la norma giuridica come indipendente dall'attività giuridica del pensiero che l'ha prodotta: se ciò fosse possibile, il Diritto si confonderebbe con l'insieme delle norme giuridiche attualmente in vigore in uno Stato determinato, cioè si confonderebbe col Diritto positivo. Ma questo isolamento della norma giuridica, che è prodotto dell'attività giuridica da ciò che l'ha prodotto cioè dall'attività stessa, ci condurrebbe a delle difficoltà: a) anzitutto non potremmo determinare il Diritto in quanto, avendo ogni Stato un proprio diritto positivo diverso, quando non contrario, a quello degli altri Stati e - dovendo noi prescindere dalla coscienza giuridica dello Stato che ha dettate quelle norme - noi non potremmo mai sapere quale è il vero diritto, né potremmo identificarlo con quello della nostra Nazione, perché anche le altre leggi sono diritto per gli altri popoli; b) la norma giuridica diverrebbe astratta poiché astrarrebbe dalla coscienza giuridica della Nazione, e pertanto non potrebbe essere applicata, non avendo alcun valore coattivo, poiché la coattività non può dargliela che la coscienza giuridica, che la rende concreta adattandola alle esigenza storiche attuali; c) è contraddittoria perché o essa è fuori della coscienza giuridica che l'ha storicamente superato e quindi contraddice alla coscienza giuridica medesima e perciò non può essere pensata ed applicata, o è pensata ed applicata ed allora fa parte della coscienza giuridica che si esprime nell'esecutore della legge.
La norma è dunque inconcepibile indipendentemente dalla coscienza giuridica che l'ha prodotta, ed essa in tanto è, in quanto risponde alle esigenze della coscienza giuridica in un determinato momento della sua attività, ché, se non risponde più a questa esigenze, rimane littera mortis finché il legislatore interprete della coscienza giuridica attuale al suo superamento non trovi il modo di sopprimerla.
Spieghiamoci con un esempio tratto dai «Promessi Sposi»: Ai tempi dei bravi le «leggi» - considerate come norme giuridiche - contro i medesimi non mancavano, anzi, per servirci del termine manzoniano, diluviavano; ma esse avevano perduta la loro efficacia coattiva perché la «coscienza giuridica», offuscata da pregiudizi di natura empirica, come l'amore del quieto vivere da parte dei deboli ed il desiderio da parte dei potenti di sottomettere la Legge al proprio arbitrio, aveva perduto il senso della propria universalità, che è la stessa universalità del Diritto, nella particolarità dell'interesse personale e quindi cessava di essere coscienza giuridica. Ciò vien confermato dal fatto che deboli e potenti non ricorrevano alla Legge se non quando vedevano conculcati i propri diritti o menomati i loro privilegi, mentre - allorché questi interessi personali non venivano toccati - erano entrambi d'accordo nel mantenere, rispetto alla Legge stessa, un contegno di indifferenza e di estraneità.
Il Diritto dunque, in quanto coscienza giuridica, presuppone come suoi elementi costitutivi la coattività e l'universalità che imprime alle proprie norme, le quali non possono - come abbiam visto darseli da se stesse. Non può dunque esservi coscienza giuridica e quindi non può concepirsi il Diritto se non vi siano questi elementi come condizioni indispensabili alla sua concretizzazione storica: ché infatti un nostro semplice desiderio che non riesca ad universalizzarsi divenendo desiderio generale, cioè volontà razionale nostra in quanto uomini, e resta desiderio nostro in quanto individui, non può assolutamente acquistare quel carattere di coattività che alla Legge si addice: esso rappresenta un interesse da parte nostra, non un diritto. Viceversa, ciò che non ha carattere di coattività non può avere naturalmente carattere di universalità in quanto esclude la necessità che tutti vi si uniformino, mentre la Legge è necessario che sia, almeno teoricamente, eguale per tutti.
Ora questi elementi costitutivi del Diritto si concretizzano nello Stato in quanto organismo giuridico, ché coattività non può essere nel Diritto senza i poteri che dispongono della forza di coercizione, né può esservi universalità se i singoli non vengono posti di fronte all'autorità, cioè allo Stato, in condizioni di parità di diritti e di doveri. Il Diritto è dunque inconcepibile - astraendo dallo Stato - perché perderebbe i caratteri della coattività e dell'universalità che ne sono, come abbiam visto, gli elementi costitutivi, e non sarebbe quindi più Diritto; né sarebbe possibile neppure parlare dello Stato indipendentemente dal Diritto, per il fatto che lo Stato non è se la sua coscienza giuridica non lo realizza nel Diritto.
Lo Stato ed il Diritto non sono dunque termini opposti e neanche termini diversi, in quanto si risolvono entrambi nella stessa coscienza giuridica che li realizza e li concretizza. Noi consideriamo pertanto come formale la distinzione fra Diritto pubblico e Diritto privato per il fatto che il secondo si mantiene nei caratteri generali del Diritto (coattività ed universalità), ed allora si risolve nel Diritto pubblico, poiché presuppone i poteri dello Stato e l'universalità della Legge, o si restringe alla tutela del rapporti fra interessi privati e non è più Diritto. Infatti la distinzione è posta dai Giuristi sul terreno della norma giuridica, non già di quella che abbiamo chiamato coscienza giuridica che concretizza sé stessa nelle norme in base sempre ai suddetti suoi elementi costitutivi.
Ora, poiché lo Stato si pone come coscienza giuridica che si concretizza storicamente, il problema del Diritto viene necessariamente a ricondursi al problema della Storia. Lo Stato infatti non è soltanto un organismo giuridico che realizza dei fini ad esso presupposti, ma è soprattutto un organismo etico in quanto questi fini, prima di realizzarli, se li pone da se stesso: esso è in altri termini coscienza etica che, dinanzi alla necessità di realizzarsi universalmente, si trasforma in coscienza giuridica; ma, poiché questa realizzazione non è possibile che avvenga in un determinato momento della Storia, in quanto, in questo caso, quel momento sarebbe tutta la Storia, ne consegue che questa trasformazione si svolge gradualmente cioè storicamente e che, per conseguenza, la coscienza giuridica si concretizza storicamente, cioè nella Storia. In altri termini, l'attività giuridica del pensiero non prescinde dai tempi e dai luoghi, ma vi s'immedesima profondamente al punto che il Diritto si risolve nella Storia del Diritto, cioè nella Storia.
Ché il pregiudizio, di natura essenzialmente empirica, secondo cui il Diritto potrebbe distinguersi dalla sua Storia, cioè dalla Storia, deve essere completamente eliminato in quanto, se noi non ci fermiamo sulle parole e cerchiamo di penetrare invece nella sostanza delle cose, dobbiamo apertamente riconoscere che è impossibile studiare il Diritto, astraendo dai tempi e dai luoghi in cui la coscienza giuridica lo concretizzò nelle norme giuridiche positive, in quanto la ragion d'essere di quelle norme deve essere ricercata proprio nella loro attualità, cioè nella rispondenza ai tempi ed al luoghi in cui questa concretizzazione si verificò; come d'altra canto, è impossibile studiare la Storia - sia pure in un manuale elementare a carattere narrativo - prescindendo dallo svolgimento del Diritto, in quanto la vita dei popoli si svolge, sia in pace che in guerra, in base alle norme di un diritto, quando consuetudinario quando positivo, che è indispensabile a spiegarci questa vita medesima; ed anche quando la Storia par che si limiti ad una cronologica esposizione di date, di battaglie e di nomi, non può fare a meno dal constatare che quelle battaglie furono la conseguenza di una violazione o di una pretesa violazione di trattati commerciali ed internazionali, che regolavano in quei tempi i rapporti fra i belligeranti.
Ricondotto il problema del Diritto a quello della Storia, vi troveremo subito gli stessi termini e diremo che il Diritto è prima di tutto pensiero in quanto presuppone una elaborazione mentale della propria materia, poi è umanità in quanto la sua concretizzazione e la sua attuazione non sono possibili prescindendo dall'Uomo, considerato nella sua universalità; infine è attività in quanto la coscienza giuridica non può concretizzarsi - come abbiam visto - che nell'attualità della Storia. Ed allora, se il Diritto è pensiero, umanità, attività, esso non è che Filosofia considerata come attività del pensiero umano: l'identificazione del Diritto e della Filosofia, implicita fin dalle prime parole di questo capitolo, risulta ora provata nella sua massima chiarezza ed evidenza.
Ma ora bisogna affrontare un'altra questione, e cioè: «se il Diritto è Filosofia, come è possibile parlare di una Filosofia del Diritto che sarebbe pertanto una Filosofia della Filosofia?» Per noi la questione è la stessa che si pose tempo fa sulla possibilità di una Filosofia della Storia: allora - e fu merito dell'idealismo - si rispose in modo definitivo che l'esistenza della Filosofia della Storia implicava una distinzione impossibile fra l'una e l'altra, poiché la Storia, in quanto studio di avvenimenti umani, non è che Filosofia, mentre la Filosofia, essendo attività, non può essere che Storia. Ora in questa concezione ci pare che dovesse essere implicita l'impossibilità di una Filosofia del Diritto se una netta distinzione tra Diritto e Storia non può esser fatta neanche sul terreno empirico, e pure nessuno ricavò in quel momento una conseguenza così elementarmente logica, neanche il Croce che dimostrò uno straordinario ardore bellico nei riguardi della Filosofia della Storia, mentre, nei riguardi della Filosofia del Diritto, tacque, non sappiamo se per ragioni filosofiche o per ragioni empiriche e contingenti.
Né d'altro canto riteniamo possibile la Sociologia come scienza generale della Società in quanto una siffatta possibilità dovrebbe basarsi su due pregiudizi che il pensiero contemporaneo ha eliminati: una falsa concezione cioè della Storia per cui in essa non si dovrebbe vedere che una esposizione di avvenimenti umani prescindendo dai rapporti che legano questi avvenimenti, in modo che essi possano essere l'oggetto della Storia, e i rapporti di collegamento quello della Sociologia; una pretesa distinzione fra scienze naturali e fisiche da una parte e scienze storiche e giuridiche dall'altra, in modo che, arbitrariamente concependo la Storia come cronologia ed il Diritto come norma giuridica, si renda necessaria una sintesi delle pretese scienze storiche e giuridiche nella Sociologia considerata come Scienza generale della Società.
Che trattasi di pregiudizi è provato in modo chiaro ed evidente dalla impossibilità di separare gli avvenimenti umani della Storia da quella che è l'attività umana del pensiero che quegli avvenimenti collega in rapporti di interdipendenza, per cui il compito della Sociologia viene assorbito completamente dalla Storia, e viceversa la Sociologia non può trovare la sua ragion d'essere in una dottrina generale della Società perché questa dottrina non è concepibile staticamente, ma dinamicamente e cioè storicamente, e quindi la Sociologia è un inutile doppione della Storia non solo nella materia, ma anche nel metodo; risulta inoltre dalla impossibilità di distinguere fra scienze sperimentali e scienze storico-giuridiche in quanto le prime non possono essere scienze se le consideriamo staticamente come corredo di nozioni, ma lo sono in quanto sono attività scientifica che si svolge per gradi, cioè Storia - e viceversa la Storia ed il Diritto non possono prescindere dall'attività scientifica del pensiero umano in quanto quest'ultima, essendo anch'essa umanità, non può a sua volta non ripercuotersi su quelle che sono le altre forme della medesima attività, per cui una Storia ed un Diritto che prescindessero dai risultati dell'attività scientifica non potrebbero essere Storia, né Diritto, appunto perché essi sono in quanto mirano all'universalità del reale, universalità che sarebbe un non senso se alcune forme dell'attività umana venissero trascurate.