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Giuseppe Mannarino La ragion d'essere della filosofia IntraText CT - Lettura del testo |
Prima di riprendere il filo della nostra argomentazione, è necessario tornare brevemente sul carattere generale delle correnti empiriche di cui ci siamo occupati.
Le abbiamo incontrate in ogni campo di studio; nella Religione ove miravano alla forma religiosa determinata in cui l'attività religiosa del pensiero, tendente a limitar se stesso in relazione alla propria limitatezza, si concretizza, ma prescindevano da quest'attività medesima; nell'Arte che guardavano nelle sue forme determinate, prescindendo dall'attività fantastica del pensiero che le crea; nella Scienza che consideravano come sistemazione di scoperte ed invenzioni già date, astraendo dalla forma scientifica dell'attività del pensiero che scopre ed inventa ed infine sistema; nella Storia ove l'attività umana si dissolveva nei dati cosiddetti obbiettivi; nel Diritto ove la coscienza giuridica spariva dinanzi alla norma giuridica del Diritto positivo; nell'Economia in cui la forma economica dell'attività umana si risolveva nelle sue leggi che venivan poi considerate come trascendenti rispetto all'attività stessa; nella Ginnastica ove si prescindeva completamente dall'attività fisica come forma derivata dell'unica attività del pensiero e si consideravano le manifestazioni ginniche concrete come estranee a quell'attività che le aveva concretizzate.
È chiaro dunque, per chi ci ha seguito attentamente, che le suddette correnti hanno un punto in comune, il mancato approfondimento delle proprie asserzioni, quella cioè che si chiamerebbe eccessiva superficialità.
Viceversa la nostra critica abbastanza minuziosa ed esauriente ci ha condotti alla prova che non esistono attività umane autonome e distinte, e quelle che sembrano tali, guardate un po' più profondamente di quel che ordinariamente non si faccia, non sono che forme derivate dall'unica attività umana che è attività originaria del pensiero.
Un terzo punto che abbiamo assodato, a proposito sempre delle correnti empiriche, è che esse sono le stesse in qualunque campo le abbiamo incontrato, cioè arrivano sempre ad una medesima conclusione: la distinzione delle attività umane, per cui noi le abbiamo riassunte logicamente in una corrente sola.
Da questo nostro breve riassunto risulta ora un'altra cosa: se queste correnti concepiscono le forme dell'attività umana come attività distinte e ciò non possono fare se non prescindendo dall'originaria attività umana, perché è questa attività che distingue, il loro prescindere altro non è che un non accorgersene. In questo è appunto la loro empiricità, la loro superficialità.
Ma intanto quell'attività originaria che esse negano, è in esse presente per distinguere le sue forme come Dio era presente all'Innominato proprio allorché ne dubitava; e, se quest'attività è appunto la Filosofia, anche quelle correnti sono filosofia non già nei distinti, ma nell'atto del distinguere.
Infatti quelle correnti non si formano negli altri campi determinati del sapere, ma ai margini appunto dell'attività del pensiero, nel seno stesso dei movimenti filosofici originari, per opera degli astri di seconda grandezza della Filosofia ufficiale: se ne incolpa oggi ingiustamente il positivismo, perché è oggi di moda non approfondire questo movimento, non riviverlo e considerarlo come pensato, ma in realtà nessun movimento nella Storia della Filosofia ne è stato immune, neanche l'attualismo.
Ora, ricondotte le correnti empiriche all'attività originaria del Pensiero, nella Filosofia, ne risulteranno le seguenti conseguenze: l'attività del pensiero, scissa nelle sue forme derivate, perde il suo carattere di originarietà che passa alle forme le quali diventano - come abbiamo detto -attività autonome, distinte e definite, essa viene perciò annullata; questo annullamento riguarda soltanto l'attività del pensiero come tale, cioè come originaria, ma - poiché non si può negare che il pensiero esista e che pensi - essa diviene attività autonoma, distinta e definita come tutte le altre; cessando di essere attività originaria e divenendo attività autonoma, cessa al tempo stesso di essere il presupposto di qualsiasi studio per divenire l'oggetto di uno studio determinato, che è appunto la Filosofia.
Siamo, come ognun vede, tornati al punto di partenza perché la Filosofia come attività autonoma è la giustificazione di tutte le antitesi e di tutte le negazioni di cui ci siamo sbarazzati, e la sua autonomia è la conseguenza delle distinzioni presupposte ed è a sua volta la causa della limitazione del suo campo di attività.
Ma non è nostra intenzione tornare indietro, e noi lo abbiamo fatto solo per potere andar più sicuramente avanti, per esaminare cioè quali saranno le conseguenze logiche di questa empirica limitazione del campo della Filosofia.
Limitare l'illimitato è cosa tutt'altro che facile, specie per chi è avvezzo a prescindere dall'attività del pensiero e che ha il proprio troppo... limitato; e questa difficoltà non poteva non prospettarsi anche dopo che le empiriche limitazioni erano state poste e presupposte: anche così diminuita la Filosofia, dopo che il problema era stato deliberatamente tolto di mezzo, sorgevano infiniti problemi proprio in conseguenza di quelle distinzioni. Questi problemi non potevano non preoccupare quelli che, sbarazzandosi del primo, avevano creduto di evitare la difficoltà; e la limitatezza dell'ingegno empirico dei filosofi ufficiali affidava lo studio di ogni singolo problema ad uno speciale ramo della Filosofia, del qual ramo quel problema veniva a costituire naturalmente l'oggetto di studio finché da esso non ne sorgevano altri e con essi altre branche della Filosofia, e, quel che più all'ufficialità filosofica importa, nuove cattedre universitarie. Cosi sorsero la Psicologia, la Logica, l'Etica, la Sociologia, l'Estetica, la Metafisica suddivisa a sua volta in Antropogonia, Teogonia e Cosmogonia, la Teologia, la Teleologia, la Deontologia, la Pedagogia ancora suddivisa in Psicologia infantile, Didattica e Morale, e poi le Filosofie speciali come quella del Diritto, della Storia e della Religione, ed ancora le Storie della Filosofia e della Pedagogia, né a tanta mania distintiva la corrente accenna ancora a fermarsi.
Non ci fermeremo neanche un momento ad esaminare la legittimità di tante discipline filosofiche, sia perché perderemmo l'obbiettivo propostoci, sia perché necessariamente dovremmo uscire dai limiti preventivamente imposti al nostro lavoro: del resto in questo esame non faremmo che ripeter quanto già dicemmo, in quanto è già ovvio che, se non crediamo alla esistenza di attività autonome e distinte, cioè alla possibilità che l'attività originaria del pensiero si scinda nelle sue forme, a più forte ragione non possiamo considerare quest'attività del pensiero già scissa e poi sottoscissa in quelle che sarebbero le sue attività, e poi scisse ancor queste così all'infinito. Ma su di un punto importantissimo non possiamo assolutamente sorvolare, sul problema cioè della cosiddetta Pedagogia, che ci ha indotti a premettere una non lieve introduzione appunto perché noi intendiamo procedere più sicuramente e più risolutamente alla sua soluzione.
Intanto il porre il problema della Pedagogia come a sé stante, e quindi la Pedagogia stessa come disciplina autonoma e distinta, suddivisa a sua volta nelle sottobranche della Psicologia infantile, della Didattica, della Morale e della Storia della Pedagogia presuppone l'accettazione di alcune condizioni indispensabili, e cioè: a) - la determinazione, cioè la limitazione dell'oggetto di studio; b) - la possibilità di questa limitazione e determinazione come caratteri essenziali della sua autonomia; c) - la possibilità che essa si scinda ancora in altre sottodivisioni.
Ora abbiamo detto che determinare e distinguere significa definire, appunto perché solo la definizione può darci i limiti, le determinazioni e può quindi conferire i caratteri dell'autonomia ai distinti: è necessario dunque, perché la Pedagogia sia possibile come disciplina filosofica autonoma e distinta, prima di tutto, che sia definita. Ora effettivamente le definizioni di essa non mancano, ed anzi la loro molteplicità è la prima prova che... manca la definizione esatta; ma, poiché noi vogliamo esser sempre esaurienti, ne adottiamo una come punto di partenza, quella cioè in cui pare che si accordi la maggioranza dei trattatisti: «La Pedagogia è la Scienza dell'Educazione». Se non che l'accettazione di questa definizione implica ancora l'accettazione di altre due condizioni essenziali, e cioè che essa possa esser considerata una Scienza e che si proponga come suo compito essenziale, cioè che abbia come oggetto di studio, il problema dell'educazione.
Ma ecco qui le prime difficoltà contro cui si va ad urtare: in primo luogo la parola «scienza» non si sa se si debba intenderla nel suo significato razionale di forma scientifica dell'attività del pensiero che inventa e scopre per poi sistemare, oppure in quello empirico di sistemazione già fatta di invenzioni e scoperte, di forma scientifica presupposta alle invenzioni ed alle scoperte o di sistemazione già data. La definizione non precisa questo punto, ma è chiaro che essa intenda riferirsi alla seconda interpretazione in quanto essa parte da una implicita ammissione della distinzione e dell'autonomia delle attività umane il che esclude ogni attività originaria come presupposta alle sue forme: considera dunque la Pedagogia una Scienza distinta ed autonoma dalle altre, cioè una Scienza empirica come le altre.
Stabilito ciò - poiché una scienza empiricamente considerata deve avere come oggetto di studio dei rapporti costanti, diversamente si risolverebbe nuovamente nella forma scientifica dell'attività umana da cui si è voluto prescindere - è chiaro che, coerentemente con la definizione su accennata, i termini di questo rapporto non possono essere che i termini stessi del problema dell'educazione: l'educatore e l'educando. La Pedagogia sarebbe dunque la Scienza che studia il rapporto intercorrente tra educatore ed educando; ma con ciò non abbiamo detto ancora nulla: bisogna determinare e dimostrare la costanza del rapporto e stabilire ancora la netta distinzione dei due termini perché il rapporto stesso sia possibile, ché mai può esservi rapporto tra due termini non distinti.
E siamo qui alla più grave delle difficoltà: i trattatisti la sfuggono empiricamente ed ammettono senz'altro che educatore sia l'età adulta ed educando l'infanzia; ma in questo modo il problema non è per nulla risoluto. La divisione della Vita umana in età distinte non può avere che un valore empirico, convenzionale, ma non risponde affatto ad alcun criterio di razionalità: nessuno ha potuto stabilire con criteri scientifici l'anno preciso in cui l'infanzia diviene età adulta, qualcuno soltanto ha posto dei termini arbitrari non senza prospettare gl'inconvenienti di quest'arbitrarietà stessa; chi poi si è fermato sulla cultura e sullo sviluppo fisico e morale per porre un criterio alla distinzione dei termini, è caduto in un altro arbitrio in quanto questi criteri non hanno nulla a che fare con l'età dell'uomo, ma sono posti da circostanze completamente estranee al nostro stato civile.
Si è tentato sciogliere questa difficoltà col definire anche l'educazione come insieme dei mezzi adoperati per modificare i nostri i caratteri fisici intellettuali e morali in un dato senso e per un determinato fine, ma in realtà questa nuova definizione non solo non risolve la difficoltà, ma la mette addirittura in maggiore evidenza: affermando infatti che la educazione è modificazione afferma implicitamente che é educabile ciò che è modificabile, che si è cioè educabili finché si abbiano caratteri modificabili. Ora chi si sente in grado di stabilire fino a quale età i caratteri umani siano modificabili? La più elementare delle esperienze dimostra che la modificabilità dei nostri caratteri fisici, intellettuali e morali dura quanto dura la nostra vita stessa, che continuamente noi regoliamo il nostro movimento e lottiamo per preservarci dalle malattie, che continuamente apprendiamo delle nuove cognizioni, che fino all'estremo giorno della nostra vita i nostri sentimenti possono mutare. È chiaro dunque che la distinzione dei termini è impossibile perché qualsiasi criterio razionale esclude che vi siano varie forme di vita nella Vita umana, perché razionalmente non esiste né l'infanzia, né l'età adulta, ma soltanto l'umanità.
Caduti i termini del rapporto, cade anche il rapporto stesso: l'infanzia non é qualche cosa di distinto e di autonomo dell'età adulta, è semplicemente l'età adulta del domani come questa è l'infanzia di ieri, ed anche ciò empiricamente considerandole, perché in realtà neanche questa distinzione regge se noi consideriamo che nel bambino si educa soltanto l'uomo per cui il fine dell'educazione è sempre l'Umanità, cui l'educazione stessa necessariamente tende, come, colui che empiricamente educa, si trasforma in bambino, sia in quanto ha dai bambini da apprendere, sia in quanto ha da adattarsi alla loro mentalità, cosa che non può se non rivivendo nel suo pensiero tutta la sua Vita.
In altri termini, noi non possiamo trovare nessun criterio razionale che giustifichi la distinzione, il dualismo fra educatore ed educando, perché le condizioni che realizzano l'autonomia e la distinzione del primo vengono a mancare prima perché educatori si può essere solo in relazione con l'educando, da cui pertanto non si può prescindere, poi perché l'efficacia educativa dell'educatore consiste nel rifare, nel rivivere la sua vita di educando, infine perché l'educatore coll'educare educa se stesso e quindi diviene educando; e rovesciando i termini si avrà prima che l'educando è in quanto è in relazione con l'educatore, poiché esso si educa perché divenga a sua volta educatore, infine che esso educa il suo educatore nell'atto stesso in cui viene educato.
Ora, posta così la questione, risoluti i termini del rapporto in un termine solo che è l'Umanità in seno alla quale non è possibile, se non empiricamente, alcuna distinzione in età autonome e distinte, e dimostrato, in conseguenza, che il problema dell'educazione riguarda tutta l'Umanità in quanto Pensiero - risulterà chiaro il carattere storico della stessa educazione. L'educazione è infatti svolgimento continuo della personalità umana, svolgimento che non può arrestarsi se non con l'arrestarsi dell'attività umana, appunto perché è questa stessa attività umana, perché è Storia: questo svolgimento continuo esclude da per se stesso la costanza del rapporto, dopo che il rapporto stesso é stato escluso con l'eliminazione dei termini empiricamente ad esso presupposti. È chiaro che la Pedagogia non può dunque essere considerata una Scienza nel senso empirico.
Le difficoltà da noi accennate fecero sì che alcune correnti empiriche modificassero alquanto la definizione con lo stabilire che la Pedagogia è la «teoria dell'educazione»: altra soluzione infelice del problema destinata a lasciar le cose come sono senza portare alcun contributo alla chiarificazione, perché non può esservi una sola teoria dell'educazione, ma tante quanti sono i cosiddetti pedagogisti e gli educatori, di guisa che vi sarebbero tante Pedagogie quanti sono gli uomini, cioè non vi sarebbe nessuna Pedagogia.
Il difetto è in questo: che il problema dell'educazione è stato imposto empiricamente, cioè è stato imposto come problema a sé. Infatti se si premette che il problema dell'educazione - come è evidente nella definizione da cui siamo partiti - sia l'oggetto distintivo della Pedagogia, è evidente che tutte le altre branche del Sapere vengono ad essere considerate come estranee al problema stesso: esulerebbe quindi da ogni disciplina, che non sia la Pedagogia, ogni funzione educativa. Se non che questa conclusione logica, ricavabile dalla definizione in parola, é in aperto contrasto col concetto anche empirico dell'educazione come modificazione di caratteri per il fatto che qualsiasi disciplina mira a questo scopo: non è possibile quindi che il problema dell'educazione interessi una disciplina piuttosto che un'altra, in quanto ciascuna - mirando, per proprio conto, alla modificazione dei caratteri umani in un dato senso e per un determinato fine - non può considerarsi estranea alla posizione ed alta soluzione del problema educativo. Resta dunque assodato che la Pedagogia come disciplina filosofica non è definibile in quanto non presenta, anzi esclude, i caratteri essenziali dell'autonomia.
Ed allora è ovvio che non possa parlarsi di una Psicologia infantile (se pur può parlarsi addirittura di una Psicologia come disciplina filosofica autonoma e distinta) perché essa e stata svuotata del suo oggetto di studio che dovrebbe naturalmente essere la «psiche infantile»: questa si risolve logicamente nella psiche umana, considerata nel suo svolgimento storico che, con una rigorosità logica straordinaria, l'accompagna e s'identifica con essa; che non possa parlarsi di una Didattica autonoma come metodologia perché essa empiricamente si risolve nelle discipline singole per la funzione educativa che esercitano, e razionalmente si risolve nell'attività originaria del pensiero in quanto mira alla formazione della concreta personalità. Resta la Morale come disciplina filosofica autonoma, che ha come oggetto di studio le azioni umane, ma essa si distrugge da sé allorché afferma che il criterio valutativo della nostra condotta e la libertà e la responsabilità umana ed allorché, divenendo sottobranca della Pedagogia, fa consistere l'educazione morale nell'affermazione di questi due principi. La libertà, non intesa come licenza e sfrenatezza, ma come responsabilità delle proprie azioni, non è infatti e non può esser diversa dall'attività originaria del pensiero in cui si risolve, perché non può esserci responsabilità, senza libertà, né libertà senza attività libera, cioè originaria del pensiero. Né, a più forte ragione, può reggersi la Storia della Pedagogia, perché, essendo l'educazione niente altro che svolgimento storico ed essendo a sua volta la storia l'educazione progressiva dell'umanità, essa si risolverebbe in una Storia della Storia, in una espressione tautologia.
Nulla dunque più resta della Pedagogia: non la sua definibilità - e quindi la sua autonomia e distinzione - perché essa al lume della critica, si è completamente dissoluta nell'attività originaria del pensiero, cioè nella Filosofia; non la determinazione del suo oggetto di studio come rapporto costante perché il problema dell'educazione umana si è risoluto, in quanto svolgimento, nella Storia; non la sua scindibilità in sottobranche come attività autonome in quanto queste, rivelandosi come semplici forme di un'attività originaria unica, non possono avere i caratteri essenziali dell'autonomia, non - aggiungiamo adesso - il nome perché, essendo - come abbiamo dimostrato - l'educazione un fatto umano anzi essendo essa la stessa umanità nella sua storia, sarebbe ormai tempo di abbandonare al suo destino un termine che, nella sua etimologia, ci ricorda quella empirica distinzione delle età umane che il pensiero contemporaneo ha logicamente e storicamente superate.
Il problema dell'educazione è, come di vede, troppo complesso e troppo importante perché lo si possa rimpicciolire nei modesti limiti di una disciplina empiricamente concepita, di quella cioè che si chiama comunemente una materia d'insegnamento; è troppo complesso e troppo importante per poter essere, non diremo risoluto, ma neanche prospettato in un manuale scolastico o, sia pure, in un trattato scientifico che pretenda sistemare ciò che non è sistemmmabile. Noi, per un momento soltanto e per ragioni polemiche, ci siamo dovuti mettere sul terreno dei nostri ipotetici contraddittori ed accettare che l'educazione sia la modificazione continua della nostra vita: dopo quanto abbiamo detto, crediamo di poter affermare che l'educazione sia la Vita umana stessa, in quanto essa è il carattere essenziale che distingue l'umanità dagli esseri inferiori, dagli animali cioè e dai bruti. Una definizione del genere implicherebbe invece una distinzione tra educazione e vita umana, distinzione impossibile in quanto vivere da uomini é esclusivamente educarsi, svolgersi ragionevolmente e non semplicemente alimentarsi come gli animali o addirittura vegetare come le piante.
Ora è innegabile che il Gentile abbia originalmente impostato in questi termini il problema, ma é anche indubbiamente vero che questa coraggiosa impostazione del problema da parte del Maestro, lungi dallo svilupparsi, sia divenuta invece una timida esigenza nei discepoli da cui invano si è attesa la soluzione del problema dell'educazione nella Filosofia. È per questo che noi ai fiumi d'inchiostro ed alle tonnellate di carta impiegate dagli attualisti crediamo opportuno opporre questi versi del Giusti in cui il problema stesso è impostato con maggior coraggio, con maggiore chiarezza e soprattutto con maggiore efficacia:
Presso alla culla, in dolce atto d'amore,
che intendere non può chi non è madre
tacita siede e immobile: ma il volto
nel suo vezzoso bambinel rapito,
arde, si turba e rasserena in questi
pensieri della mente inebriata:
gioir, pianger con te: beata e pura
si fa l'anima mia di cura in cura:
in ogni pena un nuovo affetto imparo.
Esulta, alla materna ombra fidato,
Se venga il dì che amor soavemente
nel nome mio ti sciolga il labbro amato;
come l'ingenua gote e le infantili
labbra t'adorna di bellezza il fiore,
a te così nel core
affetti educherò tutti gentili.
avrò l'opra che vuol da me Natura:
sarò dell'amor tuo lieta e sicura,
come data t'avessi un'altra vita
d'ogni mia contentezza il ciel ti dia!
Io della vita nella dubbia via
il peso porterò delle tue pene.
un dì t'affanna giovanil desio
ti risovvenga del materno affetto!
Nessun mai t'amerà dell'amor mio,
e tu nel tuo dolor solo e pensoso
ricercherai la madre, e in queste braccia
asconderai la faccia,
nel sen che mai non cangia avrai riposo.
Ci asteniamo da qualsiasi commento, ma non possiamo non rilevare come la relatività e l'empiricità dei termini educando ed educatore sia affermata meravigliosamente allorché si dice che «nessuna donna che non sia madre possa intender l'atto d'amore in cui è l'educazione»; come sia affermata l'umanità e la unità dei termini stessi allorché, mentre la madre educa, poi impara dal figlio un nuovo affetto ad ogni pena e l'anima sua si fa pura e beata ad ogni preoccupazione; come sia affermata l'identificazione tra educazione e vita umana allorché si afferma che l'opera che vuol da noi la Natura non può dirsi compiuta coll'aver dato all'infanzia la nascita fisica; come infine sia affermata la storicità dell'educazione allorché nella mente della madre si prospetta il successivo svolgersi della personalità del fanciullo finché egli viene a balbettare le prime dolci sillabe, finché egli - preso da altri affetti - non abbia modo di convincersi che nessuno di essi può essere più forte o più disinteressato di quello della propria genitrice.
Ai filosofi ufficiali, ripetiamo, è sempre mancato il coraggio di una impostazione così radicale e così efficace del problema.
Ma, prima di concludere, veniamo ad un'ultima questione: la indiscutibile complessità del problema della educazione ha dovuto senza dubbio atterrire i trattatisti che hanno pensato a distinguere in esso un'educazione fisica, un'educazione intellettuale, un'educazione morale, un'educazione artistica, un'educazione scientifica, una educazione politica, un'educazione religiosa e così via, nella illusione di trovare una semplificazione nei distinti.
Ma, essendo l'educazione - per quel che abbiamo detto - attività del pensiero è ovvio che non possa neanche in questo caso parlarsi di educazioni distinte, bensì e semplicemente di forme distinte dell'unica educazione umana. Questa si concretizza in quanto originarietà, in quelle forme, non già nel senso della successione temporale e spaziale, ma in quello della coesistenza delle forme stesse perché una forma di educazione sarebbe assolutamente impossibile se dovesse astrarsi dalle altre derivate e da quella originaria. L'uomo non è diverso dalla sua personalità fisica, dalla sua cultura, dai suoi sentimenti; dalla sua attività fantastica, dalle sue conoscenze scientifiche, dalla sua nazionalità, dalle sue credenze religiose, perché sono tutti questi elementi che lo fanno «uomo» prima ancora di farlo artista o scienziato, uomo di stato od atleta..
Il problema dell'educazione è - ci pare di averlo più che esaurientemente dimostrato - problema di autoformazione della personalità umana.