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Paolo Mantegazza
Un giorno a Madera

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    • 1 - In mare
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1 - In mare

 

La mattina del 9 giugno 185... alle undici precise io mi imbarcava nel golfo di Southampton Water sopra un piccolo vaporetto che doveva portarmi sul Thames, grosso steamer postale, che coi fuochi accesi e le àncore levate, stava aspettando con impazienza i passeggieri per il Brasile ed il Rio de la Plata.

In quel vaporetto c'era tal folla che non poteva muovermi, e i parenti e gli amici si accalcavano intorno ai viaggiatori, stringendoli per le mani, accarezzandoli, piangendo con essi. Quante passioni, quante speranze, quanti dolori si espandevano senza riguardi in mezzo all'andare e al venire dei marinai avvinazzati dall'orgia notturna, e le parole d'amore, e i sospiri si perdevano fra il fracasso dei bauli, delle casse, fra lo strepito del vapore, che insensibile a tanta poesia, buttava fuori i suoi buffi regolari di fumo nero e di fumo bianco e insensibile a tanto strazio incomposto di sentimenti umani, faceva girare le sue ruote con matematica regolarità.

In tanto urto, in tanto tramestìo, cercai una nicchia fra le catene dell'àncora e una piramide di bauli e , dando le spalle alla prora, salutai l'Europa, dove lasciavo tanto tesoro di affetti, salutai il campanile di S. Michele, ultimo quadro della terra inglese che stava per lasciare per molti anni.

L'uomo avvezzo a consumar la vita giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, portato sopra una corrente che mai non posa, si arresta con voluttà crudele in quei rari momenti, nei quali vi è rottura improvvisa del filo che lo ha trascinato lungo l'orbita della vita; si compiace di quell'istante in cui l'arresto brusco delle abitudini più care, il mutar violento di paese, di uomini, di cose, l'abbandona solo a sé stesso, in mezzo a un gran vuoto, quasi nascesse una seconda volta. In quei momenti l'uomo guarda, contempla con gelosia avara tutte le cose che sta per abbandonare e l'ultimo quadro della scena che scompare rimane eterna fotografia nella sua anima.

Così avveniva anche di me in quella mattina: ed io salutavo con immenso amore il paese delle nebbie e del carbon fossile; dei bei prati verdeggianti e dei branchi innumerevoli di montoni affumicati, delle case grige e piccine e dei turriti camini delle manifatture. Salutava quella terra da cui la musica che per caso vi aveva posto il piede fuggì per sempre, chiudendosi le orecchie, quasi non volesse udire lo strepito incessante delle macchine e il bisbiglio disarmonico degli uomini. Salutava quella terra dove gli uomini sono rozzi ma infaticabili e virtuosi; innamorati delle cose difficili e nuove; quella terra dove ogni uomo è un individuo, ogni pensiero una conquista.

Intanto il nano del nostro vaporetto aveva raggiunto il Thames, e lo aveva abbordato; e quel gigante smisurato sembrava piegarsi a riceverlo fra le sue braccia. Convenne far passare sul gigante tutti gli ospiti animati di quel nano. Era una scena infernale. Peggio fu poi quando gli amici e i parenti dovettero discendere dal Thames, e lasciar soli i loro cari. Quanto strazio nella vita umana! Di quanti dolori può mai impregnarsi quella spugna che chiamiamo cuore!

Gli stewards, gli ufficiali pregavano i parenti e gli amici a voler scendere, ed i marinai, con minor cortesia li spingevano giù dalle scale; ma cedendo all'ammonizione facevano pochi passi addietro e rigiravano poi nel labirinto dei bauli e dei cordami per ritornare ad un saluto più lungo, ad un bacio più ardente; e sulle fragili scale del Thames una catena di braccia e di corpi che si stringevano e si facean violenza crudele per distaccarsi, si componeva e si riannodava fra gli spintoni brutali dei marinai. Convenne che la campana secca e inesorabile toccasse alla partenza; convenne che il Thames, indispettito per tanta indisciplina muovesse le sue ruote, perché l'amaro distacco avesse luogo, perché si vedesse sui due vapori, così disuguali di mole e così vicini, una pleiade di braccia e di moccichini che si cercavano, si salutavano, si rimandavano col pianto e colle grida mille saluti, mille affetti, mille desiderii.

Il vaporetto ci accompagnò ancora, volendo gareggiare col Thames: pareva che tutto quel pianto e quell'agitar di braccia e quei tenerissimi saluti facessero raddoppiare la forza dei suoi movimenti, e scivolava e correva nel solco glauco e spumeggiante che il nostro vapore apriva nelle onde del mare inglese. E finché ognuno potè riconoscere il volto dei suoi cari in mezzo a quel tramestìo di gente, e finché più lontano ancora il cuore potè discernere qual fosse il cuore che agitava il moccichino, il nano accompagnò il gigante, e poi virò di poppa e si diresse verso la costa.

Allora un grido lontano, un'armonia straziante di singhiozzi e di angoscia si sentì per l'ultima volta e si perdette nel ciclopico martellar della macchina che andava conquistando l'oceano colle sue ruote smisurate.

Io contemplava e meditava tristi cose. I miei compagni di viaggio si erano subito divisi in due schiere, quasi invitati da un muto cenno di comando. I più erano a poppa, i meno a prora.

I primi accalcati dietro il timone sull'ultimo lembo della nave, non potevano distaccarsi dalla terra che l'occhio poteva chiamar ancora sua. Essi volevano fino all'ultimo momento raccogliere le voci e i profumi della patria, dove lasciavano tanta parte di sé stessi. I passeggeri di poppa erano gli infelici strappati alla terra che li aveva veduti nascere dalla bufera delle passioni. dove guardavano avevano il cimitero della madre, la culla del proprio bambino, l'albero di quercia dove una sera avevano dato il primo bacio di amore... Era gente che piangeva e che aveva le braccia conserte convulsivamente e quasi irrigidite.

A prora invece vi erano i fortunati, col sorriso sulle labbra e il petto gonfio di speranza e di gioia. Essi guardavano verso l'America, a cui ogni colpo di ruota li avvicinava; guardavano al loro nido, vedevano già la loro patria, sentivano le grida dei marinai del Brasile o del Plata, sentivano già precipitarsi giù dalle scale di una casa ben nota qualcuno che li attendeva....

Altri fra quei fortunati di prora non avevano patria o l'avevano maledetta, o temerarii si gettavano in un nuovo mondo per cercarvi l'oro, la gloria o le avventure. Davan le spalle alla miseria, alla noia o al disinganno: e per essi l'aurora della speranza dipingeva di tinte azzurrine e irradianti il lembo bigio e sconfinato dell'oceano che ci stava dinanzi.

Fra i piangenti di poppa e i gaudenti di prora, pochi metri di legno e di ferro; ma un abisso senza confine e senza fondo, tutta intera la storia del cuore umano....

Ed io che ho sempre saputo con mano di ferro abbrancarmi il cuore, farlo tacere o lasciarlo palpitare caldo e ardente, contemplava e meditava.

Fra quelli che stavano a prora fra il gregge volgare e inetto che trovate sempre dove molti uomini si addensano, spiccava bella e grande una figura che ti faceva guardare e ammirare sicché tu dovevi dir subito: Ecco un uomo. E quell'uomo, benché avesse i capelli neri e un lampo di fuoco negli occhi, era un inglese. Lo diceva il suo naso fine e roseo, lo diceva sopratutto quella bocca rozza ma ardita che non hanno che gli Inglesi; bocca fatta per comandare a sé stesso e agli altri, quella bocca che sembra appoggiarsi sopra un mento di ferro, quasi volesse farsene un saldo punto di appoggio per spiccare più temerari i voli nel mondo della volontà. Nelle labbra degli Inglesi vi è tutta la loro ostinazione, la loro ferocia di volontà, la loro inesauribile e instancabile attività.

E quel giovane bello e appassionato aveva di quelle labbra. Gioia più pura non aveva mai veduto dipingersi in volto più bello. Quella gioia, che sembrava una ineffabile speranza, doveva essere più grande: perché quell'uomo non poteva essere egoista, in mezzo a tanto pianto e a tante scene di dolore che doveva aver veduto pochi momenti prima, non nascondeva punto la sua beatitudine.

Appoggiato mollemente col braccio destro ad uno dei cordami dell'antenna, pareva baloccarsi colla ondulazione lenta della nave, e fuori di quel punto di appoggio egli era in cielo, era tutto sollevato fuor di sé stesso da una gioia senza nome. Gli occhi eran larghi, aperti fin dove l'uomo può aprirli e il volto, il collo e il petto parevano gonfiarsi sotto l'impulso interno di una forza d'espansione. Quell'uomo divorava l'Oceano e pareva vedervi il suo paradiso e la sua gioia lo faceva sospirare lungamente, profondamente, assaporando il salso aroma della brezza marina. Per certo quel giovane inglese non aveva da un pezzo goduto tanto, né a quel modo.

Quando venne l'ora del pranzo, distratto dalle cure dell'acconciarmi nella mia cabina, non sentii il richiamo della campanelle e giunsi a tavola dopo tutti gli altri. Corrucciato di non poter scegliermi i miei vicini, dovetti pigliarmi l'unico posto che rimaneva. Caso strano! Quel posto non era ad una delle estremità, ma era nel mezzo della mensa; e due uomini respinti da una subita antipatia, dopo esser venuti vicini, avevan lasciato una sedia vuota fra l'uno e l'altro.

Appena seduto volli scoprire la causa di quel fenomeno di elettricità morale e guardare i miei due vicini. Uno di essi (e ne fui felicissimo) era il mio inglese di prora, l'altro era uno di quegli uomini che si conoscono di dentro e di fuori dopo un'ora; ed io dopo pranzo poteva infatti classificarlo nel mio Sistema hominis in questa breve definizione zoologica: «Negoziante amburghese, di anni 35, con 32 denti sanissimi ed uno stomaco da digerire il lavoro di 320 denti; tutto biondo, tutto rosso; ha sempre fame e trova assai lungo il tempo che corre tra il luncheon (ore 1 pom.) e il pranzo (ore 4 pom.)».

Né quel giorno, né poi fino a Bahia, dove il mio vicino era diretto, io potei penetrare d'una linea attraverso quei lardelli amburghesi. In qualunque punto si gettasse lo scandaglio, in qualunque piega del suo carattere io facessi penetrare il mio trequarti esploratore, io non trovava che lardelli e gaudio senza fine. Mi rivolsi dunque all'altro vicino, ma in quel primo giorno non potei averne che monosillabi e mi guardai bene dal turbare quella felicità sconfinata che non poteva né voleva occuparsi d'altro.

Egli era di una distrazione senza pari, e quando gli domandava del sale mi dava del vino e a chi da lungi gli chiedeva una salsa, dava il pane. Sublime distrazione degli uomini veramente felici: atmosfera impenetrabile che li corazza e li isola dal mondo!

 

Dopo il pranzo, l'onda si fece grossa, e i passeggeri si ritirarono nelle loro cabine a scongiurare quel lucifero che si chiama il mal di mare, ed io, rimasto fino a tarda notte sdraiato sopra una panchetta del cassero, vidi rimaner sempre fermo alla prora il mio inglese, che guardava innanzi a sé, e nella brevissima passeggiata che faceva, non sapeva giungere mai fino all'albero maestro e con viva impazienza ritornava presto presto, alla sua prora e al suo orizzonte di felicità, che il buio della notte non poteva nascondergli.

Vi sono curiosità febbrili, ardenti, pruriginose che hanno la forza di una passione e tale era il mio desiderio di conoscere quell'uomo felice, quell'uomo dalle labbra inglesi e dal capo italiano. Un presentimento mi diceva che quell'uomo sarebbe un giorno mio amico. Io avevo allora ventidue anni, e l'ignoto o il fantastico mi inebbriavano in quella prima e calda giovinezza.

Il seguente prima della colazione sapeva già che l'inglese si chiamava William B... Coll'ingenuità di un fanciullo io credeva con questo di aver scoperto gran cosa. Del resto, né alla colazione, né al pranzo, né nelle lunghe ore di noia marina che avvicinano tutti i viaggiatori e ne fanno una sola famiglia, io non aveva potuto attaccar discorso con William. Non fuggiva i passeggeri, ma non li cercava, e rispondeva con tanta distrazione a tutte le domande, che davvero avrebbe scoraggiato il più villano e il più sguaiato degli importuni. Sorrideva, sorrideva sempre come fanno gli uomini felici ma faceva gelare sulle labbra il discorso. Spesso aveva un sigaro fra le labbra, ma non fumava; spesso aveva un libro fra le mani, ma non leggeva; egli era solo, tutto immerso nel bagno voluttuoso d'una felicità infinita.

Senza merito mio, il caso mi diede in mano la chiave per penetrare in quella fortezza.

Eravamo giunti a Lisbona il 14 giugno e la sera stessa ne eravamo ripartiti. La mattina del 15 mi alzai per tempissimo e salii sul cassero per respirare l'aria fresca del mattino. William era già in piedi e stava passeggiando con le mani in tasca; io sentii subito il bisogno di mettermi a camminare dalla parte opposta alla sua, volendo rispettare quella sua felice solitudine: ma intanto lo osservava, dirò anzi, lo andavo studiando. Ad un tratto, lo vidi fare un gesto energico come di chi piglia una subita e forte risoluzione, e, accostatosi al timoniere, rivolgerli la parola.

Allora dimenticai la mia delicatezza, dimenticai il santo rispetto che ho sempre sentito gagliardo per la libertà altrui, e quasi fossi giunto anch'io involontariamente accanto al timone, stetti ad ascoltare il dialogo di quei due uomini nati e cresciuti così diversamente e che in quel momento si raccostavano.

- Voi dite dunque, timoniere, che fra due giorni saremo a Madera?

- Sì, mio signore, purché continui il mare ad essere tranquillo come lo è ora.

- Dunque, fra quarantott'ore a Madera, disse ad altissima voce William, bravo il mio timoniere, bravissimo, aggiunse, fregandosi le mani con una celerità straordinaria e contorcendosi tutto, con una vera convulsione di gioia... Dev'essere un paradiso quell'isola.

Non v'era più dubbio, quell'uomo misterioso aveva a Madera una parte di sé stesso. Il suo cuore divampava dinanzi ad un'attrazione affascinatrice; i suoi occhi ardenti, fissi nella nebbia grigia del mattino, cercavano Madera lungamente, beatissimamente.

«Un uomo felice è indulgente» dissi fra me colla rapidità del lampo, e da uomo delicato diventato sfacciato del tutto, risposi io stesso invece del timoniere a quella specie di domanda che l'altro gli aveva diretta.

- Sì, signore. Madera è un paradiso.

William si voltò bruscamente verso di me, e accorgendosi allora soltanto della mia presenza, mi disse:

- Vi siete già stato altre volte?

- No, ma ho studiata con molto amore quell'isola, ho pensato tante volte di passarvi una parte della mia vita, che mi par di conoscerla, mi sembra di averla già più volte veduta.

- Oh, davvero, davvero!! Ditemene qualche cosa! E, ringraziando e salutando con un cenno brusco ma cortese il marinaio che lo aveva fatto felice, William si mise a passeggiare al mio fianco dalla poppa al camino dello steamer.

William era mio. Come avviene cento volte nella vita, il caso di essermi alzato un'ora prima del solito, l'accidente di essermi trovato accanto al timone in un dato momento, avevano per sempre legato a me un uomo che avevo ormai disperato di poter conoscere.

Dissi a William che avevo studiato profondamente il clima di Madera, poiché da un pezzo era perseguitato dall'idea di essere tubercoloso e mi figurava sempre di serbarmi quel paradiso come l'ultima àncora di salvezza, o come una bara fiorita per riposarvi le mie ossa.

Quando il mio nuovo amico seppe che io ero medico e che avevo studiato il clima di Madera, la sua espansione non ebbe più limite e se io non avessi letto a chiare note sul suo volto che egli non aveva bisogno di mutar clima per guarire i suoi polmoni, avrei potuto figurarmi che si recasse a Madera per curarvi la propria salute.

Quel giorno, l'ora della colazione ci trovò ancora occupati a parlar di Madera; ed io vuotai il sacco della mia erudizione su quell'isola, felicissimo di averla studiata.

In due giorni William divenne mio amico, ma io non gli diressi mai la più piccola domanda, né osai chiedergli lo scopo del suo viaggio. Accanto a lui provava fortissimo quel fascino che le menti superiori e i gagliardi caratteri hanno sempre esercitato sopra di me; accanto a lui sentiva quella potente influenza che fanno sempre provare le grandi passioni. Quale fosse la passione di William, io ignoravo, ma ero convinto che dovesse essere delle più ardenti che consumano il cuore umano; che possono fare dell'uomo, in un'ora, un Dio o un mostro; un miracolo di felicità o un inferno di dolore.

 

 




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