La mattina del 9 giugno 185... alle undici precise io mi imbarcava nel golfo
di Southampton Water sopra un piccolo vaporetto che doveva portarmi sul Thames,
grosso steamer postale, che coi fuochi accesi e le àncore levate, stava
aspettando con impazienza i passeggieri per il Brasile ed il Rio de la Plata.
In quel vaporetto c'era tal folla che non poteva muovermi, e i parenti e gli
amici si accalcavano intorno ai viaggiatori, stringendoli per le mani,
accarezzandoli, piangendo con essi. Quante passioni, quante speranze, quanti
dolori si espandevano senza riguardi in mezzo all'andare e al venire dei
marinai avvinazzati dall'orgia notturna, e le parole d'amore, e i sospiri si
perdevano fra il fracasso dei bauli, delle casse, fra lo strepito del vapore,
che insensibile a tanta poesia, buttava fuori i suoi buffi regolari di fumo
nero e di fumo bianco e insensibile a tanto strazio incomposto di sentimenti
umani, faceva girare le sue ruote con matematica regolarità.
In tanto urto, in tanto tramestìo, cercai una nicchia fra le catene
dell'àncora e una piramide di bauli e là, dando le spalle alla prora, salutai
l'Europa, dove lasciavo tanto tesoro di affetti, salutai il campanile di S.
Michele, ultimo quadro della terra inglese che stava per lasciare per molti
anni.
L'uomo avvezzo a consumar la vita giorno per giorno, ora per ora, minuto per
minuto, portato sopra una corrente che mai non posa, si arresta con voluttà
crudele in quei rari momenti, nei quali vi è rottura improvvisa del filo che lo
ha trascinato lungo l'orbita della vita; si compiace di quell'istante in cui
l'arresto brusco delle abitudini più care, il mutar violento di paese, di
uomini, di cose, l'abbandona solo a sé stesso, in mezzo a un gran vuoto, quasi
nascesse una seconda volta. In quei momenti l'uomo guarda, contempla con
gelosia avara tutte le cose che sta per abbandonare e l'ultimo quadro della
scena che scompare rimane eterna fotografia nella sua anima.
Così avveniva anche di me in quella mattina: ed io salutavo con immenso
amore il paese delle nebbie e del carbon fossile; dei bei prati verdeggianti e
dei branchi innumerevoli di montoni affumicati, delle case grige e piccine e
dei turriti camini delle manifatture. Salutava quella terra da cui la musica
che per caso vi aveva posto il piede fuggì per sempre, chiudendosi le orecchie,
quasi non volesse udire lo strepito incessante delle macchine e il bisbiglio
disarmonico degli uomini. Salutava quella terra dove gli uomini sono rozzi ma
infaticabili e virtuosi; innamorati delle cose difficili e nuove; quella terra
dove ogni uomo è un individuo, ogni pensiero una conquista.
Intanto il nano del nostro vaporetto aveva raggiunto il Thames, e lo aveva
abbordato; e quel gigante smisurato sembrava piegarsi a riceverlo fra le sue
braccia. Convenne far passare sul gigante tutti gli ospiti animati di quel
nano. Era una scena infernale. Peggio fu poi quando gli amici e i parenti
dovettero discendere dal Thames, e lasciar soli i loro cari. Quanto strazio
nella vita umana! Di quanti dolori può mai impregnarsi quella spugna che
chiamiamo cuore!
Gli stewards, gli ufficiali pregavano i parenti e gli amici a voler
scendere, ed i marinai, con minor cortesia li spingevano giù dalle scale; ma
cedendo all'ammonizione facevano pochi passi addietro e rigiravano poi nel
labirinto dei bauli e dei cordami per ritornare ad un saluto più lungo, ad un
bacio più ardente; e sulle fragili scale del Thames una catena di braccia e di
corpi che si stringevano e si facean violenza crudele per distaccarsi, si
componeva e si riannodava fra gli spintoni brutali dei marinai. Convenne che la
campana secca e inesorabile toccasse alla partenza; convenne che il Thames,
indispettito per tanta indisciplina muovesse le sue ruote, perché l'amaro
distacco avesse luogo, perché si vedesse sui due vapori, così disuguali di mole
e così vicini, una pleiade di braccia e di moccichini che si cercavano, si
salutavano, si rimandavano col pianto e colle grida mille saluti, mille
affetti, mille desiderii.
Il vaporetto ci accompagnò ancora, volendo gareggiare col Thames: pareva che
tutto quel pianto e quell'agitar di braccia e quei tenerissimi saluti facessero
raddoppiare la forza dei suoi movimenti, e scivolava e correva nel solco glauco
e spumeggiante che il nostro vapore apriva nelle onde del mare inglese. E
finché ognuno potè riconoscere il volto dei suoi cari in mezzo a quel tramestìo
di gente, e finché più lontano ancora il cuore potè discernere qual fosse il
cuore che agitava il moccichino, il nano accompagnò il gigante, e poi virò di
poppa e si diresse verso la costa.
Allora un grido lontano, un'armonia straziante di singhiozzi e di angoscia
si sentì per l'ultima volta e si perdette nel ciclopico martellar della
macchina che andava conquistando l'oceano colle sue ruote smisurate.
Io contemplava e meditava tristi cose. I miei compagni di viaggio si erano
subito divisi in due schiere, quasi invitati da un muto cenno di comando. I più
erano a poppa, i meno a prora.
I primi accalcati dietro il timone sull'ultimo lembo della nave, non
potevano distaccarsi dalla terra che l'occhio poteva chiamar ancora sua. Essi
volevano fino all'ultimo momento raccogliere le voci e i profumi della patria,
dove lasciavano tanta parte di sé stessi. I passeggeri di poppa erano gli
infelici strappati alla terra che li aveva veduti nascere dalla bufera delle
passioni. Là dove guardavano avevano il cimitero della madre, la culla del
proprio bambino, l'albero di quercia dove una sera avevano dato il primo bacio
di amore... Era gente che piangeva e che aveva le braccia conserte
convulsivamente e quasi irrigidite.
A prora invece vi erano i fortunati, col sorriso sulle labbra e il petto
gonfio di speranza e di gioia. Essi guardavano verso l'America, a cui ogni
colpo di ruota li avvicinava; guardavano al loro nido, vedevano già la loro
patria, sentivano le grida dei marinai del Brasile o del Plata, sentivano già
precipitarsi giù dalle scale di una casa ben nota qualcuno che li attendeva....
Altri fra quei fortunati di prora non avevano patria o l'avevano maledetta,
o temerarii si gettavano in un nuovo mondo per cercarvi l'oro, la gloria o le
avventure. Davan le spalle alla miseria, alla noia o al disinganno: e per essi
l'aurora della speranza dipingeva di tinte azzurrine e irradianti il lembo
bigio e sconfinato dell'oceano che ci stava dinanzi.
Fra i piangenti di poppa e i gaudenti di prora, pochi metri di legno e di
ferro; ma un abisso senza confine e senza fondo, tutta intera la storia del
cuore umano....
Ed io che ho sempre saputo con mano di ferro abbrancarmi il cuore, farlo
tacere o lasciarlo palpitare caldo e ardente, contemplava e meditava.
Fra quelli che stavano a prora fra il gregge volgare e inetto che trovate
sempre là dove molti uomini si addensano, spiccava bella e grande una figura
che ti faceva guardare e ammirare sicché tu dovevi dir subito: Ecco un uomo. E
quell'uomo, benché avesse i capelli neri e un lampo di fuoco negli occhi, era
un inglese. Lo diceva il suo naso fine e roseo, lo diceva sopratutto quella
bocca rozza ma ardita che non hanno che gli Inglesi; bocca fatta per comandare
a sé stesso e agli altri, quella bocca che sembra appoggiarsi sopra un mento di
ferro, quasi volesse farsene un saldo punto di appoggio per spiccare più
temerari i voli nel mondo della volontà. Nelle labbra degli Inglesi vi è tutta
la loro ostinazione, la loro ferocia di volontà, la loro inesauribile e
instancabile attività.
E quel giovane bello e appassionato aveva di quelle labbra. Gioia più pura
non aveva mai veduto dipingersi in volto più bello. Quella gioia, che sembrava
una ineffabile speranza, doveva essere più grande: perché quell'uomo non poteva
essere egoista, in mezzo a tanto pianto e a tante scene di dolore che doveva
aver veduto pochi momenti prima, non nascondeva punto la sua beatitudine.
Appoggiato mollemente col braccio destro ad uno dei cordami dell'antenna,
pareva baloccarsi colla ondulazione lenta della nave, e fuori di quel punto di
appoggio egli era in cielo, era tutto sollevato fuor di sé stesso da una gioia
senza nome. Gli occhi eran larghi, aperti fin dove l'uomo può aprirli e il
volto, il collo e il petto parevano gonfiarsi sotto l'impulso interno di una
forza d'espansione. Quell'uomo divorava l'Oceano e pareva vedervi il suo
paradiso e la sua gioia lo faceva sospirare lungamente, profondamente,
assaporando il salso aroma della brezza marina. Per certo quel giovane inglese
non aveva da un pezzo goduto tanto, né a quel modo.
Quando venne l'ora del pranzo, distratto dalle cure dell'acconciarmi nella
mia cabina, non sentii il richiamo della campanelle e giunsi a tavola dopo
tutti gli altri. Corrucciato di non poter scegliermi i miei vicini, dovetti
pigliarmi l'unico posto che rimaneva. Caso strano! Quel posto non era ad una
delle estremità, ma era nel mezzo della mensa; e due uomini respinti da una
subita antipatia, dopo esser venuti vicini, avevan lasciato una sedia vuota fra
l'uno e l'altro.
Appena seduto volli scoprire la causa di quel fenomeno di elettricità morale
e guardare i miei due vicini. Uno di essi (e ne fui felicissimo) era il mio
inglese di prora, l'altro era uno di quegli uomini che si conoscono di dentro e
di fuori dopo un'ora; ed io dopo pranzo poteva infatti classificarlo nel mio
Sistema hominis in questa breve definizione zoologica: «Negoziante amburghese,
di anni 35, con 32 denti sanissimi ed uno stomaco da digerire il lavoro di 320
denti; tutto biondo, tutto rosso; ha sempre fame e trova assai lungo il tempo
che corre tra il luncheon (ore 1 pom.) e il pranzo (ore 4 pom.)».
Né quel giorno, né poi fino a Bahia, dove il mio vicino era diretto, io
potei penetrare d'una linea attraverso quei lardelli amburghesi. In qualunque
punto si gettasse lo scandaglio, in qualunque piega del suo carattere io
facessi penetrare il mio trequarti esploratore, io non trovava che lardelli e
gaudio senza fine. Mi rivolsi dunque all'altro vicino, ma in quel primo giorno
non potei averne che monosillabi e mi guardai bene dal turbare quella felicità
sconfinata che non poteva né voleva occuparsi d'altro.
Egli era di una distrazione senza pari, e quando gli domandava del sale mi
dava del vino e a chi da lungi gli chiedeva una salsa, dava il pane. Sublime
distrazione degli uomini veramente felici: atmosfera impenetrabile che li
corazza e li isola dal mondo!
Dopo il pranzo, l'onda si fece grossa, e i passeggeri si ritirarono nelle
loro cabine a scongiurare quel lucifero che si chiama il mal di mare, ed io,
rimasto fino a tarda notte sdraiato sopra una panchetta del cassero, vidi
rimaner sempre fermo alla prora il mio inglese, che guardava innanzi a sé, e
nella brevissima passeggiata che faceva, non sapeva giungere mai fino
all'albero maestro e con viva impazienza ritornava presto presto, alla sua
prora e al suo orizzonte di felicità, che il buio della notte non poteva
nascondergli.
Vi sono curiosità febbrili, ardenti, pruriginose che hanno la forza di una
passione e tale era il mio desiderio di conoscere quell'uomo felice, quell'uomo
dalle labbra inglesi e dal capo italiano. Un presentimento mi diceva che
quell'uomo sarebbe un giorno mio amico. Io avevo allora ventidue anni, e
l'ignoto o il fantastico mi inebbriavano in quella prima e calda giovinezza.
Il dì seguente prima della colazione sapeva già che l'inglese si chiamava
William B... Coll'ingenuità di un fanciullo io credeva con questo di aver
scoperto gran cosa. Del resto, né alla colazione, né al pranzo, né nelle lunghe
ore di noia marina che avvicinano tutti i viaggiatori e ne fanno una sola
famiglia, io non aveva potuto attaccar discorso con William. Non fuggiva i
passeggeri, ma non li cercava, e rispondeva con tanta distrazione a tutte le
domande, che davvero avrebbe scoraggiato il più villano e il più sguaiato degli
importuni. Sorrideva, sorrideva sempre come fanno gli uomini felici ma faceva
gelare sulle labbra il discorso. Spesso aveva un sigaro fra le labbra, ma non
fumava; spesso aveva un libro fra le mani, ma non leggeva; egli era solo, tutto
immerso nel bagno voluttuoso d'una felicità infinita.
Senza merito mio, il caso mi diede in mano la chiave per penetrare in quella
fortezza.
Eravamo giunti a Lisbona il 14 giugno e la sera stessa ne eravamo ripartiti.
La mattina del 15 mi alzai per tempissimo e salii sul cassero per respirare
l'aria fresca del mattino. William era già in piedi e stava passeggiando con le
mani in tasca; io sentii subito il bisogno di mettermi a camminare dalla parte
opposta alla sua, volendo rispettare quella sua felice solitudine: ma intanto
lo osservava, dirò anzi, lo andavo studiando. Ad un tratto, lo vidi fare un
gesto energico come di chi piglia una subita e forte risoluzione, e,
accostatosi al timoniere, rivolgerli la parola.
Allora dimenticai la mia delicatezza, dimenticai il santo rispetto che ho
sempre sentito gagliardo per la libertà altrui, e quasi fossi giunto anch'io
involontariamente accanto al timone, stetti ad ascoltare il dialogo di quei due
uomini nati e cresciuti così diversamente e che in quel momento si
raccostavano.
- Voi dite dunque, timoniere, che fra due giorni saremo a Madera?
- Sì, mio signore, purché continui il mare ad essere tranquillo come lo è
ora.
- Dunque, fra quarantott'ore a Madera, disse ad altissima voce William,
bravo il mio timoniere, bravissimo, aggiunse, fregandosi le mani con una
celerità straordinaria e contorcendosi tutto, con una vera convulsione di
gioia... Dev'essere un paradiso quell'isola.
Non v'era più dubbio, quell'uomo misterioso aveva a Madera una parte di sé
stesso. Il suo cuore divampava dinanzi ad un'attrazione affascinatrice; i suoi
occhi ardenti, fissi nella nebbia grigia del mattino, cercavano Madera lungamente,
beatissimamente.
«Un uomo felice è indulgente» dissi fra me colla rapidità del lampo, e da
uomo delicato diventato sfacciato del tutto, risposi io stesso invece del
timoniere a quella specie di domanda che l'altro gli aveva diretta.
- Sì, signore. Madera è un paradiso.
William si voltò bruscamente verso di me, e accorgendosi allora soltanto
della mia presenza, mi disse:
- Vi siete già stato altre volte?
- No, ma ho studiata con molto amore quell'isola, ho pensato tante volte di
passarvi una parte della mia vita, che mi par di conoscerla, mi sembra di
averla già più volte veduta.
- Oh, davvero, davvero!! Ditemene qualche cosa! E, ringraziando e salutando
con un cenno brusco ma cortese il marinaio che lo aveva fatto felice, William
si mise a passeggiare al mio fianco dalla poppa al camino dello steamer.
William era mio. Come avviene cento volte nella vita, il caso di essermi
alzato un'ora prima del solito, l'accidente di essermi trovato accanto al
timone in un dato momento, avevano per sempre legato a me un uomo che avevo
ormai disperato di poter conoscere.
Dissi a William che avevo studiato profondamente il clima di Madera, poiché
da un pezzo era perseguitato dall'idea di essere tubercoloso e mi figurava
sempre di serbarmi quel paradiso come l'ultima àncora di salvezza, o come una
bara fiorita per riposarvi le mie ossa.
Quando il mio nuovo amico seppe che io ero medico e che avevo studiato il
clima di Madera, la sua espansione non ebbe più limite e se io non avessi letto
a chiare note sul suo volto che egli non aveva bisogno di mutar clima per
guarire i suoi polmoni, avrei potuto figurarmi che si recasse a Madera per
curarvi la propria salute.
Quel giorno, l'ora della colazione ci trovò ancora occupati a parlar di
Madera; ed io vuotai il sacco della mia erudizione su quell'isola, felicissimo
di averla studiata.
In due giorni William divenne mio amico, ma io non gli diressi mai la più
piccola domanda, né osai chiedergli lo scopo del suo viaggio. Accanto a lui
provava fortissimo quel fascino che le menti superiori e i gagliardi caratteri
hanno sempre esercitato sopra di me; accanto a lui sentiva quella potente
influenza che fanno sempre provare le grandi passioni. Quale fosse la passione
di William, io ignoravo, ma ero convinto che dovesse essere delle più ardenti
che consumano il cuore umano; che possono fare dell'uomo, in un'ora, un Dio o
un mostro; un miracolo di felicità o un inferno di dolore.
|