Alla vigilia del nostro arrivo a Madera la gioia di William era piena di
agitazione; pareva convulsa. Parlava interrotto, si chiudeva nella sua cabina
cento volte al giorno, e cento volte risaliva sul cassero. Molte volte nella
giornata consultò il suo orologio; sedette a mensa cogli altri, ma di certo non
avrebbe saputo dire ad anima viva con chi avesse bevuto o mangiato. Passò la
notte sul cassero.
Alla mattina del 17 tutti i passeggeri erano in piedi, divorati dalla stessa
curiosità di veder la terra, di guarire ad un tratto dalla lunga malattia della
noia marina. William non c'era; e per quanto poco io lo conoscessi, capii il
perché di quell'assenza. Egli di sicuro, stava spiando la terra dal finestrino
della sua cabina; aveva un orizzonte più ristretto di noi, ma lo vedeva tutto
solo; non sentiva intorno a sé il molesto attrito della turba indifferente e
l'armonia del suo cuore non era turbata dal cicaleccio dei profani.
Al primo apparire, il paradiso di Madera sembrava piuttosto una scena
dell'inferno dantesco. Masse gigantesche di basalti neri neri e rupi rugose coi
piedi nel mare, lacerate, contorte, senza un ciuffo d'erba, senza una casa, e
le onde spumeggianti si rompevano fragorose ai loro piedi. Qua e là, presso la
costa, isolotti neri anch'essi, senz'alberi, senza fiori, corrosi dalle onde,
spezzati e frastagliati, quasi rovine di un mondo minato dal fuoco. Si giunse
al Ponte Saò Lourenco, si lasciarono alla sinistra le tre isole che portano nel
nome la loro storia molto semplice e triste: Desertos. In pochi momenti si
raggiunse un promontorio di basalto, più grosso degli altri, il Capo Carajao.
Quel capo segnava i confini del Paradiso.
Passato il Capo Carajao un profumo di giardino fiorito ci venne incontro
colle brezze della terra, e quella terra era un incanto, era un sorriso di orto
e di ville, di campi verdeggianti e di boschi bizzarri; era una ghirlanda di
tutti i fiori, uno di quei quadri di tutti i colori, che rallegrano il cuore
dell'uomo e gli fanno tirare profondo e riposato il respiro.
Pochi istanti dopo eravamo davanti a Funchal, la capitale dell'isola, che
sembrava mollemente adagiata fra i campi di canne da zucchero e di ignami, fra
gli orti più cupi dei nostri alberi europei e i boschetti fantastici della
banana dalle foglie gigantesche e vellutate: e intorno intorno si apriva un
grande anfiteatro di monti altissimi, vere rupi di giganti: e poi a cornice del
quadro, due oceani forse troppo grandi per quel nido d'amori: l'oceano del mare
e l'oceano del cielo.
E in quel momento non avreste saputo dire quale dei due più s'avvicinasse
all'oltremare o al zaffiro.
Son passato tre volte davanti a Madera e sempre sentii prorompere dal petto
dei più volgari viaggiatori un grido dell'anima. Perché non ho una casuccia in
questo paradiso? Le più grandi voluttà della vita son tutte eguali, trovate per
via come un fiore smarrito allora allora dal seno di una giovane sposa, ci
dànno l'ebbrezza di un lampo e se ne vanno, senza che la nostra mano irrequieta
possa arrestarle o richiamarle; se ne vanno a perdersi nel mondo dell'infinito,
come nuvoletta che si consuma negli spazii del cielo.
L'incanto di quella vista doveva durar poco: un grido di cento bocche, un
pandemonio di cento bestemmie portoghesi, aspre d'accento e più aspre di senso
ci richiamarono al bisogno di sbarcare, di trovarci una barchetta fra le tante
che impertinenti e schiamazzanti battevano il loro capo contro il Thames.
E poi fra gli urli e le grida, appena sbarcati, dovetti a forza aprirmi la
via fra la gente mezzo nuda che mi offriva un albergo; a venditori di bastoni,
a venditrici di merletti; ad un mondo d'altri uomini e d'altre donne che in
ottimo portoghese, in pessimo francese, e in cattivo inglese volevano tutti
qualche cosa da me, senza che io volessi alcuna cosa da loro.
Consummatum est: l'istante della voluttà era consumato, ma io l'avevo
scritto in quella parte del cuore dove nulla si cancella. Nel bilancio delle
forze della vita otto giorni di navigazione erano stati compensati ad usura
dalla rapida fantasmagoria del panorama di Madera: ora la realtà della vita mi
chiamava alla difesa personale, allo studio pratico di Funchal; infine la
poesia cedeva il posto all'amministrazione della vita.
William non era sbarcato con noi.
Un raggio di poesia ebbi anche nella colazione; un bicchiere di antico vino
di Madera, di quel vino che in quell'epoca era già morente e che si sorbillava
con gelosa avarizia da quei fortunati che lo conservavano nei segreti archivi
delle loro cantine; e poi una tazza di caffè, come confesso di non aver bevuto
mai in nessuna parte di Europa, d'Africa o d'America. Mentre lo stavo sorbendo
con voluttuoso raccoglimento mi ricordo di aver fatto una serena meditazione
sulla efficacia dell'educazione. Quel caffè non era di Moka, non era di Yungas:
era modestamente cresciuto nell'orto cittadino del signore che mi offriva la
sua cortese ospitalità, ma egli stesso con amorosa cura ne aveva veduto
maturare i grani ad uno ad uno; ad uno ad uno egli stesso li aveva raccolti,
quando la sua lunga esperienza glieli aveva mostrati degni di entrare in quelle
sue tazze dorate che venivano dalla China.
Pochi momenti dopo aver sorbito quel caffè ed aver fatto quella filosofica
meditazione sull'onnipotenza della scuola a migliorare le cose di questo mondo,
mi trovava a cavallo, come parte integrante di una comitiva di passeggeri del
Thames che si eran proposti di fare una gita a Palheiro do Ferreiro, villa del
conte di Carvalhal, celebre patrizio portoghese che introdusse le prime rane in
quell'isola, infelicissima prima di lui di non possederne.
Cavalli e cavalieri impazientissimi si diedero ad attraversare le vie di
Funchal, e per quanto il profumo dell'aperta campagna mi attraesse
irresistibilmente, dovetti fermarmi davanti ad alcune botteguccie pittoresche,
nelle quali si vendeva ogni cosa vendibile e dove il popolo si accalcava a
comperare pane, vino e ogni cosa necessaria alla vita.
Quelle vendas sono il miglior luogo per studiare il popolo minuto di
Funchal, e là vedete le vecchie maderesi che tutte tiran tabacco, entrare a
comperarsi il loro alimento nervoso, a ciangottare confusamente fra una presa e
l'altra; là trovate raccolti l'arrieiro, il mulattiere, il contadino, che
bevono il loro bicchierino di aguardente. Sulla porta di ogni venda stanno
scritte tre iniziali cabalistiche P. A. V. che rappresentano i grandi bisogni
della vita umana: Paò, Aguardente, Vinho (pane, acquavite e vino). Altre volte
leggete Differentes bebidas.
Già abbiamo attraversato la Rua da Carreira, il corso, il Toledo di Funchal,
e già siam fuori della città che coi suoi sedicimila abitanti non ci può
trattener di certo molto tempo nelle vie, e qui dove siamo, il giardino
incomincia, perché tutta l'isola è un giardino. Io mi sono scostato di pochi
passi dai miei compagni, perché voglio solo, tutto solo godermi i profumi di
quella natura ricchissima.
Andiamo ascendendo per rapide strade chiuse da muricciuolo sconnessi,
cavalchiamo fra campo e campo; ma qualche anima gentile accanto al pane
dell'uomo ha seminato i fiori, e di qua e di là cadono scapigliati dai campi,
cespugli di eliotropii e di geranii, di gelsomini e di rose, tutti fioriti.
Spesso il nostro capo è all'ombra di una vôlta intrecciata di caprifogli e di
passiflore. Mi rizzo sulle mie staffe e ne mangio i frutti aromatici, mi piego
a destra e a manca e a piene mani faccio bottino di rose, di eliotropii, di
fiori dai mille colori. L'abbondanza giustifica il furto. I miei compagni, le
mie compagne raddoppiano il bottino, né la natura feconda appare spogliata
dalla nostra rapina. Le nostre mani non possono trattenere la preda e ci diamo
ad una guerra di fiori, gettando rose contro garofani, e inondando i capelli e
le spalle delle signore di gelsomini e di viole. L'ebrezza del profumo ci
inonda; ed io di quando in quando mi rivolgo indietro e guardo l'Oceano, e
confondo il profumo dei fiori coll'acre sentore dell'onda marina.
Per lungo tratto la strada che ci conduce al Palheiro è ripida e non si può
andare che di passo, ma appena si fa meno erta, ed io mi sento il bisogno di
spronare il mio cavallo quasi volessi sprofondarmi in quella natura
incantevole, in quel mar di delizie, mi accorgo che il mio arrieiro si è
attaccato a due mani alla coda del mio cavallo e colle gambe pendenti si fa
trascinare nella più buffa maniera del mondo. Mi metto a ridere, e alla signora
che mi sta vicino faccio osservare che anche il suo cavallo si trascina dietro
la strana appendice di un arrieiro. Si ride insieme, si ride fragorosamente, ma
i due arrieiros, benché portino la loro carabuza, berretto di panno, azzurro di
fuori, scarlatto di dentro, con un lungo codino ritto ritto; berretto così piccino,
che copre appena l'estremo cocuzzolo del capo, vero solideo buffo che in paese
caldissimo sembra il cappello più paradossale del mondo; ad onta di tutto
questo, gli arrieiros stanno serii al loro posto d'onore e si fanno portare,
sia ch'io vada al trotto o spinga il cavallo al galoppo.
Però a poco a poco divento serio anch'io, e tentando di portoghesare il mio
italiano, dico a quel signore che mi sta dietro che vorrei cavalcare solo; ma
egli o non capisce il mio portoghese o non vuol capirlo, ciò che conduce allo
stesso risultato. Non perdo però la pazienza e mi studio di migliorare il mio
portoghese.
Inutile fatica! l'arrieiro è sempre penzolante alla coda del mio cavallo.
Qui la pazienza si perde, il mio portoghese si smarrisce e bestemmiando in buon
italiano, dò mano alla lingua universale, alla lingua che affratella gli uomini
e ne fa una sola famiglia, alla lingua dei segni.
Do col mio scudiscio due o tre colpi sulla mano dell'arrieiro, che,
bestemmiando alla sua volta, si distacca dalla preda e mi lascia solo col mio
cavallo.
Non l'avessi mai fatto! Quell'appendice vivente pare fosse necessaria al
buon andamento delle cose, perché appena se ne fu distaccata, il mio cavallo
addentò il freno e via, fuggendo fra muri e muricciuoli, senza che io lo potessi
frenare un momento. La mia posizione era difficile; ma pochi minuti dopo
divenne difficilissima. Il cavallo si gettò ad un tratto in un sentiero di
traverso che appena appena lo lasciava passare e rasentava l'orlo di un abisso.
I miei piedi si rompevano contro le pietre del muricciuolo; i miei occhi si
smarrivano entro un abisso di centinaio e centinaia di metri, e il mio cavallo
sbuffando e pieno di schiuma il petto, correva come fosse indiavolato.
Fu un lampo di un minuto; tutta la mia forza era raccolta ad un solo fine :
quello di tenermi in sella; ma il mio cervello vagabondo giunse a formulare
questo pensiero che non potrò più dimenticare: Se le mie ossa fra un minuto si
trovassero giù nel profondo di quell'abisso, che cosa proverei? Sentii un freddo
profondo, subitaneo, che, come brezza improvvisa sul lago, mi corruscò per
tutto il corpo.
Un momento dopo il cavallo era in mio potere, a avendo smarrito la via e i
compagni, mi trovai in una bella strada, di lieve pendio, larga, aperta fra'
campi di zucchero. Il mio cavallo era sudato, ma lo ero anch'io.
Dinanzi a me stava il mare che mi pareva vicino, e sul suo piano di un
azzurro senza nome una bianca vela sembrava folleggiare tranquilla e lieta. Ad
un tratto allo svolto della via vedo dinanzi a me, ma lontano forse cento
passi, una giovane signora a cavallo, tutta sola. Mi pareva sognare, mi credevo
in pieno Ariosto. Il cavallo andava al passo, e la signora, allentate le
briglie sul collo, posava come persona stanca o malata, piegata sopra sé
stessa. Il corpo era sottile, ma elegante, coperto d'un lungo vestito azzurro
all'amazzone. Il collo sottile col capo inclinato anch'esso sulla spalla: da un
cappellino di velluto nero e ornato con una penna di fagiano piovevano sulle
spalle folti capelli biondi.
Volli mettere al trotto il mio cavallo per raggiungere quella fantastica
apparizione, ma un'altra volta il destriero, non sentendosi moderato nei suoi
furori dal contrappeso vivente, si slanciò come saetta lungo il cammino,
raggiunse la signora in un baleno ed io ebbi appena tempo di accorgermi, quando
l'ebbi avanzata, che anche il di lei cavallo, preso sa subita emulazione, si
era dato alla stesso corsa furiosa. Tremai per la signora, ma ero impotente a
tutto; perché sulle ali del mio demone correva e correva sempre.
Appena potei, con tutta la forza delle mie mani, temperarne la foga, sentii
dietro a me il galoppo d'un altro cavallo, guardai; ma la sella era vuota. Non
pensai più ai capricci del mio cavallo; volsi le briglie e a pochi passi
sull'orlo d'un campo vidi la bella signora distesa al suolo e svenuta. Là
dov'era caduta non v'eran pietre; sperava che nulla di male le fosse accaduto;
balzai dal cavallo, corsi ad una vicina sorgente e colla mia barcuccia di pelle
portai dell'acqua là dov'era, e le spruzzai alcune gocce sul volto
pallidissimo. Raccolse un braccio che teneva ancora in pugno uno scudiscio dal
pomo d'argento e sospirò, ma non rinvenne.
Allora pensai di slacciarle il vestito, ma benché avessi ventidue anni, non
osai, tanto mi batteva forte il cuore per l'emozione e le spruzzai nuova e
molta acqua sul bel viso. Aperse gli occhi e, veduto che mi ebbe, di
pallidissima divenne rossa e non seppe che richiuderli e mormorare un: Sir, I
thank you.
Quella donna giovinetta era un miracolo di delicata bellezza e di melanconia
profonda. I capelli d'un oro castagno si eran disciolti dalla reticella e le
cadevano sul collo e sul petto con ampio volume. Li raccolse e con uno sguardo
fugace, si accorse che, nella caduta, assai più del piede si era scoperto; e col
corpo addolorato si coperse; potendo assai più il pudore che il dolore. Chinato
al suolo dinanzi a quella creatura, felice di poterla aiutare, ebbi pochi
momenti di quella delizia, perché per quella stessa via ond'io era venuto,
sentii avvicinarsi il trotto di un cavallo.
Era William, col volto pallido, improntato ad una angoscia senza nome. Mi
riconobbe, si fermò, e appena potè gettare uno sguardo al suolo, sentii due
grida nello stesso tempo, come non ne aveva sentito mai e come forse non ne
sentirò più nella mia vita:
- William!...
- Emma!...
Quanta passione, quanto dolore, quanta gioia, quanto delirio in quelle due
grida! Io non ne sentii nell'anima che l'eco lontana, ma ne ebbi sgomento, e
precipitandomi sul mio cavallo, dissi a William:
- Signore, abbiate cura della poveretta. Vado a raggiungere il mio cavallo.
E lo raggiunsi e lo ricondussi a quelle felici creature che, con le mani
strette, si stavano guardando e piangevano, e nel velo delle lacrime brillava
loro in volto una passione ardente, una gioia senza confine.
Chi può ricordarsi ora di quel che mi dicessero quegli innamorati?
William non poteva parlare e forse mi singhiozzò qualche parola. Credo che
mi stringesse la mano e mi chiamasse suo amico, ma non ricordo che me la stringesse
anche Emma. Mi affrettai a lasciarli soli, dopo aver saputo che la signora non
si era prodotta la più piccola contusione e che non avevano bisogno di me.
Ritornai a Funchal, commosso come chi ha assistito ad una grande catastrofe,
ad una scena sublime di passione, di grande sventura o di ineffabile gioia.
Eppure quella catastrofe non era che l'incontro di un uomo e di una donna.
Ma i maggiori avvenimenti dei popoli e degli individui non nascono, non si
trasformano, non si sciolgono con questa semplicissima combinazione: l'incontro
d'un uomo e d'una donna?
Il Thames non levò l'àncora che a tarda sera. Tutti ritornavano a bordo,
cantando e ridendo, felici della loro giornata; gli uomini riscaldati dal vino
vulcanico dell'isola, le donne inebbriate dal profumo dei fiori, esaltate dal
moto dei cavalli ardenti di Madera; tutti colle mani piene di canestri eleganti
di paglia, di ninnoli graziosi di legno, di merletti bellissimi, tutti
contenti, chiassosi, cianciosi.
Io invece ero nascosto nella mia cabina e guardava ogni schifo che si
staccava dalla riva per sapere se in esso vi fosse il mio William. E vedete,
mistero del cuore umano, desiderava ardentemente di vederlo ritornare, benché
solo. Tremava che rimanesse nell'isola, e lo volevo a bordo ancora con me,
benché solo e benché infelice. Dinanzi a quei due, mi sentivo uno straniero, un
intruso; ma mi pareva che anch'io dovessi riscaldarmi al sole di quella
passione, quand'anche non avessi dovuto essere che il cagnolino che ai piedi
del leone lecca, ammira ed ama.
Ma William non venne a bordo, né solo né accompagnato. La notte era
profonda, ed io chiusi con dolore la finestrella della mia cabina.
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