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Paolo Mantegazza
Un giorno a Madera

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    • 5 - Reliquie di William e di Emma
      • 1 - William ad Emma - Londra, 12 gennaio 18...
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5 - Reliquie di William e di Emma

 

1 - William ad Emma - Londra, 12 gennaio 18...

 

Voi vorrete perdonarmi se vi scrivo: vorrete perdonarmi ancora se vi scrivo come se questa non fosse la mia prima lettera a voi diretta, ma la centesima e la millesima. La parola scritta è più solenne della parola parlata, questo è verissimo; e non ho mai sentito come in questo momento la verità di questo fatto, ma credo di avere il diritto di dirigervi il mio pensiero anche per questa via. È già più di un anno ch'io vi ho veduta, e voi sapete dove e come e quando. Nell'incertezza che mi tormenta, ho questa carissima compiacenza che anche voi ricordate quel giorno, quell'ora, quel momento.

E da quel giorno, miss Emma, voi lo sapete, io non ho pensato che a voi, io non ho cercato che voi, io non ho vissuto che col vostro nome sulle labbra, colla vostra immagine nel cuore. Ho amato tutte le creature vestite di azzurro, ho prestato un culto di adorazione al cielo azzurro, ai fiori azzurri, ai nastri azzurri, perché vi aveva veduta per la prima volta vestita con un abito bianco, stretto da un lunghissimo nastro di quel colore.

Perdonate la mia puerilità, ma io ho adorato le lettere dell'alfabeto che, intrecciate fra loro, formano il vostro nome. In tutto quest'anno di speranze ineffabili e di tormenti senza nome, ho voluto aver la potenza di Napoleone il grande, il genio di Byron, le ricchezze di Rothschild per essere degno di voi, per poter gettare ai vostri piedi potenza, oro e genio, e dirvi: tutto questo è vostro; tutto questo in cambio di un sorriso che mi dica: io ti amo.

Io vi ho seguito da per tutto, a Londra, a Bath, in Italia; son riuscito a farmi presentare in casa vostra, mi son fatto amare da vostra zia: io mi son sentito trascinato nella vostra orbita, e senza di voi e fuori di voi non mi sentiva vivo. E tacevo sempre. Timido, riservato, a volta a volta pieno di terrore per l'orgoglio di avere osato amarvi, io taceva sempre e vi guardava.

Con uno sguardo avreste potuto farmi il più infelice tra gli uomini, potevate allontanarmi per sempre da voi; ma invece voi vi lasciaste guardare; e quando nei miei occhi versava tutto il fuoco della mia passione, dei miei desiderii, tutto il torrente dei miei pensieri che eran tutti vostri; quando, guardandovi profondamente, caldamente, convulsamente, io parlava colla parola delle pupille ai vostri occhi, voi smarrivate sovente la serena e malinconica pace del vostro volto; i vostri occhi lampeggiavano anch'essi e d'un subito nascondevano il loro fuoco sotto il velo delle palpebre. Oh! non dite che non mi amate; io non lo crederei. Chiamatemi stolto, superbo; insultatemi col peggiore dei vostri disprezzi, ma non mi dite una menzogna inutile.

Al di sopra delle molte reticenze dell'educazione, al di sopra dell'ipocrisia, al di sopra delle cento lingue che separano gli uomini e li fanno stranieri gli uni agli altri, Dio ci ha lasciato un raggio di luce del suo paradiso; e ce l'ha messo nel fondo delle nostre pupille. Due occhi nel lampo d'un minuto, possono scagliarsi contro torrenti di bile, vampe di desiderio, onde d'amore; l'occhio può odiare, può disprezzare, può adorare; può fremere, può dubitare e può bestemmiare e benedire. L'occhio può comandare e obbedire; può chiedere e rispondere; può tutto fuorché mentire. Così cogli occhi vostri avete detto d'amarmi, e se mi amate perché mi fuggite? E voi mi fuggite da un mese: voi mi fuggite da quella sera in cui a bordo del Thyne noi passavamo insieme la Manica. Voi ritornavate da un viaggio in Italia, fatto con vostra zia, viaggio che io aveva fatto con voi, accompagnandovi di lontano, e scomparendo e ricomparendo a volta a volta, or combattuto dal rispetto e dalla convenienza, or trascinato nell'orbita del mio sole.

Ma il Thyne ci aveva raccolti sotto lo stesso tetto, e, in una bellissima sera, col mare tranquillo, colla luna che si nascondeva a compariva fra i fiocchi densi di fumo del nostro battello, voi eravate seduta sopra una panchetta del cassero davanti a vostra zia, che, dopo di aver ascoltato il mio lungo cicaleccio, si era addormentata.

Voi mi lasciaste parlare, e guardando la luna, vi compiacevate di nasconderla ad ogni momento agli occhi vostri con un grazioso piegar del capo che vi faceva sparire l'astro della notte dietro il tubo nero nero del camino. Io non so quel che dicessi, ma parlava sempre; e continuava a parlare, perché mi ascoltavate volentieri. Io non vedevo la luna, né il solco bianco e spumeggiante e tranquillo che il Thyne apriva nel campo di bronzo dell'Oceano, e non vedeva che una cosa sola, il vostro volto divino che sembrava tuffarsi tutto nella luce serena ed argentea della luna. Avevate tirato all'indietro i vostri riccioli che, allungati dall'aria umida della notte, baciavano le vostre spalle, quando una brezza capricciosa non li portava ad accarezzarvi il mento.

Non ebbi in quelle ore che un solo dolore che mi fece ripensare cose tristi: era la vista delle coste d'Inghilterra che si andavano facendo sempre più chiare ai miei occhi. Voi in tutta la sera non mi diceste che una parola sola:

- Che ne dite William? Un tubo di ferro basta a nascondere tutto un mondo, un fiocco di fumo basta a celar tutto il mare di luce che spande intorno a sé la luna. Non è forse così di tutta la vita, di tutto l'uomo? Vedere il cielo e non toccarlo mai, sentir Dio e non intenderlo, abbracciare il mondo e morire di mal di ventre.

Non so quel che risposi ma mi ricordo che voi, un momento dopo, avete lasciato cadere sul cassero il vostro fazzoletto su cui appoggiavate il capo. Io mi chinai a raccoglierlo, le nostre mani si incontrarono e la vostra strinse la mia. Quanto abisso mi si aperse in quel momento! Emma, il tempo non esiste per il pensiero, l'orgoglio non fu fatto per misurare i moti del cuore.

So questo, che voi di quella stretta vi pentiste o aveste paura... Vi alzaste in piedi, diceste che l'aria della notte vi faceva male; svegliaste bruscamente vostra zia e con lei vi ritiraste nella vostra cabina. Tutto questo fu l'affare d'un minuto; credetti d'aver sognato: non so se risposi al vostro asciutto e freddo: Buona notte, M. William. Questo solo ricordo, che rimasi solo, inorridito di me stesso: tremante come un fanciullo, colla coscienza di essere in un momento solo un verme e un Dio.

Metà della mia anima gridava ancora esultando:

- William, tu sei l'uomo più felice del mondo! mentre l'altra metà, malata, intirizzita, mi gridava anche più forte:

- Tu sei la più sciagurata, la più miserabile delle creature vive!

Da quella sera, miss Emma, un abisso ci ha separati. Voi mi avete sfuggito, e non contenta di cambiare ad un tratto il luogo della vostra passeggiata, la casa dei vostri ritrovi, voi non avete più voluto incontrare i miei occhi per quanto questi vi cercassero sempre, domandandovi l'elemosina d'uno sguardo. E perché mai mi avete stretto la mano, se questa felicità d'un istante doveva darmi tanto dolore? E che avete in voi che sia più forte del vostro cuore? Perché e come avete nell'anima vostra due genii, uno dei quali benedice e l'altro maledice? Perché mi straziate voi a questo modo? Non sapete voi forse che cosa sia il dolore? Non sapete voi che io vivo soltanto perché mi tormenta e mi innamora il pensiero crudele che anche voi soffrite, che anche voi maledite qualche cosa o qualcuno che s'è posto fra me e voi?

Sì, io vi vedo ogni giorno con gioia crudele divenire più pallida; e spesso leggo sul vostro volto con voluttà dell'assassino le lagrime da voi versate nel silenzio della notte. Voi non dormite e voi piangete; così come io piango, così come io non dormo. Questa barbara gioia mi tiene vivo, questa voluttà crudele mi tiene in sesto la ragione che, ad ogni momento, sta per rompere la vôlta del mio cranio, coll'eruzione del delirio, coll'incendio della disperazione.

Vi amava, vi amava in silenzio; vi amava tanto che l'idea che un giorno avreste potuto essere mia mi dava la palpitazione di cuore, mi faceva quasi paura. Non mi sentiva degno di voi: voleva adorarvi, voleva circondarvi poco a poco di un'atmosfera che fosse tutta un'emanazione del mio cuore.

Voi non sapete qual riforma avete fatto di me stesso: qual profonda analisi ho fatto del mio carattere per rendermi degno di voi. Dove trovava una macchia, dove scopriva una debolezza, io vi portava il ferro e il fuoco e metteva al posto della macchia e della debolezza il vostro nome, la vostra immagine divina, il mio amore per voi. Io aspettava di sentirmi perfetto, di sentirmi degno di voi per potervi dire con le labbra tremanti ma con la fronte alta:

- Emma, voglio esser vostro; datemi la mano; siamo degni l'un dell'altra.

E il giorno non era venuto ancora. Io vedeva spuntare di lontano nella nebbia dell'orizzonte l'alba di quel giorno, di quell'ora di paradiso, ma un immenso desiderio, ma un'angoscia senza nome mi davano coraggio ad aspettare, perché in fondo di quella via, vedeva la mia Emma. Ah Emma, miss Emma, voi m'intendete di certo, voi sentite in questo momento quel ch'io sento!

Ma voi avete rotto l'incanto, voi avete gettato a terra dalle fondamenta il tempio dove voleva collocare il mio Dio, voi avete con mani crudeli, strappato dal cespuglio di rose il nido dove voleva collocare il nostro amore; avete messo quel nido sotto i vostri piedi; l'avete calpestato, l'avete fatto in pezzi. Ed io ho gettato il bastone da pellegrino con cui andava alla mia Mecca, e ho gridato come un viaggiatore che, ritornando in Europa con la fortuna laboriosamente raccolta in molti anni di lavori e di stenti, si trova assalito dai ladri. Sì, miss Emma, io sono stato brutale. Io mi son presentato a vostra zia e vi ho chiesta in isposa, vi ho chiesta, come foste una donna qualunque; come se anch'io, venuto all'età di raccoglier le vele, avessi deciso di prender moglie. Vi ho chiesto la vostra mano, per l'eternità, prima di sapere se a bordo del Thyne essa avesse stretto la mia per distrazione o per amore. Ho battuto alla porta del paradiso, e col denaro in mano ho picchiato, perché il portiere mi aprisse, perché mi desse il mio biglietto d'entrata. Giammai potrò perdonarmi questa brutalità, questo atto d'uomo disperato.

E sapete voi che cosa mi rispose vostra zia? Ella, seria in volto, si turbò assai, ebbe una gran difficoltà a poter pigliar fiato e potermi rispondere; ma timidamente non seppe dirmi altro se non queste parole:

- Domandatene a miss Emma. Ella ha il giudizio di una vecchia; elle è il solo giudice di codeste questioni; i suoi desideri sono i miei.

E parlando e salutandomi, parve mi guardasse con compassione, con tenerissima compassione.

Ed io son qui ai vostri piedi, come un condannato che dopo un lungo carcere ingiustamente patito, coll'animo rotto e colle vertigini dello scoraggiamento, aspetta una parola che lo ritorni ad esser uomo.

Ed io son qui, miss Emma, avvilito di aver chiesto la vostra mano ad una zia, di aver scritto cose che gli occhi nostri soltanto avrebbero dovuto dire, di avere fatto una domanda brutale, sconveniente, indegna di voi e di me. Mi son trovato col mio palazzo in rovine, col mio tempio scomparso: mi son visto lacero, affamato, avvilito, in mezzo ad un deserto, e pochi momenti dopo essermi creduto il Re dei Re, ho domandato il pane dell'elemosina al primo viandante... E questo pane l'ho chiesto a voi, mia regina, a voi Dio del mio cielo.

 

 




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