Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Paolo Mantegazza
Un giorno a Madera

IntraText CT - Lettura del testo

    • 5 - Reliquie di William e di Emma
      • 10 - Emma a William - San Terenzo, 20 aprile 18...
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

10 - Emma a William - San Terenzo, 20 aprile 18...

 

Mio William, mio caro William; hai tu bisogno che io ti dica per chi batta il mio cuore, dopo tanti mesi di comuni angosce, dopo tanti dolori comuni; hai tu bisogno delle parole per sapere chi ama la tua povera Emma? Non lo sai tu meglio di me? Ma Emma non può esser tua, né d'altri; ella è legata da un santo giuramento a viver sola, a morir sola.

Il mio sangue è maledetto, è sacrato fatalmente a spegnersi in sé stesso, il tuo amore e il mio e tutte le forze umane unite insieme non potrebbero scongiurare questa sentenza inesorabile, dinanzi a cui la tua Emma ha piegato il capo già da parecchi anni, anche prima che ella ti avesse conosciuto.

Giurai a mio padre di non esser mai la sposa di un uomo, quando io ignorava che cosa fosse l'amore, e quando l'affetto per mio padre mi riempiva tutto il cuore. Giurai di non portar mai sulle mie ginocchia un bambino che mi guardasse teneramente e sorridendo mi dicesse: mamma! quando io stessa era poco più di una bambina. Ora so che cosa voglia dire amare: so che è qualche cosa più che il vivere; indovino ora che cosa debba essere una madre: ma non sarò mai né sposa, né madre, né potrò mai violare il mio giuramento. Oh! perché mio William, un destino crudele ti ha spinto sul mio sentiero, perché mi hai amata, perché mi hai tanto amata? Io sola avrei portato il peso del mio dolore, io sola mi sarei perduta nel vuoto infinito della mia solitudine, sola con la memoria di mio padre, fiera di adempiere un dovere, di serbarmi fedele alle sue ceneri, alla santità della mia parola! Perché mai ti ho tratto nel vortice della mia fatalità inesorabile, immutabile? Stammi a sentire, mio William, e vedi quale dolore eguagli il mio.

Non so se nascessi, come tutti gli uomini, piangendo, ma ricordo che la mia fanciullezza fu un solo pianto, che divenni grandicella piangendo e che le lacrime più amare ho versato poi, quando divenni una donna. Ho vissuto in mezzo ad un dolore che, variando sempre, non si stanca mai.

Giuocava colle mie sorelle maggiori, aveva carissimo sopra tutto un fratello, John, di dodici anni; e quando io non poteva vivere senza di lui, cadeva malato e dopo pochi mesi di letto moriva; e mi ricordo di Jenny, un angelo di sorella, sempre vestita di bianco, con una lacrima negli occhi che non si asciugava mai, e che moriva anch'essa, assottigliandosi adagio adagio come un pezzo di zucchero che si vada sciogliendo nell'acqua. Nel crepuscolo delle mie più antiche memorie mi ricordo di aver detto un giorno a Jenny: - Perché diventi tu ogni giorno più pallida e più sottile?

E Jenny, con uno scoppio di pianto corse nella sua camera, gridando: - Perché io muoio.

Nella mia casa non si rideva mai. Quando i fratelli piccini facevano chiasso, veniva nostro padre con un cipiglio così serio da far spavento a un eroe e ci faceva tacere. C'era sempre qualche ammalato a letto, che non si doveva disturbare. Il medico e le medicine andavano e venivano sempre da casa nostra con eterna monotonia. Anche a tavola si taceva sempre e ci eravamo abituati a mangiare senza far stridere la forchetta e il coltello sul nostro piatto, a bere senza sbattere i bicchieri contro le bottiglie. Per molti anni mi ricordo che in casa nostra si era sempre vestiti a lutto.

Eravamo dodici figli; e tu vedi, sono rimasta sola; io l'ultima; e nascendo uccisi mia madre che non ho mai conosciuto.

La zia Anna mi allevò e l'amo tanto perché mi dicono che molto rassomigli alla mia povera mamma.

Anche mio padre era sempre malato, tossiva sempre, e mi ricordo che per molti inverni si andava con lui a Nizza o a Pisa. Una volta si andò fino ad Algeri e si rimase per alcuni mesi a bordo d'una nave. Potrei contare le parole che mi ha detto mio padre in tutta la mia vita; ma spesso mi teneva sulle ginocchia e mi baciava cento e cento volte, e passava la sua mano fra i miei capelli. Egli stesso mi pettinava e mi vestiva, ed io lo amavo e lo temevo in una sola volta; provava per lui una venerazione come quella che si sente quando si prega Dio in una chiesa grande e deserta. Mio padre era così infelice, portava sul volto le tracce di un dolore così profondo, così infinito, che non lo si poteva guardare senza una compassione piena d'amore e di rispetto.

Venuta ai quindici anni, io era rimasta sola di tutti i figli nati a mio padre. Erano morti tutti tisici e mio padre era tutti gli anni minacciato di morire nella stessa maniera.

Ricordo, che baciandolo, io dovevo badar sempre a non stringergli il braccio sinistro, perché si portava una piaga che i medici gli avevano aperta nelle carni. Molte volte i servitori di casa mi guardavano in aria di compassione e mi dicevano con una pietà crudele: - Questa povera Emma tiene duro, essa non vuol morire, ma chi sa poi che ne sarà di lei? - Una cameriera di mia zia, che era pure una buona donna, mi fece piangere una volta, un giorno intero. Mio padre mi aveva proibito di recarmi alla sera nel parco di casa, dicendo che il fresco della notte mi avrebbe fatto male: ma una sera la luna splendeva bellissima dietro i pini del ruscelletto e io pregai la mia Mary di accompagnarmi nel parco. Sapeva di disubbidire a mio padre, ma voleva che Mary si facesse mia alleata e mi aiutasse a commettere quel peccato. Mary esitò alquanto, e poi, coprendomi con un caldo mantello, mi disse: - Andiamo, andiamo, Emma, alla fine godi della vita che ti resta; anche le tue sorelle ed i tuoi fratelli hanno usato di tutte queste precauzioni, eppure sono morti; vieni, andiamo, andiam nel parco.

Io mi diedi a piangere e non volli andare a vedere la luna sotto i pini del ruscello, e, singhiozzando forte dissi a Mary ch'io voleva ubbidire a mio padre, e che non volevo morire. Piansi tutta quella notte e tutto il giorno appresso.

Così, mio William, passò l'infanzia della tua Emma; così vissi l'adolescenza, e quando mi sentii donna, nell'età in cui alle altre giovinette s'apre un mondo di paradiso, tutto poesia e tutto speranza, io era già abituata a non vivere che nel pianto, e vedendo la mia famiglia così infelice e senza colpa d'alcuno, più d'una volta mi domandava perché Dio fosse stato così ingiusto verso di noi; perché mai noi soli dovessimo essere consacrati a vivere in un cimitero che aveva sempre aperta una fossa per noi.

La povera zia Anna era una buona donna e tu la conosci, mio William, una buonissima donna che aveva fatto da infermiera a mia madre e agli undici miei fratelli; ma ella non mi confortava mai con lunghi e cari discorsi. Ella non piangeva mai, perché aveva gli occhi sempre umidi e rossi, quasi fossero stanchi ormai ed esauriti per aver tanto lagrimato e quando io la interrogava per scoprire qual terribile mistero pesasse sulla nostra casa, rispondeva qualche monosillabo e subito si occupava del mio giubbettino di flanella e delle mie calze umide; ed io non poteva respirare una volta di più del solito senza che tutti se ne sgomentassero, senza che mi mettessero a letto e chiamassero il medico.

Quando fui giovinetta, mio padre chiamò un nuovo medico, il dottor Thom, che d'allora in poi divenne il suo amico più caro, e che fu l'unica persona ch'io vedessi sorridere, l'unica che portasse un raggio di luce e di letizia nelle tenebre eterne della nostra famiglia. A lui devo le sole consolazioni della mia prima giovinezza.

Mio padre, quando ebbe perduto tutti i suoi figliuoli, ed io sola gli rimasi, mi faceva visitare ogni giorno dal dottor Thom, anche quando io mi sentiva benissimo; ma quel buon dottore trovava modo di non seccarmi mai, e concludeva sempre colle stesse parole:

- Miss Emma è delicata ma è sana, non c'è alcun timore.

Un autunno mio padre era più malato del solito e il dottor Thom lo consigliò a recarsi presto presto a Mentone. Si partì, ma il mio povero babbo era talmente debole che convenne fermarsi ad ogni tratto del cammino e si impiegarono quindici giorni per andare da Londra al Mediterraneo.

A Mentone passò l'inverno quasi sempre a letto ed io dovevo passeggiare pei prati e pei monti sola con la governante, perché mio padre diceva sempre, contro il parere dei medici, che il suo male era contagioso; e non voleva che io rimanessi più di pochi momenti nella sua camera: e anche quando, al mattino e alla sera, si andava a dargli il primo e l'ultimo saluto della giornata, egli non voleva mai baciarmi sulle labbra, ma solo sulla fronte. Sul finire del febbraio parve migliorasse alquanto. Il dottor Thom era venuto da Londra e aveva suggerito un cambiamento nel metodo di cura che lo aveva rinvigorito in pochi giorni.

Si alzava e, appoggiato ad un bastone, andava a passare alcune ore nel giardino. La zia Anna ed io eravamo liete assai di questo miglioramento, ma quando si cercava di far sorridere il nostro malato, egli crollava il capo e mostrava sul volto una disperazione che ci faceva paura.

Un giorno si alza per tempo e gli ordini di prepararci per ritornare a Londra. La zia Anna ed io, sgomentate per questa imprudente risoluzione, corriamo da lui, tentando di smuoverlo dal suo proposito. Il dottor Thom gli aveva imposto di rimanere a Mentone, finché egli stesso non gli avesse dato licenza di partire, ma per la prima volta, mio padre disubbidiva al suo medico. La zia Anna gridò, minacciò, io mi gettai alle ginocchia di mio padre, e, abbracciandolo stretto stretto, lo scongiurai per amor mio a voler aspettare che l'aria si fosse un poco intiepidita per intraprendere quel viaggio temerario.

Tutto fu inutile, ed egli era tanto esasperato che si alzò gridando: Voglio andare a morire in Inghilterra; voglio morire in casa mia. Non aveva mai udito quell'accento a mio padre, e ritirandomi per preparare i nostri bauli, lungamente piansi, perché in quelle parole aveva creduto di leggere la sentenza di morte del mio povero babbo.

In otto giorni si andò a Londra: ma mio padre vi arrivò in uno stato deplorabile. Il dottor Thom, appena lo ebbe veduto, crollò il capo e disse:

- Quest'uomo ha voluto ammazzarsi!

Erano dieci giorni che mio padre era a letto divorato da una febbre gagliarda, quando una sera mi mandò a chiamare. Era tarda l'ora ed io era già presso a coricarmi. Lo trovai solo; la lucerna era velata e nascosta. Mio padre era seduto sul letto, e appena mi appressai a lui, mi prese per mano e sentii che la sua era ardente e piena di sudore. Senza lasciare la mia, mi fece sedere sul letto, e mi disse:

- Emma, sai tu perché son morti tutti i tuoi fratelli, tutte le tue sorelle? Sai tu perché la nostra casa è stata per tanti anni un cimitero?... Perché io ho ucciso tutti i miei figliuoli.

E mio padre si asciugò il sudore dalla fronte così pallida che pareva di cera, e si passò la mano nei capelli.

- Sì, mia Emma, ho ucciso i tuoi fratelli; ho ucciso le tue sorelle ed ho condannato te ad una vita infelice.

- Babbo, mio caro babbo, tu deliri, - mormorai.

- No, io non deliro; io era ammalato, aveva nel sangue il germe della malattia che ora mi uccide, e l'ho trasmessa ai miei figliuoli e li ho uccisi. Io non aveva il diritto di diventar padre, e ho voluto avere una famiglia; io doveva subire solo la condanna della natura, e invece ho voluto avere dei figliuoli, e li ho avvelenati col mio sangue, li ho uccisi, capisci?...

E mio padre, preso da un accesso di tosse fortissima, dovette riposare e bere a più riprese per ripigliare il suo discorso.

- E tu, mia Emma, porti nel sangue lo stesso veleno: e gli sforzi dell'arte soltanto e una postuma pietà della Provvidenza soltanto ti hanno conservata, perché avessi a chiudere gli occhi al tuo povero padre, che senza di te sarebbe morto solo, solo coi suoi rimorsi e il peso di un pentimento che non ha a finire che nella fossa; ma tu, mia Emma, non puoi diventare sposa di altri; tu non hai a diventar madre. Me l'hai a giurare, mia Emma, qui su questa carta che ho scritto per te, e che leggerai quando io sarò morto. Tu hai a vivere colla zia Anna. Fa quel che vuoi: dedica la tua vita alle arti; ai viaggi, alla beneficenza, alla religione; tutto ti concedo, ma non esser moglie di alcun uomo, mai, mai. Me lo giuri, Emma... solo con questo tuo giuramento morrò tranquillo.

Io piangeva e soffocava il pianto per non fare disperare mio padre; non capiva nulla di tutto questo; capiva solo che una mia parola avrebbe consolato mio padre moribondo; ma i singhiozzi e le lacrime non mi lasciavano parlare.

- Ma giuralo, dunque, mia Emma, giuralo; io muoio; non posso aspettare.

Mio padre ansava orribilmente.

- Sì, lo giuro, mio babbo, lo giuro.

- Giuralo per tua madre, per tuo padre.

- Sì, babbo, giuro per te, per mia madre. Vivrò e morrò sola.

Mio William, gli occhi di mio padre lampeggiarono allora di una gioia divina. Mi gettò le braccia al collo, mi coperse di baci ed io, accanto a lui, piangeva e piangeva e sentiva che le braccia e le mani si andavano raffreddando. Non ricordo più quello che avvenisse più tardi; questo solo ricordo che pochi momenti dopo mio padre era morto.

William, intendi ora perché Emma non può essere tua? Intendi tu ora il mio dolore? Hai tu ancora il coraggio di maledirmi? William, leggi che cosa stava scritto sulle pagine lasciatemi da mio padre; leggi e vedi se alcuno in questo mondo possa dirsi più sventurata di me.

Addio, William, vieni a vedermi, dopo aver giurato a te stesso, che non puoi essere, che non vuoi essere altro che mio amico, che mio fratello.

Nessuno ha il diritto di dar la vita ad altri, quando la ragione, l'esperienza, il consenso universale gridano ad alta voce che questa vita sarà breve, malaticcia, infelice.

 

 

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License