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Paolo Mantegazza
Un giorno a Madera

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  • RICORDI A MIA FIGLIA EMMA
      • 11 - Emma a William - Madera, 19 ottobre 18...
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11 - Emma a William - Madera, 19 ottobre 18...

 

Ho vissuto per quindici giorni nella poesia raccolta a Machico: avrei voluto essere un poeta per poter deporre anch'io sulla tomba di Machim e di Anna la mia corona di fiori; avrei voluto il genio per rendere immortali quei due fortunati esuli che riposano da cinque secoli fra le radici di quel cedro che fu il nido d'un amore senza nubi e senza procelle. Sopra tutto poi avrei voluto essere Anna e avrei voluto che tu fossi Machim.

Perché tanta poesia doveva sfumare a un tratto dinanzi a un quadro desolante e d'una dura realtà? Perché l'azzurra poesia del passato doveva esser coperta brutalmente dal drappo nero d'un funerale? Ti ho promesso di non esserti avara della più piccola delle mie gioie, di non risparmiarti nessuno dei miei dolori: or vedi con quanto scrupolo mantengo la parola.

E poi mio William il dolore che ho sentito quest'oggi mi ucciderebbe se non l'avessi a dividere teco e poi è un dolore che ci ammaestra e ci eleva: devo essergliene grata. Quando il dolore bruscamente ci piglia per il braccio e ci guida sulla via del dovere, noi dobbiamo ringraziarlo. È un medico che taglia e brucia, ma guarisce. Ah! dovere, dovere, tu sei un Dio di ferro, ma ci tempri l'anima ad alte cose; tu sei crudele, ma tu solo ci dai il santo orgoglio di esser qualcosa più d'una creatura che nasce, mangia e muore, qualcosa più d'un verme che, dopo aver divorato tante creature vive, alla sua volta le proprie carni in pasto di altri vermi minori. Se qualcosa d'immortale è in noi, è l'esempio che i nati lasciano ai nascituri e il nostro dovere è il palladio della dignità umana che le generazioni si trasmettono l'una all'altra, e tutti dobbiamo esserne gelosi custodi, sacerdoti incorrotti. Se tutti prestassero a questo Dio il culto ardente che io gli presto fin dalla prima fanciullezza, qual paradiso non sarebbe il mondo!

Or stà a sentire, mio William.

Ieri io mi ero svegliata piena d'energia e per tutta la notte non aveva tossito che una volta sola. Son così avida della mia saluta, son così ardente di conquistar nuove forze per far piacere a te, che volli subito mettermi alla prova; e sola sola, col mio ombrellino che voleva adoperare non contro il sole ma per farne un alleato pietoso dei miei piedini ancora deboli, escii di casa presto presto e prima ancora che la mia buona zia Anna si fosse svegliata; e mi mossi arditamente verso la strada più ripida che da Funchal si dirige verso il nord e conduce al piccolo Curral. Quei di Madera chiamano questa strada con parola molto felice e poetica caminho de foguete o strada dei razzi.

Or bene la tua Emma voleva far arrampicare i suoi polmoni su per il caminho de foguete; ed ogni passo affaticato dedicava al mio William.

Come si diventa egoisti, quando si ama; quanto si diventa egoisti, quando il nostro amore ha bisogno della nostra salute!

Io guardai all'erta del cammino e mi spaventai; ma poi subito dopo chinai gli occhi, misurai i passi coll'alternar del respiro e lentamente, ma sicuramente, riuscii ad ascendere forse cento passi senza stancarmi e senza tossire. Come era felice di quella mia bravura, quanto era superba della mia conquista del caminho de foguete! E tutta la mia bravura, le mie conquiste erano per te, mio William.

Dopo quei cento passi la strada si faceva piana; due muricciuoli la stringevano, quasi un torrente pieno di sassi e chiuso da dighe; ma giù per quei muricciuoli cadevano cespugli di eliotropii profumati d'un violetto oscuro, così belli che la mia mano correva impaziente a volervi far bottino. Tu conosci però le mie abitudini: non so sciegliere il fiore d'un prato, il ramoscello di una foresta senza chiederne licenza al padrone del prato, al padrone della foresta. Non è ancora questo un nostro dovere?

Qui il proprietario non poteva esser lontano; feci ancora pochi passi, vidi che il muricciuolo si apriva per un cancello verde, basso e socchiuso, si entrava in un campo di ignami e di maiz. Un viale tutto fiancheggiato da alte banane conduceva ad una modesta e linda casetta colle persiane d'un verde vivissimo e le pareti d'un bianco bigio. Dinanzi alla casa vidi un cortiletto, dove alcune galline beccavano avidamente la loro colazione, e ad un lato un alto fico che faceva ombra densa e fresca a quel luogo modestamente pulito. Appoggiata al muricciuolo del cancello, mi alzai sulla punta dei piedi per spiare se vi fosse in tutto quel verde un'anima viva, e la scopersi subito.

Sotto al fico stava seduto sopra una sedia di paglia un uomo robusto; in manica di camicia, e che mi dava le spalle. Pareva guardar fisso a qualcosa che avesse in grembo e ch'io non poteva distinguere.

Se l'avessi veduto di faccia, avrei subito letto nel suo volto se potessi chiedergli un fiore, ma né sulle sue spalle, né sul colore de' suoi calzoni, né nella forma delle sue ciabatte poteva trovare elementi per giudicare della sua cortesia, e segnando colla punta del mio ombrellino sull'arena del viale molti W, or grandi, or piccini, esitava, sperando che quella creatura viva mi avrebbe presto mostrato il volto, che mi avrebbe veduto.

Ma quegli eliotropii eran troppo belli: ed io era lieta e petulante come una fanciulletta, tanto mi avevano rallegrato l'aria mattutina e la salita dell'erta. In cattivo portoghese e colla voce tremante osai indirizzar la parola a quelle spalle ostinate nel loro silenzio:

- Signore, mi perdoni...

- Chi è ?

E dicendo questo, l'uomo dalle spalle ostinate, si rivolse e mi guardò. Aveva sulle ginocchia una fanciullina sui dieci anni che pareva dormisse.

- Signore, voi avete sul muricciuolo del vostro orto degli eliotropii così odorosi e belli che mi hanno tentata e son venuta a chiedervi licenza di coglierne alcuni.

- Signora mia, son tutti vostri, non sapeva che fossero fioriti: coglietene quanti ne volete.

Intanto io guardava quell'uomo e quella fanciullina, e la mia allegrezza petulante andava rapidamente passando nella tristezza più cupa. Io avevo di certo dinanzi a me il quadro di una grande sventura.

Il padrone degli eliotropii era un campagnolo di Madera, dalle spalle tarchiate, e il volto bruno faceva contrasto con un collo ancor più bruno. Non aveva cravatta, e la camicia ampiamente aperta mostrava che quel collo non aveva mai avuto paura del sole. Il volto allungato, con barba nera, naso aquilino, faccia franca rozza, più rughe in volto, e sopratutto sulla fronte, che capelli bianchi in capo. Sul fondo d'una giovialità ingenua ed un cuore espansivo si leggevano le tracce d'un profondo dolore. Neppure per parlare quell'uomo poteva riposare le rughe che dalle sue sopracciglie si arrampicavano lungo un solco profondo scavato in mezzo alla fronte, dove se ne spicca il naso. Né quel solco, né quelle rughe procellose, però, gli impedivano di essere cortese.

- Accomodatevi su questa sedia, signora, voi siete stanca, avete il respiro affannoso; non avete voi il petto gracile?

E pareva che, mano mano egli s'andava accorgendo ch'io era malata, il suo accento si raddolcisse e le sue sollecitudini per me andassero crescendo. Mi porse egli stesso una sedia vuota che stava accanto alla sua, senza posar per questo la bambina che le sue braccia robuste e vellose portavano come una pagliuzza.

Dove vedo un uomo che soffre, dove sospetto un dolore, io senza volerlo, senza saperlo mi arresto, affascinata da un'irresistibile attrazione.

Mi sedetti e dimenticai gli eliotropi, che, pur senza ch'io li vedessi, mi andavano imbalsamando l'aria all'intorno.

- Sì, mio buon signore, son malata di petto, son venuta a Madera per guarire, vi son da un anno e sto assai meglio.

Quell'uomo non aveva ascoltato di certo le mie ultime parole. Colla palma della mano sinistra, ampiamente aperta, si picchiò sulla fronte, sicché tutta la coperse, e più che parlare, gridò:

- Ah maledetta, maledettissima malattia! Sempre e dappertutto dei tisici. Perché mai Domeneddio, onnipotente, e onniscente, ha mai fatto dei polmoni più fragili della carta asciugante? Voi, mia signora, guarirete, guarirete senza dubbio; ma io... ma io...

 

E sospirava e guardava la fanciullina che allora osservai anch'io.

Era in camicia; era pallida, magra: aveva una mano bianca appoggiata sul petto che si alzava e si abbassava nei moti alterni di un respiro affannoso. Il volto era quello d'un angelo e aveva in sé la bellezza della razza latina e dell'inglese; un ovale perfetto, un mento piccino e rotondetto, come una nocciuola ancor verde; due labbra rosee, ma secche e socchiuse; un nasino affilato grazioso, sopracciglia nere nere e stranamente folte; ciglia lunghe e nere e palpebre grandi che coprivano due occhi neri che vagavano fra i crepuscoli d'un sonno febbrile. Dalla fronte reclinata all'indietro cadeva un torrente di capelli biondi con vene castane, dorate, rosse; tutta una tavolozza di tinte che con un disordine di rara bellezza fermavano l'occhio lungamente.

- Vedete questa mia Dolores, è l'ultima che mi resta, e l'ho chiamata Dolores, perché è nata pochi giorni prima della morte di sua madre. Sì, mia signora, ho perduto la moglie, ho perduto tre maschi e due bambine, tutti tisici. Ed io, soggiunse ridendo in un modo crudele, non posso mandare i miei figli a Madera, perché guariscano; in casa mia si nasce a Madera, ma si muore anche a Madera.

Allora Dolores, svegliandosi improvvisamente, si mise a sedere sulle ginocchia del padre e a tossire; e tossiva così forte che le guancie le divennero porporine e sudanti, e gli occhi lagrimosi.

- Vedete, vedete, anche questa farà come gli altri. Maledizione! Maledizione!

Quel dolore però era troppo grande, perché potesse a lungo mescersi coll'ira: e quel pover'uomo, chinando il capo su quel volto d'angelo, lo baciò, lo ribaciò cento volte, e quando lo rialzò, i suoi occhi eran rossi, gonfi di lagrime.

- Sono un uomo rozzo io, sono un villano tirato su a piantar viti e patate, ma son vent'anni che ho malati e morti in casa; e il cuore per Dio (e qui col grosso pugno peloso stretto stretto batteva sul cuore fino a far rimbombare il petto) non mi si è fatto ancora di pietra, piango ancora io.

- Caro signore, voi siete infelice, ma Dolores guarirà. In una famiglia di tubercolosi non muoiono mai tutti. Anch'io, sapete, ebbi undici fratelli e sorelle e tutti son morti tisici, ma ho già venticinque anni e vivo e penso di guarire. Dolores sarà delicata, avrà spesso la tosse, ma guarirà, guarirà sicuramente.

- Lo spero anch'io: sarebbe troppo crudeltà lasciarmi solo. Se avessi a seppellire anche questa, darei fuoco alla mia casa e me n'andrei a imbarcarmi come marinaio sulla prima nave che partisse per l'America, per il Portogallo, per la casa del diavolo... scusatemi, signora.

- Ma come mai, voi nato qui, in un paese dove la tisi è rara, specialmente fra gli agiati, avete tanta sventura?

- L'è una storia ben triste, mia buona signora; e, vedete, la racconto a tutti, perché almeno abbia a giovare a chi può ancora approfittare di una lezione. Avete voi marito?

- No.

- Ebbene, allora anche a voi la mia storia può esser utile. E poi, vedete, voi avete il petto gracile, voi avete un'aria tanto gentile che subito subito mi avete aperto le cateratte del cuore, che in me stanno chiuse per giorni e settimane e mesi. Più volte mi chiudo in casa tutto solo, coi miei dolori: passeggio per le camere deserte, colla mia Dolores per mano, e più spesso colla mia Dolores fra le braccia. Ho venti camere, capite, in questa mia casa, e son tutte vuote meno una dove dormo e vivo e mangio colla mia figliuola. Capite voi in qual deserto io viva? E mi fa molto bene quando posso trovare una persona come voi a cui raccontare i miei dolori.

«Io ho quarant'anni soli, sapete, quarant'anni con tanti capelli bianchi e tante rughe, e tutti me ne dànno almeno cinquanta e anche più. Non me ne meraviglio; piuttosto stupisco di esser ancor vivo, ma già è la mia Dolores che non mi lascia morire.

Anch'io ebbi i miei vent'anni; anch'io cavalcava sul più ardente dei cavalli di Madera, e senza sella amava gettarmi al galoppo nei sentieri che rasentavano gli abissi più profondi e precipitarmi giù per le chine, con una mano robusta nella criniera e un'altra nella coda, e giù, e giù, sicuro di non distaccarmi mai dal mio cavallo; amava sentirmi intorno l'aria vertiginosa che mi sollevava i capelli e mi fischiava nelle orecchie. Aveva braccia così robuste che più d'una volta andava a strappar la zappa dalle mani dei contadini di mio padre, e mi metteva a zappar profondamente, fortemente, finché non mi sentissi correre il sudore a ruscelletti lungo le spalle giù per il petto infuocato. Aveva ereditato da mio padre la passione della terra: odiava la città e i villaggi; voleva sempre esser fra i campi di maiz o all'ombra dei lauri.

Non guardava mai in faccia alle donne: non so perché, ma mi pareva una smorfia da cittadini il fare all'amore. Aveva una febbre nei muscoli che volevano sempre muoversi; aveva una smania nel petto di respirare l'aria più pura, e respirarla a onde e tutti i picchi più alti dell'isola hanno veduto i miei piedi: c'è qualche roccia che io solo e l'aquila abbiamo toccato.

L'amore mi prese come un fulmine, come una palla da cannone che vi colpisca in mezzo al petto. Un giorno me n'era andato a Funchal e stava passeggiando sul molo del porto, aspettando un amico con cui dovevo imbarcarmi per Porto Santo. Voleva andare a caccia di conigli. Zufolava, impazientito che il mio amico mi facesse aspettare, quando dinnanzi a me vedo una carrozzina in cui stava una pallidissima creatura che, se non avesse tenuto gli occhi aperti, io avrei giudicata morta. Dietro al carrozzino stava un'altra creatura giovane e bellissima che lo spingeva innanzi e che ad ogni tratto amorosamente si chinava a domandare alla povera signora moribonda che cosa volesse.

Quella signora doveva essere una cameriera, ma questo a me non importava nulla: quel ch'io ricordo è che i suoi occhi azzurri, i suoi folti capelli biondi, la sua carnagione di rosa mi innamorarono talmente che quando l'amico mi venne incontro col suo fucile ad armacollo, gli dissi che non partivo più per Porto Santo. Era la prima donna ch'io aveva guardato in volto, ma mi parve subito che non avrei potuto vivere senza di lei, e il mio amore dovette essere così violento, così contagioso, che dopo otto giorni anche Jessy era innamorata di me.

Ella era una cameriera, ma una cameriera inglese che parlava tre lingue, che leggeva molto, che scriveva; era un cuore di zucchero innamorato della sua padrona, con cui viveva tutto il giorno, con cui dormiva di notte, di cui era innamorata. Qui si dice che la tisi non è contagiosa, ma io so che la mia Jessy, che era bella e fresca come una rosa, pigliò il male dalla sua padrona, e che quando questa fu morta ed io doveva sposare Jessy, ella fu colta da un male che i medici di Funchal chiamarono bronchite, ma che infine era una tisi bella e buona.

Fu malata due mesi, ma la convalescenza non finiva mai. Mangiava, camminava, ma era debole, e la tosse non se n'andava mai ed ella era magra magra.

Ad onta di tutto questo Jessy era allegra come un pesce, e mi diceva di esser magra, perché era innamorata di me, e che quando ci fossimo sposati, saremmo guariti. Mio padre mi diceva sempre: - Sebastiano, Sebastiano, quella donna non è per te; è troppo delicata, tu la perderai presto e avrai dei figli malati. Sebastiano, va a Lisbona a trovar tuo zio, dimentica Jessy, io mi sono innamorato dieci volte prima di sposar tua madre e vorrai tu sposare la prima donna che t'è venuta fra i piedi?

Mio padre aveva ragione, ma nessun medico mi sconsigliò da quel matrimonio: ma a che servono i medici? Servono a tormentare i malati, ma non a tener sani i sani.

Eravamo tanto innamorati! Ci sposammo: Jessy rimase subito incinta e durante la prima gravidanza cessò la tosse, ingrassò un pochino; io mi credeva il più felice degli uomini; ma venne il parto e d'allora in poi la vita di Jessy fu una lenta agonia ed io, ignorante come una bestia, la vedevo migliorare ad ogni gravidanza, e aveva sempre nuovi figli. Nessun medico mi diceva che ad ogni parto mia moglie era più debole di prima, che ogni figliuolo le dava una spinta verso la tomba. Il buon clima di Madera la tenne viva otto anni, che tanti ne durò il nostro matrimonio; in Inghilterra sarebbe morta in pochi mesi. Il cielo della nostra isola le concesse una lunga, una dolorosa agonia.

E non solo mi è morta la mia Jessy, ma mi sono morti tutti i miei figliuoli. Tutti rassomigliavano alla mamma; nessuno seppe prendersi le mie spalle, i miei polmoni di ferro. Se li aveste veduti! Com'eran belli! Eran tutti come Dolores, alcuni più belli ancora; biondi rosei intelligenti, amorosi. Son vent'anni che ho preso moglie e per vent'anni la mia casa è stata un ospedale e un cimitero. Io ho fatto da infermiere a Jessy, a Michele, a Sebastiano, ad Antonio, a Lisa, a Robinia; io li ho seppelliti tutti, mia signora.

E capite voi cosa voglia dire avere un figliuolo moribondo nel letto, e un altro che sputa sangue e sta coricato sotto gli alberi del giardino, perché non ha fiato di muoversi? Capite voi che cosa vuol dire andare a tavola e leggere coll'occhio ansioso nel volto dei vostri figliuoli i primi segni della fatal malattia? E capite voi che cosa voglia dire svegliarsi di notte e d'improvviso sentir tossire il più robusto dei vostri figli, quello che pareva voler sfuggire alla sorte comune? Capite voi che cosa voglia dire andar errando il mattino di letto in letto a veder le macchie rosee che la saliva insanguinata d'una vostra bambina ha lasciato sul guanciale nel respiro affannoso della notte? E capite voi che cosa voglia dire vivere fra l'agonia dei vivi e l'agonia dei moribondi e dover sorridere per tranquillare i figli sgomenti e dover mentire oggi, mentire domani, mentir sempre, inventando ai malati sempre nuove e più crudeli menzogne, inventando menzogne ai sani che già temono di esser malati?

Capite voi tutto questo, avete voi letto nei vecchi libri che vi sia tortura più crudele di questa? Una volta, me lo ricordo ancora, era un di dicembre e pioveva e pioveva, e un freddo umido penetrava fin nelle ossa. Si ritornava coi miei figliuoli dal cimitero dove avevamo accompagnato la mia bellissima Lisa, fanciulla di quindici anni. Eravamo allora quattro ancora; io, Robinia, Dolores e Michele. Avevamo tutti i vestiti inzuppati d'acqua fredda e nessuno parlava. Mentre si saliva sull'erta che avete salito voi, pochi momenti or sono, Michele si mette a tossire; una tosse secca, crudele feroce; e poi si avvicina il fazzoletto alla bocca, lo guarda, quindi facendosi pallido e pur sorridendo, lo mostra a Robinia: era tutto insanguinato.

Io veniva dietro ai miei figliuoli e vedeva tutto. Robinia si voltò a me improvvisamente, e piangendo e singhiozzando, mi gridava:

- Papà, papà, dobbiamo noi morir tutti, proprio tutti?

Caddi seduto sul muricciuolo della strada; Robinia, Michele e la piccola Dolores mi si strinsero tutti intorno alle ginocchia. Dolores piangeva senza sapere il perché, e Michele mi accarezzava e diceva: - Papà, papà, non sarà nulla; ho una gengiva ferita; è sangue venuto dalle gengive. - Ma un anno dopo, mia buona signora, si seppelliva anche Michele, e ritornando a casa noi eravamo tre soli.

Ch'io sia maledetto, ch'io sia maledetto! Ora non ho più che Dolores, e seppellirò anche questa accanto a Jessy, ed io mi farò seppellir vivo accanto a tutti i miei figliuoli. Ch'io sia maledetto: non si ha il diritto di dare una vita moribonda ai propri figliuoli, no, no, non si ha il diritto di mettere al mondo uomini condannati a morir fanciulli, a morir giovinetti nell'età delle gioie e delle speranze. No, no, ch'io sia maledetto, la vita è un peso: convien dare insieme ad essa forza e salute per sopportarla. La vita non è un dono, è un peso, è una croce.

Non siete voi forse, mia buona signora, figlia di un padre o di una madre tisica

Mio William, io mi alzai a queste parole come una pazza, gridando:

- Basta, basta, signore, voi mi uccidete insieme ai vostri figliuoli.

E fuggii da quell'orto e fuggii a casa e mi gettai piangendo e singhiozzando fra le braccia della zia, che mi veniva incontro.

William, tutto questo t'ho voluto scrivere; mi è sembrato che fosse mio dovere il farlo.

 

 




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