Carlo Goldoni
La buona moglie

ATTO PRIMO

SCENA TREDICESIMA

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SCENA TREDICESIMA

 

La marchesa Beatrice, poi Lelio e Pasqualino

 

BEAT. Non credeva mai di dovermi ridurre a questo passo. Mio marito non mi ha confidata la verità. Se sapeva che dovesse andare così, avrei procurato di mettere qualche cosa da parte. Avrei rovinato più presto mio marito, ma ora almeno non avrei bisogno di lui.

LEL. Servo della signora marchesa.

PASQUAL. Servitor umilissimo de vussustrissima.

BEAT. Vi riverisco; che fate, Pasqualino? Che fa la vostra moglie?

PASQUAL. Mia mugier credo che la staga ben. Xe do zorni che no la vedo.

BEAT. Due giorni? Perché?

PASQUAL. Avemo un poco crià, e son vegnù via in còlera. Voleva tornar a casa a giustarla, ma sior Lelio m’ha desconsegià. El m’ha dito che bisogna star su le soe e farse desiderar.

LEL. Certo, il maggior castigo che si possa dare a una moglie, è quello di non andare a dormir a casa.

BEAT. Ma voi trattate male quella povera figliola. È tanto buona che non lo merita.

PASQUAL. Certo che de ela no me posso lamentar.

LEL. È una dottoressa, che se fosse mia moglie, la bastonerei come un cane. Ogni volta che Pasqualino vuol prender danari, gli fa mille correzioni, gli mille avvertimenti che fan venire il vomito. Se va a casa tardi, grida; se si diverte, borbotta; se va un galantuomo in casa sua, non lo guarda in faccia. È veramente fastidiosissima.

PASQUAL. Caro amigo, feme un servizio, no disè mal de mia mugier.

LEL. Io non fo per dir male, ma vorrei un poco illuminarvi. Che diavolo di figura volete fare al mondo, se siete perso e incantato nella moglie?

BEAT. Siete stato in casa mia, Pasqualino; avete veduto quante carezze mi faceva il marchese? I mariti poco guardan le loro mogli.

PASQUAL. Mo mi mo, ghe voleva ben.

LEL. Ma con tutto il ben che le vuole, le ha dato l’altra sera un potentissimo schiaffo.

BEAT. È vero? (a Pasqualino)

PASQUAL. Ghe l’ho dao, lustrissima sì. (si asciuga gli occhi)

BEAT. Che avete che piangete?

LEL. Piange per lo schiaffo che ha dato alla moglie. Oh caro! Oh come siete dolce di cuore! Un altro dategliene, ma buono.

BEAT. Povero Pasqualino! È poi di buon , io gli ho sempre voluto bene. Vi ricordate che son stata io quella che vi ha fatto sposar Bettina?

PASQUAL. Me recordo de quel bocon de spagheto che ho abuo in quela camera a scuro.

BEAT. Ma poi tutto contento.

PASQUAL. La s’imagina; giera che sgangoliva.

BEAT. Io ho procurato che Bettina fosse vostra moglie, per troncar i disegni di mio marito; e vi sono stati dei critici che hanno detto che io vi ho fatto la mezzana contro il mio carattere di dama.

LEL. Chi volesse badar alle critiche, troppo ci vorrebbe. Anche di me è stato detto che ho avuto poco cervello a credere alle parole di donna Pasqua mia madre; che doveva sostenere di esser figlio del signor Pantalone, fino che la cosa fosse stata meglio provata, e non perdere così placidamente uno stato comodo, per acquistarne un peggiore. Ma io che avevo dell’aborrimento per quel vecchio che mi voleva mandar prigione, e non voleva che vivessi a modo mio, l’ho rinunziato volentieri, e ho creduto di poter meglio passarmela col barcaruolo.

BEAT. Che fa messer Menico?

LEL. Credo sia a un traghetto. Dappoiché è stato licenziato di qua, non ha più voluto servire.

BEAT. Ma voi non state con lui?

LEL. Non mi ha voluto riconoscer per figlio, onde adesso son senza padre. Finché è vissuta mia madre, mi ha assistito, ma poverina, per mia disgrazia è morta.

BEAT. E voi che mestiere fate?

LEL. Sinora non ne fo nessuno.

BEAT. Non volevate fare il barcaruolo?

LEL. Volevo farlo. Mi son provato, e non ci riesco; e poi chi è avvezzo a non far nulla, fatica per un poco e s’annoia presto.

BEAT. Pasqualino è stato più fortunato. Sono stata causa io della sua fortuna.

PASQUAL. Mi certo ghe son obligà a sta zentildona, che la m’ha fato aver la mia Betina.

BEAT. Figliuoli, vorrei darvi un poco di divertimento. Volete giocare?

PASQUAL. Mi ghe ne so poco, ma ziogherò.

LEL. Lasci dire, signora marchesa, che Pasqualino gioca perfettamente.

BEAT. Rosina, Angiolina, Brighella, Pasquale, Filiberto, diavolo: di tanti mangiapani non ve n’è uno. Faremo da noi. Lelio, Pasqualino, tirate avanti quel tavolino e quelle sedie.

PASQUAL. Subito la servo.

LEL. Signora marchesa, fa male tener tanti servitor. Sarebbe meglio tenesse Brighella solo.

BEAT. Perché?

LEL. Perché si vede solamente Brighella, e gli altri sono invisibili.

BEAT. (Un gran forcone è costui). (da sé) A che vogliamo giocare?

PASQUAL. A bazzega.

BEAT. Avete danari, Pasqualino?

PASQUAL. Se gh’ho bezzi! La varda mo. Questi i xe zechini, e ghe ne ho dei altri. (tira fuori una borsa, e mostra il denaro)

BEAT. Bravo, me ne rallegro. Venite qua, giochiamo a bazzica di due lire la partita. (siedono)

PASQUAL. Anca de tre, se la vol.

LEL. Io starò a vedere. (Non mi degno di questi piccoli giuochi). (da sé)

BEAT. Brighella.

LEL. Comanda qualche cosa?

BEAT. Brighella.

LEL. Perché non chiama Pasquale o Filiberto?

BEAT. Maledetti! Quando si vuole un servizio, non v’è nessuno.

LEL. Comanda? La servirò io.

BEAT. Mi sento un gran male di stomaco. Beverei volentieri la cioccolata.

LEL. E bene, anderò io a ordinarla al caffettiere vicino.

PASQUAL. Anderò anca mi, se la vol.

BEAT. No no, è meglio che vada Lelio. Noi faremo intanto due partite.

LEL. Mi dispiace che non ho moneta.

PASQUAL. Voleu? paron.

LEL. Sì, datemi qualche cosa.

PASQUAL. Tiolè sto zechin.

LEL. Signora marchesa, vado a prendere la cioccolata. (Ce la beveremo la metà per uno). (da sé) Pasqualino, aspettatemi, che ora torno.

PASQUAL. Caro vu, vegnì; no m’impiantè. No vago a casa senza de vu.

LEL. Oh che caro bambino! Ha paura che la moglie gli dia. Verrò con voi, e se vorrà fare la pazza, ecco, lo vedete? Quest’è il rimedio per farle far giudizio. (mostrando il suo bastone, e parte)

 

 

 


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