Carlo Goldoni
L'adulatore

ATTO SECONDO

SCENA VENTIDUESIMA

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SCENA VENTIDUESIMA

 

Donna Elvira e don Sigismondo

 

ELV. Così mi ascolta? Così mi lascia?

SIG. Vi lascia nelle mie mani. Vi lascia nelle mani di un vostro amico. Che volete di più?

ELV. Via, se mi siete amico, se amico siete di mio marito, ora è tempo di usar con noi gli effetti della vostra amicizia.

SIG. La mia amicizia è stata sempre sollecita, costante e leale, ma sfortunata. Ho protestato di non esser amico che degli amici.

ELV. Don Filiberto non è mai stato vostro nemico.

SIG. E voi, donna Elvira, confessate la verità, come vi sentite rispetto a me?

ELV. Ora non si tratta di me, si tratta di mio marito.

SIG. Ma chi è che prega per lui?

ELV. Una moglie afflitta, una moglie onorata.

SIG. Questa moglie onorata, che mi prega, è mia amica, o mia inimica?

ELV. Don Sigismondo, il signor Governatore vi ha imposto di far giustizia.

SIG. Chiedete grazia, o chiedete giustizia?

ELV. Chiedo giustizia.

SIG. Bene, si farà.

ELV. Quando uscirà di carcere il mio consorte?

SIG. Per far giustizia, bisogna far esaminare la causa.

ELV. E frattanto dovrà star carcerato?

SIG. Le leggi così prescrivono.

ELV. Deh, per pietà, valetevi dell’arbitrio concessovi, fatelo scarcerare. S’egli è reo, pagherà cogli effetti, pagherà colla vita istessa.

SIG. Questa che ora mi chiedete, non è giustizia, ma grazia.

ELV. Dunque ve lo chiedo per grazia.

SIG. Le grazie non si fanno ai nemici.

ELV. Nemica io non vi sono.

SIG. Lode al cielo, che avete detto una volta che non mi siete nemica.

ELV. Non mi tormentate d’avvantaggio, per carità.

SIG. Quando mi siete amica, avanti sera vi mando a casa il consorte.

ELV. Che siate benedetto! Voi mi ritornate da morte a vita.

SIG. Ma come mi assicurate della vostra amicizia?

ELV. Qual dubbio potete averne?

SIG. Le mie passate sfortune mi hanno insegnato a dubitare di tutto.

ELV. Che potete voi temer da una donna?

SIG. Nient’altro che essere sonoramente burlato.

ELV. Il mio caso non ha bisogno di scherzi.

SIG. E il mio ha bisogno di compassione.

ELV. Oh cieli! Non posso più. Don Sigismondo, voi mi trattate troppo barbaramente.

SIG. Una delle mie parole può consolar voi, e una delle vostre può consolare ancor me.

ELV. Orsù, v’intendo. L’amore, la passione, il dolore mi hanno lusingata soverchiamente di poter sperare da voi grazia, giustizia, discrezione, onestà. Siete un’anima indegna, siete un perfido adulatore, e siccome credo opera vostra la carcerazione di don Filiberto, così spero invano vederlo per vostro mezzo ritornato alla luce. So con qual prezzo mi vendereste la vostra buona amicizia ma sappiate che più di mio marito, più della mia vita medesima, amo l’onor mio: quell’onore che voi non conoscete, quell’onore che voi insidiate; ma spero vivamente nella bontà del cielo, che l’innocenza sarà conosciuta, che le mie lagrime saranno esaudite, e che voi sarete giustamente punito. (parte)

SIG. Servitor umilissimo alla signora onorata. Si gonfi del suo bel fregio, ma intanto suo marito stia dentro. Ora mi ha irritato piucché mai, e si pentirà degl’insulti che mi ha scaricati in faccia. Non mi sono alterato punto alle sue impertinenze, perché chi minaccia, difficilmente si vendica. Il mio sdegno è un fuoco, che sempre arde sotto le ceneri dell’indifferenza, ma scoppia poi a suo tempo; e tanto più rovina, quanto è men preveduto. Politica, che confesso a me stesso essere inventata dal diavolo; ma mi ha giovato sinora. Ci ho preso gusto, e non mi trovo in istato di abbandonarla. (parte)



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