Carlo Goldoni
La cascina

ATTO PRIMO

SCENA SESTA   Camera nobile nel palazzo di Lavinia.   Lavinia ed il Conte Ripoli

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SCENA SESTA

 

Camera nobile nel palazzo di Lavinia.

 

Lavinia ed il Conte Ripoli

 

LAV.

Troppo onor.

CON.

È mio dovere.

LAV.

Grazie a lei.

CON.

Son cavaliere:

Colle dame so trattar.

LAV.

Obbligata, mio signor.

CON.

Mi potete comandar.

 

LAV.

Son tenuta davvero

Alla di lei bontà,

Che m’ha voluto accompagnar fin qua.

CON.

Vi servirei, madama,

Con vostra permissione,

Negli antipodi ancora e nel Giappone.

LAV.

Obbligata, signor.

CON.

Fo il mio dovere.

LAV.

Ella è troppo gentil.

CON.

Son cavaliere.

LAV.

Finezza è ch’io non merto,

L’onor che mi comparte,

Di venire a graziarmi in questa parte.

CON.

Senza di voi, madama,

Era la città nostra

Senza sol, senza luna e senza stelle.

Le vostre luci belle

Son venute a illustrare il bosco, il prato,

Ed io qual girasol vi ho seguitato.

LAV.

Queste, qualunque sieno,

Povere luci mie, tutta han perduta

La primiera possanza

Per il mesto pallor di vedovanza.

CON.

Ah, peccato, peccato!

Viva il nume bendato.

Mio l’impegno sarà, se nol sdegnate,

Di ravvivar quelle pupille amate.

LAV.

Ah, come mai?

CON.

Come dal fosco cielo

Suol le nubi scacciar Febo ridente,

Sparirà immantinente

Il pallido pallore

Che vi copre il bel viso e ingombra il cuore,

Se qual vite feconda, e fecondata,

Voi sarete a quest’olmo avviticchiata.

LAV.

Se diceste davver...

CON.

Giuro, mia bella;

Giuro ai dei tutelari

Della mia nobiltà,

Di sì bella beltà sono invaghito;

Sarò, qual mi vorrai... servo e marito.

LAV.

Accetto per finezza

D’un cavalierdegno

L’amor, la grazia ed il più forte impegno.

CON.

Giove, tu che presiedi

All’opere più conte; Amor, che accendi

Fiamme nel nostro petto;

Venere, che sei madre del diletto;

E voi, pianeti, e voi, minute stelle,

Onor del firmamento,

Fate applauso di luce al mio contento.

LAV.

Bella madre d’Amore,

Venere, anch’io t’invoco

Pronuba generosa al nostro foco.

Resti l’amante amato

Meco vicino in quest’albergo fido,

Qual Enea ricovrato alla sua Dido.

CON.

Non vi darò, mia bella,

L’ingrato guiderdone

Ch’Enea diede a Didone.

Non vuò che il mondo veda

Che a un amante rival vi lasci in preda.

Ah, se voi foste Dido,

S’io fossi Enea, se Jarba fosse qui,

A quel moro crudel direi così:

 

Vieni, superbo re,

L’avrai da far con me.

(Non dubitar, mia vita,

Ch’io ti difenderò). (a Lavinia)

Vibra la spada ardita,

Ch’io mi riparerò.

Vuoi atterrar Cartagine,

La vuoi ridur in cenere;

Sento le fiamme stridere,

Odo le genti gemere.

(Non ti abbandonerò). (a Lavinia)

Va tra le selve ircane,

Barbaro, mostro, cane;

No, che timor non ho. (parte)

 

 

 


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