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SCENA PRIMA
VAL.
BAL.
VAL.
Ei dorme, e fin che dorme, facciam conversazione;
Ma parliam sotto voce, che se qualcun ci sente,
Quando il vecchio è svegliato, gliel dice immantinente.
È ver ch'egli mi crede, è ver che, qual io soglio,
Posso dargli ad intendere quelle bugie ch'io voglio,
Ma avendo la famiglia acerrima nemica,
Voglio schivar, s'io posso, di far questa fatica.
BAL.
Si sa che nelle case si sogliono in eterno
Odiar dalla famiglia le donne di governo.
Ma seguendo il proverbio, suol dir chi ha buon cervello:
Non temo degli sbirri, se ho dalla mia il bargello.
VAL.
Dite ben; ma non voglio che possa questa gente
Presso al signor Fabrizio intaccarmi in niente.
Morto il di lui fratello, questi, ch'è un uom dabbene,
Due figlie del fratello in casa sua mantiene;
Ed esse che non hanno del zio gran soggezione,
Vorrebbero disporre a farla da padrone.
Io che, cinqu'anni or sono, fui presa in questo loco
Per servir grossamente alla cucina e al foco,
Tanto del mio padrone mi guadagnai l'affetto,
Che giunsi a comandare io sola in questo tetto.
Per dare all'apparenza qualche colore esterno,
Il titolo mi diede di donna di governo;
Ma in sostanza il buon vecchio prese d'amor tal fetta,
Che adesso in questa casa io comando a bacchetta.
BAL.
Tutto va ben, ma spiacemi che sia troppo amoroso
VAL.
Siete forse geloso?
BAL.
Per dir la verità, son geloso un pochino.
VAL.
Affé, rider mi fate. Povero bambolino!
Di queste seccature son stata ognor nemica.
La gelosia, fratello, è una passione antica;
E chi di coltivarla ai nostri dì pretende,
Senza profitto alcuno ridicolo si rende.
Passò, passò quel tempo, in cui per tal passione
Tenevansi le donne in aspra soggezione.
Ma allor quando le donne viveano in schiavitù,
Eran gli uomini almeno dabbene un poco più.
Non si vedean sì spesso in questo ed in quel loco
Andarsi a divertire alle taverne, al gioco.
Non si vedean lasciare de' lor negozi il banco,
Per passeggiar la piazza colla signora al fianco.
Ed erano le donne della saviezza il tempio,
Perché dai lor mariti si dava il buon esempio.
Ora questi signori von tutti i spassi suoi,
Ed essere gelosi pretendono di noi?
Tu, malandrin, sei pieno di vizi infino agli occhi,
E mostri aver paura che il mio padron mi tocchi?
A lavorar principia, metti il cervello a segno,
E di condurmi allora a modo tuo m'impegno.
Ma fin che non ti vedo di mantenermi in grado,
Ti voglio ben, nol niego, ma al tuo parlar non bado.
Conosco il mio bisogno, di te non mi assicuro,
Un pane alla famiglia coll'arte mia procuro;
E se tu sei geloso, e se soffrir non puoi,
O trovati un impiego, o bada ai fatti tuoi.
BAL.
Se impiegarmi potessi, vivrei più civilmente,
Ma ho una difficoltà.
VAL.
Che è?
BAL.
Non so far niente.
VAL.
Non potresti servire?
BAL.
Son solito dal letto levarmi un poco tardi.
Sentirmi comandare avvezzo non son io,
Mi piace, e mi è piaciuto, far sempre a modo mio;
E se il padron dicessemi una parola torta,
Andrei le mille miglia lontan dalla sua porta.
VAL.
BAL.
Servir non fa per me.
VAL.
Qualche cosa nel mondo devi pur far.
BAL.
Perché?
Ho vissuto finora senza far nulla, e adesso
Dovrei morir di fame con una moglie appresso?
VAL.
Briccon, speri di vivere soltanto in grazia mia,
E poi non ti vergogni parlar di gelosia?
BAL.
Sì, cara Valentina, che ti approfitti io godo,
Ma son un galantuomo, non vo' saperne il modo.
Che serve che mi dica: il padron mi vuol bene?
Così con uno sposo parlar non ti conviene.
So che sei onorata, nessun te lo contrasta;
Opera con giudizio, fa il tuo dovere, e basta.
VAL.
Ben ben, vi ho già capito; un galantuom voi siete...
BAL.
Parliam d'un'altra cosa. Bisogno ho di monete.
VAL.
Come? non v'ho io dato l'altr'ier dieci ducati?
BAL.
E per questo? che serve, se già li ho adoperati?
VAL.
Cosa ne avete fatto?
BAL.
Oh, questa io non l'intendo,
Che abbia a rendervi conto di tutto quel ch'io spendo.
Li ho spesi, e tanto basta. Vado di giorno in giorno
Provvedendo la casa, e me li metto intorno.
Ho comperato un letto, due quadri ed uno specchio,
Due dozzine di tondi, una caldaia, un secchio.
Comprato ho un fornimento per ammannire il foco.
(Guai a me, se sapesse che li ho perduti al gioco). (da sé)
VAL.
Caro il mio Baldissera, se gl'impiegate bene,
Ve ne darò degli altri, farò quel che conviene.
Non vo' che vi offendiate, se vo' saper anch'io
Come i danar sen vanno, come si spende il mio.
Ma cosa dico il mio? doveva dire il nostro.
Tutto è fra noi comune: quel ch'io possedo, è vostro.
BAL.
VAL.
Cosa vorreste farne?
BAL.
Di già me l'aspettava. Non vo' più domandarne.
Se in tutto ho da dipendere, come un bambin da cuna
Non voglio a questo prezzo comprar la mia fortuna.
VAL.
Ma non andate in collera. Eccoli qui, tenete. (mostra i due zecchini)
BAL.
Questa volta li prendo. (mostrando di farlo per compiacenza)
VAL.
Ma cosa ne farete? (li trattiene)
BAL.
VAL.
Far delle vostre spese partecipe la sposa?
Se pronta e di buon core vi do quel che bisogna,
In voi tal renitenza mi pare una vergogna.
BAL.
Par che non vi fidiate della condotta mia;
Par ch'io sia mal governo, e pur non getto via.
Con questi due zecchini farò qualche cosetta.
(Mi serviran per mettere due punti alla bassetta). (da sé)
VAL.
So che voi siete stato un fiore di virtù,
Non vorrei li giocaste.
BAL.
Oh, io non gioco più.
VAL.
BAL.
Ve lo protesto.
VAL.
BAL.
Date qui.
VAL.
Eccoli.
BAL.
(Ieri sera il punto mi tradì). (da sé)
VAL.
Cosa dite?
BAL.
Che ho veduto ier sera. (Voglio mettere il fante). (da sé)
VAL.
BAL.
VAL.
BAL.
Sì, gioia bella, addio. (parte)