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BALDISSERA e detti, poi FELICITA, poi VALENTINA.
BAL.
Chi mi cerca?
Briccone! (furiosamente, trattenuto da Giuseppina)
BAL.
Un galantuom son io.
Perfido, scellerato, che fai tra queste soglie?
BAL.
Son, con vostra licenza, venuto a prender moglie.
Lo dici in faccia mia? dov'è la disgraziata?
FEL.
Portatemi rispetto; son femmina onorata.
Veh! (rimane incantato vedendo Felicita)
GIU.
Felicita è qui?
ROS.
Tal cosa io non sapea.
VAL.
Ecco, signor padrone, ecco di che son rea.
Non dovea veramente prendermi l'ardimento
Di far che si sposassero nel vostro appartamento;
Ma la povera donna, da tutti abbandonata,
Per carità qua dentro da me fu ricovrata.
So ch'io doveva dirvelo, so che soggetta io sono,
Questo è quel mancamento di cui chiedo perdono;
Ma questa lieve colpa mi saria perdonata
Da un padron generoso che mi ha beneficata,
Se non fosse il malanimo di due nipoti ardite,
Per odio, per vendetta, a rovinarmi unite:
Han ragion tutte due, hanno ragion d'odiarmi,
Perché ne' fatti loro io non dovea meschiarmi.
S'io le lasciassi fare l'amor con libertà,
Meco non tratterebbero con tanta crudeltà;
Ma perché della casa veglio all'onore, astuta,
Da queste signorine fui sempre malveduta.
Pazienza, anderò via. Ambe saran contente
Potran coi loro amanti trattar liberamente.
Perdo la mia fortuna. Tu perdi a un tempo stesso
Cento scudi di dote, ch'egli m'avea promesso. (a Felicita)
Ma pur che viva in pace il mio caro padrone,
Ogni buona speranza sen vada in perdizione.
Potrò dir che servito l'ho con amore e zelo.
Andiam, sarà di noi quel che destina il cielo.
ROS.
(Quasi mi fa da piangere). (da sé)
GIU.
(Che tu sia maladetta!
Come, per farsi merito, la tenerezza affetta!) (da sé)
Non so dove mi sia. Non so che non farei.
Con voi, frasche, pettegole, con voi mi sfogherei. (a Giuseppina e Rosina)
ROS.
GIU.
Con me? con me, signore?
GIU.
Ch'io sia com'è Rosina? Voi non mi conoscete. (a Fabrizio)
VAL.
La signora Geppina è giovane di merto,
Ha una mente felice, ha un intelletto aperto. (ironica)
GIU.
Voi avete uno spirito pronto, sublime e franco,
Abile a tramutare il color nero in bianco.
VAL.
Non arriverò mai al suo felice ingegno,
Di sostener capace ogni più forte impegno.
GIU.
Arriverete un giorno di tanta impertinenza,
Di tanta prosunzione, a far la penitenza.
Come! così si parla? (a Giuseppina)
VAL.
Saran della signora le gelosie troncate.
Di già da questa casa risolto ho allontanarmi,
Ed averà finito di dire e d'insultarmi.
No, che via non andrete; no, non vi lascio andare,
A costo ch'io dovessi ancor precipitare.
Meco restar dovete; non serva, ma signora,
Padrona infin ch'io vivo, e dopo morto ancora.
E voi, o in un ritiro dovrete intisichire,
O a lei, se vi comanda, star sotto ed obbedire. (a Giuseppina)
GIU.
Serva? mi maraviglio.
È donna di governo, è donna di consiglio.
GIU.
Da una vile servaccia non soffro questi torti.
Che vada a comandare al diavol che la porti. (parte)