Carlo Goldoni
Lo scozzese

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA   Camera di donna Giulia, con tavolino e sedie.   Donna Giulia e Fabrizio, ambi seduti al tavolino.

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ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA

 

Camera di donna Giulia, con tavolino e sedie.

 

Donna Giulia e Fabrizio, ambi seduti al tavolino.

 

FABR. Questa è la lettera che va al marchese di Cappio.

GIU. Sentiamo. Illustrissimo Signore, Signor mio colendissimo. Perché non ci avete messo il Padrone?

FABR. Perdoni; mi pare che scrivendo una dama ad un cavaliere che non è più di lei, non le convenga usare questo titolo di umiliazione.

GIU. No, no, io penso diversamente. Se esaminiamo i titoli che si danno, e quelli che si usano nelle soscrizioni, sono per lo più eccedenti alla verità, e qualche volta contrari all'animo di chi scrive. Ma dall'uso ne è derivato l'abuso. Mio Signore e mio Padrone suonano l'istessa cosa, e siccome questo titolo duplicato a me niente costa, e niente reca di più a chi scrive, io soglio usarlo prodigalmente. Molto più volentieri abbondo in termini di rispetto e di umiliazione con quelle persone dalle quali desidero qualche cosa; e spesse volte un titolo rispettoso, un'espressione di stima, move l'animo di chi legge, e ricompensa l'onore col benefizio. Io son contenta finora del mio sistema. Non ho mai trovato che la cortesia mi pregiudichi. Ho riscosso dagli altri quella civiltà medesima che ho praticata. Ho mantenute non solo, ma aumentate di giorno in giorno le corrispondenze, e sono a portata di far piacere agli amici, di far del bene ai raccomandati, e di superare qualunque impegno.

FABR. Savissimo è il pensamento della padrona; ma mi permetta il dirle, che il signor don Properzio pensa molto diversamente.

GIU. Sì, mi è noto il costume di mio marito. Ei scrupoleggia sopra tutte le cose.

FABR. Io non mi pregio di essere un buon segretario; ma per il lungo uso di tal mestiere, mi lusingo di saper formare una lettera. Eppure qualunque volta ho avuta l'occasion di servirlo, mi è convenuto correggere, mutare, ricominciare da capo. Parlo con tutto il rispetto, egli è sofistico al maggior segno (o per meglio dire, è il maggior seccatore di questo mondo).

GIU. Sì, avete ragione. Ma lo soffro io; lo potete soffrire anche voi. Sentiamo che cosa avete scritto al Marchese. Sono sensibilissima alla cortese maniera ed alla singolare prontezza, con cui V. S. illustrissima si è compiaciuta di favorire il mio raccomandato. Egli riconosce dalla di lei protezione la carica di Auditore che ha conseguito, ed io le resto in debito per quella benignità con cui le è piaciuto d'accogliere e di secondare le mie premure. Si accerti che niente più desidero, oltre il fortunato incontro di corrispondere coll'esecuzione di qualche di lei comando, e di manifestarmi coll'opere, quale piena di stima e di rispetto ho l'onore di protestarmi. Va benissimo. (vuol sottoscrivere)

FABR. Perdoni. Non vuol ch'io rifaccia la lettera per la mancanza del titolo di Padrone?

GIU. No, no, la penna ed il temperino possono di quel secondo Signore formar Padrone. Parmi che la fatica v'incresca, e non vorrei che mi diceste sofistica, con quella facilità con cui l'avete detto al padrone. (sottoscrive)

FABR. (Ha saputo trovar il tempo per rimproverarmi. Donna Giulia è una dama di spirito. La servo assai volentieri; ma con suo marito non si può vivere).

GIU. Rispondete a quest'altra lettera. Il barone di Sciarnechoff mi scrive, come vedrete, che la Corte di Peterburgo ha bisogno di un poeta drammatico, e siccome l'ho io servito in altre occasioni di sua premura, mi fa la finezza in quest'incontro di riportarsi a me nella scelta. Scrivetegli ch'io lo ringrazio, che cercherò di servir la Corte e le di lui premure nel miglior modo, e che quanto prima ne avrà sicuro riscontro.

FABR. Perdoni. Crede ella che potessi io esser degno di tal impiego?

GIU. Io non ho mai saputo che voi siate poeta.

FABR. Ho qualche diletto per la poesia.

GIU. Drammi ne avete fatti?

FABR. Per dire il vero, non mi sono in ciò esercitato. Ma con un poco di lettura, ed un poco di studio, credo non sia difficile poter riuscire in un paese dove non vi può essere tutta la delicatezza italiana.

GIU. No, no; vi consiglio di abbandonare questo pensiero. Se avete piacere di essere impiegato ad una Corte, cercherò di procurarvi qualche occasione più adattata all'abilità vostra. La Corte di Moscovia è assai colta per distinguere i buoni ed i cattivi poeti, e noi dobbiamo cercare di mantenere presso degli esteri la riputazione del nostro paese, e non mandar persone che ci facciano scomparire.

FABR. Dice benissimo, signora. Confesso il mio torto, e mi raccomando alla di lei protezione.

GIU. Prima per altro che rispondiate a questa lettera, s'ha da rispondere ad un'altra, che mi mette in maggior pensiere.

FABR. Procurerò di farlo colla maggior attenzione.

GIU. Mi preme tanto l'affare di questa lettera, che ne voglio prima l'abbozzo, non solo per ridurla a quel punto che io desidero, ma per conservarne presso di me la memoria.

FABR. Ella sarà servita come comanda.

GIU. È necessario ch'io v'informi del fatto, perché possiate capire la mia intenzione. Voi conoscerete don Alessandro.

FABR. Sì, signora. Non è quegli che dee maritarsi con donna Aspasia?

GIU. Sì, è desso che mi vuol mettere nel maggior imbarazzo del mondo. Ho maneggiato io quest'affare, e dopo infinite difficoltà ho condotto a buon termine il maritaggio. Ora questo giovane cavaliere trova ogni de' pretesti nuovi per dilazionare i sponsali. Veggio in lui un raffreddamento sensibile, e non trovando nelle sue parole di che compromettermi con sicurezza, voglio scrivere a don Sigismondo suo padre, protestandogli che non soffrirò in verun modo veder esposta la dama e me medesima ad un insulto. Questo dev'essere il sentimento della lettera, e siccome in una materiadelicata devonsi misurare i termini, per non eccedere e non mancare; così, com'io diceva, me ne farete la mala copia.

FABR. Sarà obbedita. (si pone a scrivere)

GIU. (Fabrizio ha del talento, è molto a proposito per gli affari miei, tuttavolta non lascierò di privarmene, se avrò l'incontro di poter fare la sua fortuna). (da sé)

 

 

 


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