Carlo Goldoni
La donna sola

ATTO TERZO

SCENA SETTIMA

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SCENA SETTIMA

 

I Servitori mettono in tavola e dispongono le sedie, e poi di quando in quando mettono e levano qualche piatto. Donna Berenice, don Filiberto, don Lucio, don Pippo  ed i suddetti.

 

BER.

A tavola, signori. Perché non vi cavate

La spada ed il cappello? (a Claudio)

CLA.

Ecco, se il comandate. (si leva la spada ed il cappello, e ogni cosa a Filippino)

BER.

A tavola d'amici distinzion non si fa:

Ciascun prende il suo posto con tutta libertà.

ISI.

La padrona nel mezzo.

BER.

Eccomi, sì signori. (siede nel mezzo)

AGA.

Io starò qui in un canto, lontano dai rumori. (siede nell'ultimo posto, a dritta della tavola)

LUC.

Io vicino di voi. (a donna Berenice) Chi vien presso di me?

BER.

Verrà don Isidoro.

LUC.

Starem male.

ISI.

Perché?

LUC.

Siam stati ancora insieme a qualcun altro invito,

E mi ricordo ancora che mi avete stordito.

ISI.

Oh, voglio rider certo, e chi non vuole, addio.

BER.

Via, da quest'altra parte venir potete. (a don Lucio)

FIL.

Ed io?

Compatisca don Lucio, lo prego a capo chino,

Ma qui ci vuò star io. (siede alla dritta di donna Berenice)

BER.

Sedete a lui vicino.

LUC.

No, no, stia dove vuole, non gli vuò dare impaccio.

Egli è un uom troppo caldo, ed io non son di ghiaccio.

BER.

Orsù, signori miei, le differenze in bando.

Venite qui, don Claudio.

CLA.

Sono al vostro comando. (siede vicino a donna Berenice, alla sinistra)

BER.

Sieda ognun dove vuole.

ISI.

Io di star qui destino. (siede presso don Claudio)

FIL.

(Ma intanto il mio rivale se lo ha posto vicino).

LUC.

Sederò in questo canto. (si pone in capo della tavola rimpetto a don Agapito, alla sinistra)

PIP.

Io sto da tutti i lati. (va a sedere presso don Filiberto e don Agabito)

BER.

Grazie al cielo, alla fine siam tutti accomodati.

Chi vuol zuppa di voi? (a tutti)

LUC.

Date a me il cucchiaione.

Voglio presentar io.

BER.

Volete voi? Padrone. (fa passare il cucchiaione a don Lucio)

LUC.

Oh, in questo non la cedo.

ISI.

Se il sa l'imperadore,

Vi fa della famiglia mariscalco maggiore.

LUC.

La prima impertinenza. (dispensando la zuppa)

ISI.

Si fa per allegria.

AGA.

Don Lucio, della zuppa vorrei la parte mia.

LUC.

Di qua nessun ne vuole; portatela di . ( il piatto a Filippino)

FI.

(Porta la zuppa dalla parte di don Agapito, levando il piatto che trovasi da quella parte, e lo porta dove era la zuppa)

AGA.

Sia ringraziato il cielo. (se la tira sul tondo)

PIP.

Noi faremo a metà. (a don Agapito)

Adagio, camerata; tutta per voi?

ISI.

Da bevere.

CLA.

Sì, presto.

ISI.

Nella zuppa vi han cacciato del pevere. (portano da bevere a don Isidoro)

LUC.

(Dispensa un altro piatto)

PIP.

Da bevere. (forte)

FIL.

Un po' presto si sveglia l'allegria.

BER.

Fate valer, don Pippo, la vostra poesia. (portano da bevere a don Pippo)

PIP.

Subito, all'improvviso. E perché son poeta,

Beverò alla salute del signor Bocca fresca. (accennando a don Agabito)

AGA.

A me? io non vi bado. (seguitando sempre a mangiare)

ISI.

Viva quel che si stima

Un poeta famoso, e non sa far la rima.

BER.

Basta, basta per ora; se si va troppo innanti,

Le rime, miei signori, saran troppo piccanti.

Sentite quel ragù, che mi par eccellente.

LUC.

Oh che bestialità! cattivo, e non val niente.

FIL.

Don Lucio, compatitemi, questa è un'impertinenza.

LUC.

L'ho detto, e posso prendermi con lei tal confidenza.

FIL.

Questa è una confidenza che i limiti sorpassa.

LUC.

Fra lei e me nessuno può saper quel che passa.

FIL.

Signora, che interessi seco avete in segreto?

BER.

Eh via, don Filiberto, vi prego di star cheto.

FIL.

Favorite di dirlo, che lo vogliam sapere.

CLA.

Si tace, se una dama comanda di tacere.

FIL.

Quando una donna tace, vi è sempre il suo mistero.

BER.

Voi vi piccate a torto.

LUC.

Io saprò dire il vero.

Lo dico in faccia a tutti.

BER.

Direte una pazzia?

LUC.

Dirò che Berenice dev'esser moglie mia.

FIL.

S'ella è così, signora, la mia pretesa è insana. (s'alza)

CLA.

S'ella è così, signora, la tolleranza è vana. (s'alza)

BER.

Voi mentite, don Lucio.

LUC.

Un mentitor son io? (s'alza)

Si fa cotale insulto, cospetto! ad un par mio?

È una donna che il dice, ma se un uom fosse quello...

FIL.

Io per lei lo confermo.

LUC.

La spada ed il cappello. (placidamente a Filippino)

BER.

Servite il cavaliere. (a Filippino)

FI.

Subito, immantinente.

LUC.

Mi farò render conto del tratto impertinente.

FI.

La spada ed il cappello. ( tutto a don Lucio)

LUC.

Andiam. (a Gamba, e parte)

BER.

Che bel trattare!

GAM.

Ed io, povero gramo, perduto ho il desinare. (parte)

ISI.

Son finite le risse?

BER.

Or resteremo in pace.

ISI.

Adunque alla salute di quel che più vi piace.

PIP.

Bravo, don Isidoro, questo brindisi è mio.

Son io quel che le piace: alla salute di io.

È rima, o non è rima?

BER.

È una rima perfetta.

AGA.

Ehi donna Berenice, che torta benedetta!

BER.

Voi almeno mangiate senza sentir rumori.

AGA.

Badino ai fatti loro; che gridino, signori. (mangiando)

BER.

Se altro mangiar non vogliono, levate i piatti tutti.

AGA.

Questa torta no certo. E non vi sono i frutti?

BER.

Che mettano il desèr.

ISI.

E le bottiglie ancora.

AGA.

(Io di qua non mi levo nemmeno per un'ora).

(i Servitori levano i piatti, e mettono il desèr)

FI.

Signor, vuol favorire questa torta? (a don Agabito)

AGA.

Perché?

FI.

Vorrei che ne restasse un poca anche per me.

AGA.

Tieni, metà per uno.

FI.

Grazie de' suoi favori.

ISI.

Bravo quel don Agabito.

AGA.

Che parlino, signori.

ISI.

V'invito quanti siete, signori, in questo loco,

A bere alla salute di quel che mangia poco.

PIP.

Io rispondo per tutti. La notte canta il cuco.

Evviva quel signore, che mangia come un lupo.

È rima, o non è rima, cosa mi dite?

ISI.

È un cavolo.

PIP.

Cosa parlate voi? non ne sapete un diavolo.

FIL.

Ma con qual fondamento colui ch'è andato via,

Ha potuto vantarsi di simile pazzia?

Voglio che sia uno stolto senz'ombra d'intelletto,

Ma con qualche principio certo l'avrà già detto.

CLA.

Ho dei sospetti anch'io, ma in grazia della dama

Taccio, m'accheto e credo

FIL.

Viltà questa si chiama.

CLA.

Non m'insultate, amico.

BER.

Tacete in grazia mia.

CLA.

Per ubbidir, non parlo.

FIL.

Tacere è codardia. (s'alza)

A vincer mi sfidaste un cuor di cui diffido.

A discoprir l'inganno per parte mia vi sfido. (a don Claudio)

BER.

Voi andate agli eccessi.

ISI.

Eh via che son freddure.

PIP.

Che dicono di sfida? (a don Agabito)

AGA.

Che si battano pure.

BER.

E avete cuore, ingrato, di perdermi il rispetto? (a don Filiberto)

FIL.

Con don Claudio io favello.

CLA.

Io la disfida accetto. (s'alza)

Sostengo che la dama è una dama d'onore,

E chi pensa il contrario, dico ch'è un mentitore. (vuol partire)

FIL.

Chi ha la ragione o il torto, vedrassi al paragone. (vuol partire)

BER.

Ah, che va in precipizio la mia conversazione.

ISI.

Scherzano, o fan davvero? è una disfida, o un gioco?

Non vuò guai, voglio ridere; andrò in un altro loco. (parte)

PIP.

Andrò da un'altra parte, l'aria non fa per me.

Lo vedrò un'altra volta il Libro del perché. (parte)

AGA.

La tavola è finita. Sono partiti tutti.

Vado anch'io, vuò pigliarmi quattro di questi frutti. (prende dei frutti, e parte)

FI.

Portate via la tavola, che or ora il cavalier

Porta via le salviette, i piatti ed il desèr. (parte)

(I Servitori levano tutto)

 

 

 


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